Abbazia Santa Maria di Pulsano Domenica «DELLA FESTA DELLE NOZZE»

XXVIII Dom. Tempo Ordinario A  Lectio Divina
Mt 22,1-14; Is 25,6-10a; Sal 22; Fil 4,12-14.19-20
Antifona d’Ingresso Sal 129,3-4
Se consideri le nostre colpe, Signore,
chi potrà resistere?
Ma presso di te è il perdono,
o Dio di Israele.
Il Sal 129,3-4 (SI) apre la celebrazione liturgica con una decisa proclamazione di fede del salmista che diventa così la preghiera dell’assemblea intera.
Nell’uso della Sinagoga e poi delle Chiese cristiane il salmo
129 ha assunto un rilievo singolare, formando generazioni di fedeli a pregare il Signore Vivente e Redentore dalle profondità insondabili della miseria e della necessità che attanagliano in modo che si può dire costitutivo tutti gli uomini, che lo riconoscano, oppure no. Così nella Chiesa bizantina esso è uno dei 4 Salmi lucernali, fissi per la celebrazione del Vespro. Nella Chiesa latina esso faceva parte dei cosiddetti «Sette Salmi penitenziali» (Sal 6; 31; 37; 50; 101; 142, tutte SI, a eccezione del Sal 31, che è un’AGI).
Il Sal 129 proviene da un’anima carica di sentimenti, di sensibilità e di potenza espressiva, impregnata di senso della preghiera forte, ed insieme sommessa, di una profondità spirituale poco comune. Anche il suo vocabolario è concentrato sull’aspetto orante dell’esistenza di fede.
Perciò il corpo del Salmo (vv. 2-8) comincia con una ben fondata supplica, l’epiclesi per ottenere l’ascolto divino, con la solita immagine del Signore che “si tende” verso il suo fedele “con le orecchie”, cioè con tutta la Persona che si fa presente ed operante (v. 2). Ben fondata, in quanto il Salmista ha la certezza della irrisoria facilità con cui il Signore supera ogni possibile abisso umano.
Questo è esplicitato poi nella riaffermazione della fede (vv. 3-4) dell’Orante. Il Signore, è detto in forma interrogativa, non sta ad osservare, come divino ma triste e meccanico contabile, le iniquità, l’unico prodotto dell’abisso della malizia degli uomini viventi. Se esistesse tale contabilità, sotto la legge inesorabile del pagano «do ut des», a cui corrisponderebbe una specie di inerziale «da ut dem» divino, la partita commerciale per gli uomini sarebbe sempre in irreparabile perdita, e il “dio giustiziere” annichilerebbe tutti gli uomini. Ma la domanda del Salmista al v. 3 non ammette questa “immagine e somiglianza dell’uomo” che è il “dio giustiziere” di tipo calvinista, vero ectoplasma di coscienze non realmente bibliche e cristiane; come quando da tante parti si chiede, come pretesto per impegnarsi il meno possibile nella fede: “Ma come permette “Dio” tanti diabolici disastri, guerre, fame, genocidi, stragi di bambini...?”; ma nell’ottusità dell’animo umano ripieno di odio contro se stessi, Dio, il prossimo ed il mondo, non ci si chiarifica che tutti quei mali sono sempre e solo prodotto umano.
Per nostra fortuna l’uomo può ancora “sussistere” (v. 3b) perché esiste solo il Signore Dio Vivente infinitamente misericordioso, che accetta di affacciarsi sull’abisso umano, per trasformarlo in luogo dell’Abisso della divina misericordia. Questo è spiegato subito dopo. «Poiché presso Te la propiziazione esiste»: il v. 4 esplicita dunque la professione di fede, affermando che solo presso il Signore sta il hilasmós, la propiziazione (da hiláskomai, rendere propizio, vedi l’aggettivo hileós, propizio, favorevole, benevolo, placato, benigno, cortese, buono, anche hilaós; e vedi il termine hilastêrion, strumento di propiziazione, il coperchio dell’arca su cui si spruzzava il sangue del sacrificio propiziatorio). Il termine ebraico qui è šelîhah, invia, missione, dimissione, perdono, abbuono. Solo il Signore dunque è sempre propizio, favorevole, pronto a perdonare e all’abbuono universale delle colpe. È uno dei modi di manifestare il suo éleos dell’alleanza. Qui la fede e la fiducia dell’orante è totale, basata, ancora una volta, sulla esperienza storica e spirituale.

