Abbazia Santa Maria di Pulsano Lectio Divina DOMENICA «DEI SERVI INUTILI»

DOMENICA «DEI SERVI INUTILI»
XXVII del Tempo per l’Anno C

Luca 17,5-10; Abacuc 1,2-3; 2,2-4; Salmo 94; 2 Timoteo 1,6-8.13-14

Antifona d'Ingresso Est 4,17bc
Tutte le cose sono in tuo potere, Signore,

e nessuno può resistere al tuo volere.
Tu hai fatto tutte le cose, il cielo e la terra
e tutte le meraviglie che vi sono racchiuse;
tu sei il Signore di tutto l'universo.

Il testo dell’antifona d'ingresso (Est 13,9.10-11)  fa parte della «preghiera di Mardocheo» (vv. 7b-17), una confessione di fede nel Signore Unico in terra straniera, che termina con la grande «supplica epicletica per la nazione» (vv. 15-17). In questo centone di testi, si vede Mardocheo prostrarsi a proclamare e adorare la regale Volontà del Signore, alla cui Sovranità tutto è sottomesso, poiché il Creatore del mondo seguita a reggere nell'esistenza ogni creatura, e nessuna di queste può sottrarsi a quanto dispone il suo regale decreto (Ger 50,29); tutto quanto contiene «il cielo e la terra», ossia la totalità dell'esistente, è creato da Lui, e tutto e tutti a Lui riconoscono di essere soggetti.

Canto all’Evangelo 1Pt 1,25
Alleluia, alleluia.
La parola del Signore rimane in eterno:
e questa è la parola dell’Evangelo
che vi è stato annunciato.
Alleluia.

Il testo del canto all’evangelo rimanda alla santa Iniziazione e costituisce uno dei ricchi temi della divinizzazione. Precedentemente, al v. 23, Pietro aveva affermato che i fedeli sono stati generati dalla Parola del Dio Vivente ed eterno, quale Seme incorruttibile (Gv 1,12-13; 3,3; Giac 1,18).
Il v. 25 dell’apostolo che cita qui Is 40,8b «la Parola di Dio rimane in eterno» (vedi anche Sal 118,89), si pone in contrasto di fronte alla fragilità di tutte le realtà create, in specie alle più fragili, quelle umane e vi aggiunge l’enunciato apostolico: ai fedeli è stata annunciata questa Parola divina, l’Evangelo di Dio, non parole solo umane.
Nella «salita a Gerusalemme» (Lc 9,51 - 19,28) in questo testo singolare, proprio solo dell’evangelista, Luca narra il lungo «esodo che si doveva consumare a Gerusalemme» (Lc 9,31), secondo il quale attraverso la Croce e la Resurrezione Cristo deve tornare al Padre. Lungo l’itinerario Gesù seguita ad attuare il suo ministero messianico nello Spirito Santo, operando i prodigi, ma soprattutto insegnando in modo instancabile ai discepoli e alle folle che Lo circondano la dottrina del Regno. Gesù seguita ad insegnare rispondendo agli apostoli che l’hanno interpellato con una richiesta; ribadisce la potenza della fede e vi aggiunge alcune note severe sul servizio dei discepoli, che è gratuito e disinteressato. Il contesto del brano ci dice che siamo ormai prossimi ad iniziare l’ultima tappa del cammino verso Gerusalemme (17,11), anche se la collocazione dei vv. è da considerarsi più frutto dello stile redazionale di Luca che di un preciso contesto.
Le parole di Gesù sulla fede si trovano negli evangeli sinottici in quattro forme differenti, due delle quali sono assai vicine (vedi Mt 21,21; Mc 11,22-23) e annesse all’episodio del fico inaridito in seguito alla maledizione di Gesù. Mt 17,20 riferisce la medesima sentenza, in una forma leggermente diversa, quando il Maestro spiega agli apostoli perché non sono riusciti a liberare dal demonio il fanciullo epilettico.
Il testo di Luca corrisponde per la forma a questo secondo episodio di Matteo ma non ha alcun innesto in un episodio, è soltanto preceduto da una invocazione degli apostoli (ecco lo stile redazionale di Luca) perché il Maestro aumenti la loro fede. Un’allusione alle parole di Cristo si trova ancora nell’inno alla carità di Paolo (cfr. 1 Cor 13,2): «Se possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, sono un nulla» .
Sebbene la sentenza di Gesù sia allo stato di masso erratico, nondimeno la frequenza della citazione indica trattarsi di un insegnamento fondamentale, che ha vivamente colpito i discepoli.
Gesù ha appena invitato i suoi a perdonare senza misura (Lc 17,4). L’Evangelo non riporta la loro reazione, ma possiamo pensare che la cosa sembri loro impossibile. Comunque sia, si rivolgono a Gesù, e noi con loro: «Aumenta la nostra fede!». Il «piccolo gregge» degli apostoli, che il vento della pasqua sospingerà nel campo del mondo per seminarvi il Cristo, ha compreso subito che la fede è prima di tutto un dono, una grazia. Nessuno può conquistarla, guadagnarla o comprarla: si può soltanto chiederla, implorarla da un altro, dal «Signore» a cui la fede stessa si rivolge.
Senza rispondere direttamente alla loro preghiera, Gesù ricorre a un'immagine paradossale per esprimere l'incredibile vitalità della fede. Come una leva che solleva molto più del proprio peso, un pizzico di fede è in grado di compiere cose impossibili, straordinarie, come sradicare un grande albero e trapiantarlo nel mare. Per convincersi di questo e cogliere dal vivo la forza rivoluzionaria della fede, basta vedere che cosa può diventare l'esistenza umana più banale di un autentico credente. «Per me vivere è Cristo», dice san Paolo (Fil 1,21): la fede gli ha donato, in modo del tutto gratuito, di partecipare alla vita del Signore risorto. È veramente tutto l'uomo, corpo, spirito e cuore, che viene afferrato, trasformato, innalzato, in modo che possa vivere fin d'ora, nel mondo, la realtà del regno di Dio. La fede è l'ascolto sempre nuovo della Parola, è la verità in espansione, è il tentativo di far rifiorire l’evangelo in ogni epoca della storia. Riconoscendo l'azione stessa del Signore nei frutti straordinari della propria fatica, il credente sa di non potersi vantare della propria fedeltà. Non è forse il Cristo che suscita dentro di lui la fede, la sostiene, e, se vuole, la premia?