Canto all’Evangelo (cfr Ef 1,17-18)
Alleluia, alleluia.
Il Padre del Signore nostro Gesù Cristo
illumini gli occhi del nostro cuore
per farci comprendere
a quale speranza ci ha chiamati.
Alleluia.

I versetti adattati di Ef 1,17-18 riportano una classica epiclesi (invocazione) sapienziale qui rivolta al Padre affinchè conceda e doni la grazia della sua Luce poiché senza questa Luce gli occhi del cuore dei fedeli non sarebbero in grado di sperimentare e contemplare la speranza della vocazione divina ricevuta, a partire dall’ascolto dell’Evangelo. Dio ha in mente una festa universale per l’umanità. Gli inviti sono stati trasmessi dai profeti, poi dagli apostoli: ma si sa che magra accoglienza ricevettero. Il credente, salvo rare eccezioni, preferisce la sua tranquillità, la carriera che a poco a poco si è costruita, i suoi interessi alla gioia universale. A forza di attaccarsi alle piccole cose, i giudei e i farisei hanno dimenticato l’essenziale e hanno perduto tutto, compreso il simbolo della loro gloria, Gerusalemme, rasa al suolo da Tito. Anche l’ostinazione della chiesa su alcune questioni di dettaglio, in passato, ha avuto penose conseguenze per la sua unità. Bisogna che il popolo di Dio ritrovi la sua vocazione universale e si lanci sulle vie del mondo, chiamando ogni uomo di buona volontà.
Chi non si affretterebbe ad accettare un invito a nozze? È davvero inverosimile il racconto riferito da Matteo! Un re che deve mandare a chiamare per due volte gli invitati, e questi che reagiscono con l’indifferenza o con un atteggiamento duramente ostile; il passaggio improvviso dalla festa alla repressione degli invitati ribelli, la cui città viene data alle fiamme; i nuovi commensali raccolti a caso lungo le strade per riempire la sala; e quel povero diavolo buttato fuori nelle tenebre, anche se non ha avuto né il tempo né i mezzi per procurarsi l’abito nuziale. Tutto questo non è naturale. E infatti la parabola si riferisce a una realtà soprannaturale, quella della salvezza: la festa di gioia e di comunione a cui sono invitati, dapprima Israele, e poi la chiesa e tutta l’umanità. La parabola descrive a grandi linee lo sviluppo di questa storia: il rifiuto e l’ostilità di Israele di fronte all’invito dei profeti e dei giusti, così come all’annuncio dell’evangelo da parte di Gesù e dei suoi apostoli; la distruzione di Gerusalemme (70 d.C.), che assunse valore simbolico agli occhi della prima comunità cristiana; l’espansione missionaria della chiesa tra i pagani.
Tuttavia, «molti sono chiamati, ma pochi eletti». Si può essere cristiani di nome senza impegnarsi in un cammino di conversione, ci si può credere invitati al banchetto del regno e rimanere indifferenti di fronte ai piatti vuoti di tanti bambini sulla terra. È la vita battesimale che conta, non il certificato di battesimo; è l’abito di cui parla l’apostolo quando dice che dobbiamo «rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera» (Ef 4,24). Senza questa novità di vita, il biglietto d’invito conterà ben poco agli occhi del re!
Siamo sempre a Gerusalemme, luogo dove l’itinerario di Gesù termina con la Croce e il Signore seguita il suo insegnamento pubblico che da Mt 21,23 prosegue fino a 23,39. Dopo il Signore parlerà solo in privato ai suoi discepoli con il complesso "discorso escatologico" che occupa due capitoli (24,1-25,46).
L’insegnamento di Gesù, lo ripetiamo instancabilmente, è il programma battesimale quando ricevuto il Battesimo nello Spirito e "unto" di Spirito Santo e di Potenza (At 10,38 discorso di Pietro in casa di Cornelio) è così consacrato per la Divina Liturgia (l’opera per il popolo), che il Padre, il Divino Liturgo, decreta e svolge per intero nei Divini Conliturghi, il Figlio e lo Spirito Santo.
II ministero messianico al quale il Padre invia il Figlio con lo Spirito Santo consiste in tre operazioni:
1. annunciare l’Evangelo del Regno,
2. compiere le opere della Carità del Regno,
3. riportare tutti al culto salvifico da tributare al Padre.
L’affascinante parabola di oggi, collegata nel contesto letterario alle due precedenti, è nota con il titolo di «parabola del convito nuziale» ed è riportata solo da Luca (cfr. 14,15-22), con dettagli alquanto divergenti.
La discordanza dei dettagli tra Matteo e Luca è talmente grande che si è giustificati a dubitare che entrambi gli evangeli attingano alla stessa fonte (la ipotetica fonte Q); ma le prove di un’ampia rielaborazione da parte dell’evangelista Matteo sono chiare.
Invece di una cena Matteo ha una festa di nozze reali e in aggiunta alle scuse addotte dagli invitati in Luca, Matteo inserisce una variante estremamente discordante: l’uccisione dei messaggeri e la guerra che ne segue. Nonostante le differenze si può tuttavia ritenere che i testi degli evangelisti Matteo e Luca rappresentino diverse versioni di una stessa parabola originaria, ricostruibile a grandi linee assumendo gli elementi comuni ai due evangelisti. La parabola originaria dovette comprendere solo i vv. 2-5 e 8-10, come nella redazione Lucana, e la conclusione finale del v. 14.
I vv. 11-13 invece appartengono a un’altra parabola a sé stante, quella della «veste nuziale» mentre i vv. 6-7 sono un’inserzione dell’evangelista che, ispirandosi alla parabola dei vignaioli (cfr. 21,35-39), ha voluto alludere in modo velato ma eloquente alla distruzione di Gerusalemme del 70 d C.
A causa di questi ritocchi la parabola si è mutata in una vasta allegoria, in cui viene descritta a grandi linee la storia della salvezza: non si tratta più di un racconto tratto dall’esperienza quotidiana che porta l’ascoltatore a formulare un giudizio su un elemento essenziale della vicenda raccontata, in modo tale che l’ascoltatore stesso si comprometta personalmente con la realtà che sta vivendo e intuisca così il pensiero del narratore, Matteo invece ha riscritto la parabola facendola diventare un’allegoria, ovvero un breve schizzo di storia della salvezza, dove ogni elemento narrativo ha un corrispettivo nella realtà storica.
Accostando questo racconto alla parabola dei vignaioli omicidi (Mt 21,33-46, proclamato domenica scorsa), l’evangelista ha riutilizzato lo stesso schema letterario e il significato simbolico di quella per interpretare anche questa. Il senso generale è dunque lo stesso, cambia solo l’immagine metaforica, passando dal simbolo della vigna a quello del banchetto di nozze: Israele ha rifiutato l’invito di Dio e il suo posto è stato preso da altre persone.
L’insegnamento della parabola, nella sua versione originaria, è dunque quello delle due precedenti: coloro che sono stati chiamati per primi, con il loro rifiuto si escludono da sé dal regno di Dio e il loro posto è preso da altri.
L’aggiunta della parabola della «veste nuziale» serve da monito per i cristiani che, come i primi chiamati rimasti esclusi dal banchetto messianico per il loro colpevole rifiuto, possono anch’essi essere cacciati per indegno comportamento.
La vocazione cristiana non comporta per se stessa la salvezza finale e non è per i credenti una garanzia magica di partecipazione al regno.

Esaminiamo il brano

v. 1 «Riprese a parlar loro in parabole» : Il pubblico per questa parabola è lo stesso che nella precedente: i capi dei sacerdoti e i farisei (21,45).