I lettura: Ab 1,2-3; 2, 2-4
Abacuc fu contemporaneo di Geremia (verso la fine del sec. 7° a. C), e predicò nel medesimo tempo. Come Geremia annunciò la catastrofe che si sarebbe abbattuta su Gerusalemme, con accenti di enorme potenza. Tuttavia, proprio come Geremia, insegnò anche la speranza nel Signore, se si mantiene la fede nella sua Parola.
L'inizio della sua predicazione è una supplica epicletica (vv. 1-4). Egli interpella vivacemente il Signore: «Fino a quando?» Questa formula, ricorrente nei Profeti e nei Salmi, è una specie di chiamata in giudizio del Decreto divino che tarda ad attuarsi, contro le speranze che ha animato nei fedeli del Signore. Così il fedele ripete e grida la sua preghiera, ma essa non è accettata, il Signore tace (Giob 19,7; 30,20; Lam 3,8). Abacuc urla l'urgenza del soccorso, poiché profeticamente vede profilarsi la rovina e l'addita: "Violenza!", ma il Signore non salva (v. 1,2). Il Profeta incalza: il Signore gli permette di vedere l'iniquità e l'oppressione, la rapina e l'iniquità contro lo stesso suo servo (Ger 9,2-6), e permette che il giudizio e la lite si accrescano e minaccino, ma non crede di intervenire (v. 1,3).
Poi il Signore finalmente risponde (2,1-20). Viene anzitutto un ordine al suo servo, di scrivere in chiare lettere la visione che concederà, affinché poi si possa interpretare agevolmente (v. 2,2; Is 8,1; 30,8; Ap 1,19). La visione sta ancora lontana (Ez 12,37; Dan 8,26; 10,14). Essa si manifesterà come una fine, e sarà veridica. E se il Signore tarderà, occorre comunque attenderlo (Sof 3,8; Is 8,17), poiché certamente viene, e non tarderà (v. 2,3).
Il Signore infatti condanna severamente chi resta incredulo, poiché la sua anima non è retta, non è diretta e tesa al Signore che viene. «Invece il giusto con la sua fede vivrà» (v. 2,4). Questa frase sarà uno dei punti fermi della teologia di Paolo (Rom 1,17, citazione espressa; ripetuta in Gal 3,11). Essa poi torna in Ebr 10,38. È anche allusa in Gv 3,36. La fede è dono divino, ed è Vita divina concessa agli uomini fedeli. La fede infatti non è solo assenso intellettuale a verità astratte. È adesione d'amore, è amore. Perciò è fiducia totale nel Signore, che fa attendere nella pazienza che le Realtà divine si manifestino e si adempiano, in specie nelle situazioni che appaiono disastrose nella vita umana. Senza la fede, infatti, è la morte.
Il Salmo 94,1-2.6-7.8-9, EP  con il v. 8 come responsorio: Ascoltate oggi la voce del Signore.
Il Salmista esordisce con una serie di imperativi innici, che formano il classico invitatorio della liturgia laudativa. Come profeta e sapiente, egli anzitutto invita il popolo a radunarsi dal suo stato di dispersione, al fine d'inneggiare al Signore (v. la), con giubilo (65,2), a cantare all'unica Rupe incrollabile della salvezza (v. lb; 88,27; 61,3.8). L'invito insiste affinché ci si raduni presto per effondere gli inni di lode (v. 2a; 99,2), nella gioia, per acclamare solennemente il Signore (v. 2b). I vv. 3-5 ne danno la motivazione sublime: il Signore, Dio grande, Re grande, è Sovrano e Creatore universale ed incomparabile.
Il v. 6 reitera l'invito a venire per prostrarsi e adorare il Signore Creatore (v. 6; 99,3; 138,14; 149,2; Dt 32,6). Qui si inserisce l'esplicitazione dell'alleanza, già prima presente, con la duplice formula:
I) Egli è il Dio nostro (v. 7a; 47,13; 99,3; Es 3,14!),
II) noi popolo del pascolo suo (v. 7b; 73,1; 22,1), il gregge della Mano sua (v. 7c).
È così rievocata l'esperienza dell'esodo, concepito come una lunga transumanza, in cui il Signore si fece Pastore del popolo suo, che condusse di persona verso il pascolo, la terra (Sal 79,1; 78,13).