La parabola dell’evangelo di oggi è introdotta da una annotazione redazionale: «Rispondendo Gesù... »; che avverte che si sta iniziando un nuovo discorso ed è tipica nel N.T. (nei 4 evangeli e nel libro degli Atti) dove la troviamo circa 94 volte (in Mt circa 43 volte e senza che vi sia una domanda a cui si debba rispondere).
v. 2 «Il Regno dei cieli è simile…»: Espressamente Matteo inizia il racconto con la formula tipica delle parabole del Regno: la narrazione dunque mira ad illustrare un aspetto dell’intervento escatologico di Dio, paragonato (allegoricamente) ad un re che organizza il banchetto di nozze per suo figlio. Da una semplice cena (in Luca) Matteo parla di un banchetto di nozze per il figlio del re e i ritocchi dell’evangelista non lasciano dubbi sul loro significato simbolico: il re è Dio, il banchetto a cui invita gli ospiti è un pranzo di nozze - figura tipica dell’alleanza - per il figlio del re che allude chiaramente al Messia, inteso come Figlio di Dio, secondo l’immagine attinta dalla parabola precedente.
«un banchetto di nozze»: l’immagine del convito quale simbolo delle nozze messianiche è presente sia nell’AT che nel NT (essa compare già nel libro di Isaia, nello scenario grandioso del monte Sion (cfr. Is 25,5ss, la I lett.; 55,1-3; 65,13; Sal 22 (21),27; Sal 23 (22),5; Mt 8,11; 26,29; Mc 14,25; Lc 14,15; ecc.). Va notato subito che non si parla dello sposo, che resta un’identità misteriosa, né della sposa, altra figura da identificare.
La narrazione punta piuttosto sull’azione del Re (è il soggetto di quasi tutte le azioni della parabola ed è l’unico che prende la parola) e sulle reazioni degli invitati (il più delle volte un colpevole silenzio).
La parabola con il suo linguaggio di teologia simbolica ci spinge a cercare queste due persone:
1. lo sposo : nei sinottici è Cristo; il testo seguito è Mc 2,19-20 (cfr. Mt 9,15-16; Lc 5,34-35). Giovanni pone questo detto, con la nota della gioia e con trasposizioni evidenti, sulla bocca del Battista (Gv 3,29). Nella tradizione giovannea poi lo sposo è l’Agnello immolato ma risorto (Ap 19,7), verso cui lo Spirito spinge la sposa, che invoca il suo Amato affinché venga (Ap 22,17).
2. la sposa : la riconosceremo alla fine della parabola.
v. 3 II Re nella sua maestà e nel suo prestigio invia i servi a «vocare i vocati», bel gioco di parole centrato sul verbo Kaléò, vocare, chiamare, invitare.
La chiamata o l’invito è un tipico elemento dell’evangelista Matteo; è presente sia nella vocazione dei primi discepoli (4,18­22) come pure nell’uso di molte parabole [il proprietario della vigna chiama i lavoratori per pagarli: 20,8; l’uomo che parte chiama i servi per affidar loro i talenti: 25,14; nel famoso detto di Gesù:«Non sono venuto per chiamare i giusti, ma i peccatori»(9,13)].
La sua chiamata è ripetuta. Essa è permanente e appare anche come universale, per «cattivi e buoni».
Il Re appare realmente come ho Kalón, il Vocante.
Il verbo ricorre 6 volte, con scansione insistita (vv. 3.4.9.10.14); non solo, ma segna i tempi del prima, del poi, dell’eterno presente, dunque è chiamata attuale.
È come una pesca ripetuta che riempie le reti, una pesca miracolosa (cfr. Gv 21,11; Lc 5,4-7) di «pescatori di uomini» (4,18-22).
La parabola della rete si realizza (13,47-50).
Le Nozze, con l’articolo e senza ulteriore specificazione, sono le Nozze per eccellenza, le prime ed ultime nozze; si tratta dell’evento principale del Regno.
Alla premurosa chiamata corrisponde la negligenza colpevole degli invitati; questa «vocazione-invito» riceve una secca e totale risposta:«non vollero venire».
v. 4 «Mandò di nuovo»: Anche con le stesse parole della parabola dei vignaioli omicidi vengono poi ricordate due missioni successive dei servi; al primo gruppo, in cui si possono riconoscere i profeti, gli invitati risposero con un rifiuto; il secondo gruppo può solennemente annunciare che «tutto è pronto» e perciò rappresentano gli apostoli stessi del Cristo: anche ad essi gli invitati rispondono con l’indifferenza e la violenza. Il Re insiste, desidera tutti alla sua festa. Gli invitati sono davvero importanti se il Re tiene tanto ad averli; la cortesia e l’insistenza del Re mostrano anche l’altro aspetto, la gratuità del dono che gli invitati riceverebbero; nulla da essi si chiede, se non la partecipazione. Ma il tempo sta scadendo.
vv. 5-6 Gli invitati rispondono con l’oltraggio e questo rifiuto è il primo fatto inatteso del racconto. Matteo lo descrive con una breve frase che contiene però tutto l’essenziale del più ampio resoconto di Luca. I convitati se ne vanno: i più pacifici, alle aziende agricole o ai mercati, dunque gli affari «loro ». Sono le preoccupazioni ritenute decisive, che si permette che occupino tutto il proprio spazio d’esistenza, e che rendono insensibili ad ogni altra istanza, pur decisiva.
I più risentiti poi catturano gli inviati del Re, li oltraggiano e li uccidono (cfr. vignaioli omicidi).
Nella versione di Luca gli invitati semplicemente rifiutano l’invito, perché hanno altri impegni; invece nel racconto di Matteo coloro che ricevono l’invito a pranzo non solo non se ne curarono, ma addirittura presero i servi, li insultarono e li uccisero. Non è realistico che un invitato uccida chi reca un invito a nozze, ma la scena vuole alludere a qualche altro fatto, di cui è solo figura letteraria. Infatti nell’intenzione di Matteo tale violenta reazione rispecchia gli eventi drammatici del Cristo e della prima comunità cristiana. Pertanto in questo racconto non dobbiamo cercare la verosimiglianza storica, ma piuttosto il senso allegorico come veicolo letterario per proporre una interpretazione teologica della storia. L’evangelista ha forse voluto ricordare anche in una rapida nota la distruzione di Gerusalemme, avvenuta nell’anno 70 d.C. per opera dell’esercito romano: il suo intento teologico è quello di giustificare tale fatto storico, inserendolo nel piano divino della salvezza. Subito dopo infatti compare, in bocca al re, la motivazione del nuovo invito: «Gli invitati non ne erano degni».
v. 7 «uccise e diede alle fiamme»: I1 Re adirato giustamente, invia le sue truppe, infligge la rovina agli omicidi (cfr. 21,41; Lc 19,27), incendia le loro città. Giustizia è fatta.
La severità del re dopo il rifiuto dei primi invitati, egli infatti non si limita ad uccidere i colpevoli ma distrugge la loro città, fa nascere il problema delle conseguenze del male su chi non è colpevole. Si legga a questo proposito Gen 18,23-33 (la trattativa di Dio con Abramo per salvare i giusti di Sodoma). L’interrogativo rimane: nella realtà il male si abbatte anche sugli innocenti!
v. 8 Tuttavia, al Re non basta; a lui stanno a cuore le Nozze. Per la terza volta, numero simbolico, torna al suo progetto. Parla ai servi e dice «Le Nozze sono pronte ma i vocati non erano degni». Questi invitati rappresentano sia il popolo giudaico che i loro capi; in Luca essi rappresentano soltanto il popolo giudaico nel suo insieme.
v. 9 «Andate»: gr. poréuomai, verbo che sta all’inizio della missione (vedi 10,6, «discorso di missione») ed alla fine, quando l’invio dei discepoli ha la vastità del mondo (28,19).
«chiamate»: è un imperativo aoristo che ordina di iniziare un’azione nuova.
v. 10 «raccolsero»: I servi eseguono e radunano tutti, verbo synàgò, da cui synagógè, assemblea, e synaxis, assemblea liturgica.
«buoni e cattivi »: Interessante la specificazione fatta da Matteo; Luca (14,21) invece specifica di chiamare i ciechi, gli zoppi.., tutti gli emarginati in una parola. Non più fame, né morte, né vergogna: tutto ciò che spegne e incupisce gli sguardi e sfigura tanti volti, svanirà al sole di Dio. Gli invitati alla mensa del Signore sono i rifiuti della società, i miserabili, le vittime della fame di pane, di verità, di perdono: Dio li sazierà. Ma questa speranza ha bisogno di un segno attuale e concreto: occorre un luogo dove si ritrovi il gusto della festa, la nobile dolcezza dell’amicizia e la gioia di vivere. Questo luogo è la Chiesa, o almeno dovrebbe esserlo.