Esaminiamo il brano

v. 5 - Luca introduce “gli apostoli” che pongono al Signore una richiesta fondamentale: «Accresci la nostra fede». Vivere lo stile di vita che Gesù propone è cosa assai difficile in questo mondo; gli apostoli si sentono inadeguati al loro compito, perché di poca fede (cfr. 8,25; 12,28).  La richiesta rende palese la consapevolezza che la fede non è il risultato di uno sforzo umano, ma è dono. Non è questione di quantità, ma di qualità. Va chiesta come il pane quotidiano ed il perdono (cfr. 11,3ss “Padre nostro”). Dopo l’invocazione: «insegnaci a pregare» (11,1), questa è la preghiera tipica del credente, soprattutto dell’apostolo:«aggiungi fede»(cfr. Mc 9,24). Con essa si ottiene tutto (Mc 11,23s) Tutto infatti è possibile per chi crede (Mc 9,23) perché nulla è impossibile a Dio (cfr. 1,37; 18,27).
v. 6 - Come quasi sempre, la risposta di Gesù non è diretta, che si smorzi in una battuta, ma è indiretta, parabolica, ricca di dottrina. Le immagini a cui ricorre, nel loro simbolismo carico, vengono dalla vita agricola per entrare nella vita spirituale. Dopo tanto stare con lui, ascoltandolo e guardandolo operare prodigi, ancora tra i discepoli, insigniti del titolo di apostoli dal Maestro stesso, alcuni non hanno coscienza di che cosa sia la fede richiesta. Gesù comincia: «Se avete fede...». La risposta di Gesù è tuttavia paradossale: invita a porre in atto ciò che essi già possiedono, perché anche una fede “minima” può produrre risultati prodigiosi. Il confronto è enfatizzato dalla contrapposizione tra il seme più piccolo (senape) e la pianta più difficile da sradicare, per la presenza di aculei e radici profonde (gelso).
Ricordo che tra i traduttori non c’è accordo a riguardo del nome della pianta, resa da alcuni come gelso e da altri sicomoro. Nell’Antico Testamento il termine è, generalmente, riferito al sicomoro (cfr. Lc 19,4): se così fosse, il paradosso sarebbe ancora più consistente, dato che era risaputo che questa pianta poteva vivere anche per 600 anni ed era dunque difficilmente sradicarle. In entrambi i casi, il senso dell’iperbole è chiaro: nulla è impossibile per chi crede! Non si tratta dunque di misurare la fede con il criterio della quantità, ma dell’autenticità.
Da notare che a proposito della traduzione CEI di hōs qui proposta quel «quanto» dovrebb’essere «come». Il seme della senape era proverbialmente la più piccola di tutte le sementi, grande quanto una capocchia di spillo e come tale Gesù lo cita in una celebre parabola per indicare la misteriosa forza di espansione del regno di Dio in contrasto con la sua iniziale modestia (cfr. Mt 13,31-32; Mc 4,30-32; Lc 13,18-19). Eppure la fede è sufficiente per spostare un sicomoro, che Gesù indica, «quel sicomoro» (cfr. Sal 77,47), anzi ancora di più, per fare un trapianto agricolo assurdo, incredibile, nel mare. Non solo, ma il gelso obbedirebbe.
Nelle parole di Gesù sulla fede il paragone non sembra far leva tanto sulla piccolezza del seme, sulla sua quantità, quanto sulla sua qualità di seme. La risposta si ferma qui, incita però i discepoli alla meditazione; essi debbono sapere di quale fede fu animato il Padre Abramo, quando uscì dalla sua terra per andare nomade senza indicazioni precise (Gen 12,1-3) e quando offrì Isacco al Signore (Gen 22,1-16). Ed anche Mose, profeta e maestro, quando alzò il bastone per pregare contro i nemici (Es 17,8-16), e quando con esso frantumò la rupe per dare acqua al popolo disperato (Es 17,1-7, vedi anche il salmo responsoriale). E quale fede potente, operatrice di prodigi, ebbero i Profeti d’Israele.