L’evangelista Matteo non ci dice nulla dei primi, nè dei secondi invitati, a lui non interessano le categorie sociali, ma si comprende chiaramente che l’invito al regno è rivolto a tutti, indipendentemente dalla loro situazione spirituale di partenza. Radunano «cattivi e buoni», tali considerati agli occhi del mondo; è anche il caratteristico modo orientale di esprimere la totalità (cfr. Gen 2,17, «conoscenza del bene e del male » e vedi anche salmi). È evidente il riferimento alla grande svolta, avvenuta nella Chiesa apostolica, della predicazione ai pagani e dell’accoglienza nella comunità di moltissime persone provenienti dal mondo ellenistico non ebreo.
La scena parabolica si spiega con l’affermazione sintetica che gli Atti degli apostoli mettono in bocca a Paolo e Barnaba di fronte all’ostilità dei giudei di Pisidia: «Era necessario che fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco: noi ci rivolgiamo ai pagani» (At 13,46). I pagani, cioè le genti (tà éthné), si rallegrano per questo invito e l’accolgono con gioia, glorificando la parola del Signore. «cattivi e buoni» (ponerás te kài agathiìs): la terminologia è molto simile a quella adoperata nella parabola della rete che raccoglie ogni genere di pesci (Mt 13,47-50) e richiama la stessa idea della parabola della zizzania (Mt 13,24-30.36-43). In tal modo prepara l’immagine della separazione fra buoni e cattivi che svilupperà nella parte finale.
L’immagine fondamentale della parabola evangelica richiama anche la grande promessa del banchetto escatologico contenuta nella raccolta di oracoli comunemente detta «grande apocalisse di Isaia» (Is cc.24-27): si tratta di una raccolta post-esilica di testi vari, unificati dal genere letterario apocalittico, che annuncia l’intervento definitivo di Dio, il grande giudizio di separazione fra buoni e cattivi con l’instaurazione del regno definitivo.
Il brano scelto dalla liturgia per la I lettura (Is 25,6-10a) contiene proprio la descrizione celebrativa dell’ultimo atto della storia: dopo la sconfitta finale del male, è inevitabile che segua una grande festa di vittoria e non può esserci festa senza banchetto. Così, partendo dalla realtà consueta di un grande evento celebrato con un lieto e abbondante pranzo fra amici, l’autore crea l’immagine del banchetto escatologico preparato con eccezionale ricchezza da Dio stesso sul monte santo di Gerusalemme (nella sua casa, cioè) a cui inviterà tutti i popoli della terra per festeggiare la fine del vecchio mondo cattivo. In tal modo a tutti i popoli - dice il profeta - sarà offerta la possibilità di gustare in gioiosa convivialità la presenza stessa di Dio, che finalmente si sarà mostrato faccia a faccia, senza più veli, e godere in pieno la vita nuova offerta da Dio dopo l’eliminazione di ogni male e del peggiore dei mali che è la morte.
Nella pienezza dei tempi dunque, annuncia in sostanza il profeta apocalittico, Dio interverrà nella storia e, distrutto il male, accoglierà gli uomini che sperano in lui in una gioiosa intimità di vita, come in uno splendido pranzo di famiglia.
vv. 11-13 Il Re si cura anche dello svolgimento delle Nozze; tutti godano, tutto stia in ordine. L’episodio della veste tuttavia mal si adatta alla parabola che lo precede. La giustificazione davanti al rimprovero sarebbe stata, in tal caso, a portata di mano; il convitato invece tace e confessa la sua colpa. Egli non è uno degli invitati chiamati nella strada dal Re misericordioso per riempire la sala del convito, dopo che i primi chiamati hanno rifiutato l’invito.
La sua storia è evidentemente un’altra ed è la storia d’una colpa. Cosicché anche il Re, che ora lo punisce crudelmente non è lo stesso Re misericordioso di prima, ma un altro personaggio che esercita un compito di giudice severo.
Non sono gli stessi neppure i servi. Nella parabola del banchetto i primi messaggeri del Re sono appunto dei «servi-schiavi» (in gr. douloi); ma ora, gli incaricati di espellere l’ospite senza la veste nuziale sono, secondo il più esatto testo greco, diàkonoi , cioè dei diaconi o ministri (siamo in un’assemblea cristiana intenta a celebrare il banchetto eucaristico).
Anche la morale è diversa da quella della parabola principale, e precisamente questa: per entrare nel regno di Dio si esigono determinati requisiti morali.
L’ultima scena matteana corrisponde molto probabilmente, attraverso un’immagine parabolica, alla situazione della sua comunità. Molti cristiani ritenevano sufficiente l’adesione iniziale al Cristo senza altre implicanze per la vita quotidiana: ne era inevitabile conseguenza una valutazione magica dei riti sacramentali e un pericoloso lassismo morale. Per educare questa gente Matteo aggiunge alla parabola degli invitati un altro racconto (forse originariamente indipendente) sulla condizione per partecipare al banchetto. Non ha senso, ancora una volta, notare l’incongruenza narrativa, perché l’intento del testo è chiaramente allegorico e non parabolico. Ugualmente è scorretto contestare il racconto e immaginare scusanti per l’invitato senza abito nuziale. Un buon lettore cerca di capire il testo come è; perciò deve anzitutto chiarire il significato dell’abito nuziale.
«l’abito nuziale»: era costume in Oriente che i sovrani, invitando, donassero agli ospiti ricche vesti, profumi, alloggi sontuosi. Guai a rifiutare la munificenza, era un affronto sanguinoso. Non risulta tuttavia che una simile usanza vigesse ancora al tempo di Gesù, per cui si potrebbe riferire soltanto ad un vestito da festa, un abito decente, riservato per particolari occasioni, sebbene non solo per feste nuziali.
Ma i convitati di Matteo venendo direttamente dai «crocicchi delle strade» non erano certo obbligati ad aver indosso un abito festivo (se pur lo possedevano!).
Sarebbe grossolano supporre che essi abbiano prima potuto recarsi a casa per prendere un vestito.
A costruire lo sfondo di questa parabola, meglio che il racconto del convito nuziale, serva una parabola rabbinica raccontata da Johanam ben Zakkai (verso 1’80 d.C.). Essa si dipana lungo la falsariga del racconto delle 10 vergini:
Un re invitò i suoi servi ad una festa, ma senza fissare il tempo. Quelli più saggi tra di essi si abbigliarono e si sedettero all’ingresso del palazzo reale. Dicevano: poco manca ancora nel palazzo del re. Ma gli stolti tra di essi continuarono il loro lavoro ordinario, dicendo: c’è forse una festa senza una lunga attesa? Ora il re chiamò improvvisamente i suoi servi. Quelli saggi entrarono, essendo convenientemente abbigliati. Ma quelli stolti non entrarono alla sua presenza, essendo tutti sudici. Allora il re si rallegrò con i saggi, ma si adirò con quelli stolti e disse: «Quelli che si abbigliarono per la festa si siedano e bevano; ma quelli che non si prepararono per la festa rimangano fuori in piedi a guardare ».
Sullo sfondo di questo racconto rabbinico e della parabola delle 10 vergini, anche il personaggio del nostro racconto rivela meglio la sua fisionomia. Egli è un invitato a nozze che si è lasciato cogliere di sorpresa dall’ora del convito.
Nella parabola rabbinica l’abito da festa significa chiaramente la penitenza; è l’abito pulito e nuovo, nato dalla conversione e dalla purificazione delle colpe.
Nella versione predicata da Gesù invece l’abito da lui voluto è quello «nuziale», si tratta qui di una vera «teologia della veste»:
il Signore stesso «ama il forestiero per donargli cibo e veste» (Dt 10,18); nella parabola l’ordine è di chiamare chi passa, i forestieri (v. 9);
dona la veste nuziale alla sposa sua, dono della sua grazia (Is 52,1), «vesti di salvezza, manto di misericordia»; «come lo sposo con il turbante, come la sposa con i monili» (Is 61,10); leggere anche Bar 5,l-4a la dona in segno di vittoria (Ap 3,5; 7,9.13-14);
nel N.T. tale veste preziosa e sfarzosa è lo Spirito Santo che ci riveste «dall’alto» (Lc 24,49), come dono del Padre mediante il Figlio;
è anche Cristo Signore: Gal 3,27; Rm 13,14.