vv. 7-8 - La parabola propria del terzo evangelista e anch’essa, come s’è detto, non collocabile in un esatto contesto, è introdotta da una domanda retorica per renderla più viva e attirare l’attenzione degli ascoltatori. Vi si parla di un padrone, il quale ha un servo tutto-fare che «ara o pascola»; sono queste le due azioni tipiche dell’apostolo, l’annuncio = semina e la cura dei fratelli = pastore. Il servo o lo schiavo di cui si parla è quindi proprio l’apostolo; egli non appartiene più a sé ma come lo schiavo appartiene al padrone (= il Signore). A nessuno viene in mente che il servo debba mangiare prima del padrone né che il padrone sia obbligato al servo per avere egli eseguito gli ordini ricevuti. Per condurre i suoi uditori ad interrogarsi, Gesù racconta loro una parabola, partendo da una situazione quotidiana e articolandola attorno a due domande retoriche che Gesù pone per attirare l’attenzione degli ascoltatori e trasformarli in interlocutori.
Il significato della parabola potrebbe essere racchiuso in uno slogan: al servo è chiesto di comportarsi da servo. Dopo aver lavorato tutto il giorno nel campo, è ‘normale’ che continui a servire il padrone a tavola. Ciò può risuonare socialmente ingiusto ai nostri orecchi, ma nella Palestina del I secolo, in cui servizio e schiavitù erano realtà comuni, doveva essere un concetto ampiamente condiviso. Il servo non attende gratitudine, dato che sta facendo ciò che deve fare.
«preparami… e servimi»: imp. aoristo il primo e imp. presente il secondo. La preparazione si fa una volta sola mentre il servizio dura a lungo. Il verbo del servizio è diakonéò, cfr. Gv 13,4.
v. 9 - La risposta è contenuta nel modo di formulare la domanda: è un sonoro no! Il lavoro dello schiavo non è oggetto di gratitudine: è insieme dovuto e gratuito. Sia lui che il suo lavoro appartengono al padrone.
v. 10 – «Siamo servi inutili»: l’uso dell’aggettivo achrèios, inutile, senza valore, non vuole togliere valore all’azione umana ma spingere gli apostoli verso un sano realismo offrendo un paragone. Nella consapevolezza di ciò che è, il servo non usa il proprio lavoro come strumento di rivendicazione o vanto nei confronti del proprio padrone. Allo stesso modo il discepolo / apostolo, sapendo che tutto ciò che è e possiede gli è stato donato, non vivrà nell’orgoglio, ma trasformerà la propria esistenza in un canto di lode a Colui da cui tutto proviene. Possiamo ricordare la parabola del fariseo e del pubblicano (18,10-14). Mentre il fariseo usa la propria impeccabile osservanza della Legge per ‘ricattare’ Dio, il pubblicano si pone dinnanzi a lui nella verità e proprio per questo viene giustificato da Dio. Il medesimo messaggio è presente negli scritti rabbinici: «Se avrai praticato molto la Torah non vantartene; perché per questo sei stato creato».
Quello che a prima vista, nella conclusione della parabola, aveva un che di aspro e quasi di irritante; in realtà afferma quale dev’essere l’atteggiamento interiore del discepolo nell’esecuzione del suo mandato. Questa schiavitù per amore è la liberazione totale dall’egoismo: «Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà e questa non consiste nel vivere secondo l’egoismo, ma nell ‘essere, mediante la carità, schiavi gli uni a servizio degli altri» (Gal 5,13).  L’aggettivo achrèios che la CEI traduce «siamo servi inutili». Non è esatto, perché lo schiavo che fa il suo servizio non è «inutile»! In greco si usa una parola che significa «inutile» o «senza utile», cioè senza guadagno.