Nel Rito del Matrimonio alla memoria del Battesimo dopo l’invito iniziale (possibilmente presso il fonte battesimale) e prima dell’aspersione con l’acqua benedetta il sacerdote ad un certo punto dice: «Spirito Santo, potenza del Padre e del Figlio, oggi fai risplendere in N. e N. la veste nuziale della Chiesa» (55).
Il simbolo della veste e delle nozze si trova frequentemente nella letteratura apocalittica per indicare la salvezza e l’appartenenza alla comunità dei salvati. Ed è proprio l’Apocalisse di Giovanni che ci spiega il significato dell’abito nuziale offerto alla sposa dell’Agnello: «La veste di lino sono le opere giuste dei santi» (Ap 19,8b). Con tale simbolo dunque Matteo presenta la fedele attuazione della volontà divina, l’impegno concreto di una vita fraterna e, alla luce del giudizio finale e della futura separazione, ricorda con fermezza la necessità di coerenza tra fede e vita.
«Amico»: Come il Signore della vigna fa il processo all’operaio che non si accontenta di 1 denaro, e lo chiama «amico », così il Re delle Nozze.
È la medesima domanda del Signore a Giuda, precisamente: «Amico, a che ti presenti?»» (26,50). Tace l’operaio; tace Giuda, tutti i colpevoli tacciono di fronte al Signore.
«Legatelo e gettatelo fuori»: accade come nella parabola della zizania, l’erba cattiva è destinata al fuoco; come il servo inutile del talento sterile (25,30), è gettato nelle tenebre. I «gettati» staranno nel pianto e nello stridore di denti, espressione che allude al fuoco consumatore della gehenna.
«molti... pochi...»: Forse questo detto di Gesù esprimeva originariamente tutta la sua amarezza nel constatare come il suo appello di salvezza rivolto a tutti («molti», ebraismo per moltitudine) avesse trovato così scarsa corrispondenza.
A conclusione della parabola del convito nuziale, dove solo uno non appare in regola, il detto suona come una nota paradossale.
Nella parabola delle 10 vergini, ben 5 sono escluse.
Ecco l’avvertenza severa: «Vegliate, poiché non conoscete giorno né l’ora» (25,13).
Riportato a conclusione della parabola i "molti chiamati" sono gli Israeliti, i primi invitati che non hanno risposto all’appello divino.
«Molti-pochi»: nel linguaggio biblico indica un rapporto più qualitativo che numerico.
La Sposa : Chi è la Sposa? Anche il brano parallelo di Luca non parla della sposa. Né lo sposo della parabola delle 10 vergini che porta la Sposa nel corteo nuziale (Mt 25,6).
Le dieci vergini sono la Sposa, benché in realtà lo siano solo le 5 sapienti.
I «vocati» del convito di nozze sono la Sposa, la comunità radunata dal Re per il Figlio, benché uno ne sia escluso.
Tutto quello che abbiamo detto sopra non lascia dubbi. È la città di Dio; la Gerusalemme nuova, radunata da ogni angolo della terra (cfr. Ap 21,1-2.9).
«Conoscete lo Sposo: è Cristo. Conoscete la Sposa: è la Chiesa» diceva S. Agostino in un suo appassionante discorso sulla parabola di oggi (Disc. 90,1.5.6).

II Colletta
O Padre,
che inviti il mondo intero
alle nozze del tuo Figlio,
donaci la sapienza del tuo Spirito,
perché possiamo testimoniare
qual è la speranza della nostra chiamata,
e nessun uomo abbia mai a rifiutare
il banchetto della vita eterna
o a entrarvi senza l’abito nuziale.
Per il nostro Signore Gesù Cristo...

lunedì 6 ottobre 2014
Abbazia Santa Maria di Pulsano

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