Una traduzione migliore potrebbe essere, «siamo semplicemente schiavi», che significa che non facciamo il nostro lavoro per guadagno o per utile, ma per dovere e gratuitamente: semplicemente perché siamo suoi e apparteniamo a lui. Chi «ara o pascola», non lo fa per turpe motivo di lucro (1P15,2), ma lavora perché spinto dall’amore del suo Signore morto per tutti (2 Cor 5,14).
Essere servi inutili equivale dunque a «rinunciare a fare qualcosa di noi stessi» per lasciarci fare da Dio. Soltanto perché lui ci precede, possiamo seguire; soltanto perché lui perdona, possiamo perdonare; soltanto perché lui è con noi possiamo continuare ad annunciare l’Evangelo «con forza e amore» persino nella persecuzione e nel martirio (2 Tm 2,6). Il ministero apostolico è di sua natura gratuito, perché rivela la fonte da cui scaturisce: «gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,8).
Per Paolo la ricompensa più alta è predicare gratuitamente l’Evangelo (1 Cor 9,18). Gesù non ha mai detto ai suoi apostoli che annunciare l’evangelo avrebbe significato per loro l'essere coperti di fiori. È cosa normale invece «soffrire per l’evangelo», poiché Gesù è un segno di contraddizione. Ma che importa, dal momento che la forza dello Spirito di Dio è in noi?
Le parole di san Paolo a Timoteo (cf II Lettura) sono tuttora valide per tutti i battezzati e ancor più per i ministri ordinati: annunciare l’evangelo senza timore, a dispetto di ogni violenza e di ogni pressione morale (senza inquisizione e senza indice), proteggere la fede trasmessa dagli apostoli, lasciando libere le persone. Compito irrealizzabile, se il Cristo non avesse promesso di essere sempre con la sua Chiesa e se non trasmettesse ai suoi lo Spirito che l'ha fatto risorgere dai morti. La sostanziale povertà dei servi di Dio risulta evidente dal fatto che nell’opera della salvezza tutto risale al Signore; Paolo ammoniva i Corinzi che parteggiavano per questo o per quell’evangelizzatore: «Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma è Dio che ha fatto crescere. Ora né chi pianta né chi irriga è qualcosa, ma è Dio che fa crescere» (1 Cor 3,6).
Lo stesso apostolo, quasi a commento delle parole di Cristo, dice: «Non è per me un vanto predicare l’Evangelo, è per me un dovere: guai a me se non predicassi l’Evangelo!» (1 Cor 9,16).
La Parola dell’evangelo di oggi è certamente contro i calcoli interessati. Dio non è messo particolarmente in buona luce da questa parola, in cui prende l'aspetto di un padrone esigente e poco riguardoso della fatica dei suoi servi. Ma Gesù non intende qui parlarci di Dio, quanto piuttosto denunciare l’ipocrisia che abita nei più nascosti angoli del nostro cuore. I farisei lavorano, e molto; ma alcuni  calcolano tutto, anche i diritti e i meriti che hanno dinanzi a Dio per le loro «buone azioni». I loro conti e calcoli non saranno convalidati da Dio; lui vuole nei suoi solo un po' di fede, fosse pure così piccola come un granello di senape.

II Colletta
O Padre, che ci ascolti se abbiamo fede
quanto un granello di senapa,
donaci l’umiltà del cuore,
perché cooperando con tutte le nostre forze
alla crescita del tuo regno,
ci riconosciamo servi inutili,
che tu hai chiamato
a rivelare le meraviglie del tuo amore.
Per il nostro Signore Gesù Cristo...


Fonte:Abbazia Santa Maria di Pulsano

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