Paolo Curtaz,"Abissi dell’anima"


Commento al Vangelo di domenica 25 settembre 2016 - Paolo Curtaz
Abissi dell’anima
Se avete lo stomaco debole, lasciate stare. Qui si fa sul serio.
Il ricco non ha un nome, è definito da ciò che mangia, da ciò che possiede, dal suo palazzo, dalle sue vesti.  Il racconto lo dipinge con tre pennellate: è ricco, veste di porpora e bisso, banchetta lautamente tutti i giorni.
Per noi il cibo non rappresenta una grande preoccupazione se non per ragioni di salute e per evitare gli eccessi.
Per la gran parte dell’umanità, oggi, e per la quasi totalità, ieri, cibarsi era la prima inquietudine.
Sapere cosa mettere sotto i denti, giorno per giorno, per arrivare al giorno successivo, era il problema primario. Raramente la gente mangiava fino a saziarsi.
Il ricco festeggia tutti i santi giorni. È lui la misura del calendario. Lui decide che è festa.
Ogni giorno per lui è festivo, e organizza un lauto banchetto.
Questa cosa ha talmente colpito l’immaginazione delle prime, affamate comunità cristiane che il banchetto, epulæ in latino, è diventato il carattere distintivo del ricco: epulone, cioè banchettatore, vorace, mangiatore, gaudente.

Il ricco
È ricco: una condizione rara, allora come oggi. Ma il testo non si sofferma sulla sua condotta morale: non si dice se sia un credente o meno, né se sia una persona corretta, se abbia fatto i denari col malaffare. Forse sale al tempio qualche volta durante l’anno, versa una lauta offerta facendosi ammirare e ricevendo le lodi dei sacerdoti di turno. Veste di porpora e di bisso, che è un lino egiziano pregiato.
La porpora è una tintura che si otteneva grazie a dei molluschi che vivono nel mar Rosso e nell’oceano indiano. Ne servono migliaia per tingere la stoffa e l’uso della preziosissima porpora era riservato agli imperatori, ai sacerdoti e, solo in età imperiale, ai ricchi per sfoggiare le loro possibilità economiche. Il ricco, banchettando, ostenta tutta la sua opulenza.

Lazzaro
Invece un mendicante di nome Lazzaro, era gettato alla sua porta.
Così, letteralmente, scrive Luca per sottolineare il contrasto, lo stridore, quell’invece che indica diversità, opposizione e che rimanda, sempre in Luca, alla diversità dell’atteggiamento del samaritano con l’uomo percosso dai banditi rispetto al sacerdote e al levita (Lc 10,33).
Invece.
Lazzaro è privo di tutto, non ha casa, non ha vestito, non ha salute. È gettato alla porta del ricco, è coperto di piaghe, di ulcere, è passivo, non riesce nemmeno ad allontanare i cani che gli si avvicinano per leccargli le ferite. Gesto di compassione o anticamera della morte, scegliete voi.
Possiede solo due cose.
Possiede il desiderio di sfamarsi di ciò che cadeva dalla tavola del ricco.
L’ultima cosa che resta di lui, annichilito come persona, una “cosa” gettata (bàllo scrive Luca) è il desiderio. Ha molto desiderato. Desidera. È ciò che resta di noi, quando tutto il resto scompare.
Tace, Lazzaro. Desidera ma non dice. Forse non ha nemmeno più la forza di parlare. Forse non osa. Forse vuole solo lasciarsi andare. Desidera cibarsi delle briciole cadute dalla tavola del ricco.
Possiede un nome. È l’unico personaggio in tutte le parabole, di tutte!, che ha un nome.
Il nome, in Israele, indica l’identità profonda, ciò che sei dentro, nella tua anima, nella tua essenza, ciò che Dio rivela a te stesso e che sei chiamato a scoprire.
Si chiama Lazzaro. Dio aiuta.

Funerali
Lazzaro è il primo a morire, bella forza. E la morte, per lui, è stata una liberazione.
Nessun funerale, immaginiamo. Gettato in una fossa comune.
A quel punto diventa affare di Dio che manda un corteo di angeli a prelevarlo per portarlo direttamente nell’abbraccio di Abramo. Abramo! Cioè, nella mentalità dell’epoca, Lazzaro passa direttamente al vertice di tutti i giusti, ha scalato in un solo colpo la scala gerarchica.
Al tempo di Gesù i rabbini dibattevano: si pensava che la parola di Abramo potesse liberare un ebreo anche dalle fiamme dello Sheol. No, sembra ribattere Gesù, non basta essere ebreo. Bisogna essere vigile. E solidale.
Muore anche il ricco e, semplicemente, viene sepolto.
Nessuna processione angelica per lui, nessun abbraccio. Solo la comune esperienza della terra che copre il suo corpo e inizia a decomporlo. Mentre la sua anima scende anch’essa nello Sheol, nell’Ade, scrive Luca in greco, la lingua dei vangeli. Il luogo dove si pensava, al tempo di Gesù, finissero i morti.
Finisce fra i tormenti, fra le fiamme. Brucia come una scoria.
Vede Abramo, sì, ma da lontano. Un’enorme distanza li separa. Un abisso che lui, il ricco, ha scavato.

Dialoghi
Nello Sheol ci si vede, secondo la dottrina del giudaismo.
Il ricco vede il povero Lazzaro, ancora silente, ma abbracciato.
Abbracciato teneramente. Ottiene l’attenzione dal padre di Israele, da Abramo, il primo fra i cercatori di Dio. Nessuno lo aveva abbracciato, in vita. Ora Abramo se lo tiene vicino.
Il ricco è tormentato dalla sete, osa parlare al padre Abramo.
Chiede di poter avere una sola goccia d’acqua da parte di Lazzaro, tanta è la sua arsura, o di avvisare i famigliari.
No, non è possibile, dice Abramo. Fra noi e voi c’è un abisso.
Restiamo allibiti davanti a queste parole. Non sembra anche a voi che Abramo avrebbe potuto essere più misericordioso? E che sarebbe stato un bel finale quello in cui il ricco viene perdonato? Perdonato poi di quale colpa? Di essere ricco?
Oppure Gesù, raccontando questa parabola, parla della retribuzione dopo la morte? E che Dio si atteggia a vendicatore e difensore dei poveri? Possibile, in parte, anche se va rimarcato che non si parla né per il ricco né per Lazzaro del loro comportamento morale.
E se Lazzaro fosse un fannullone? E ammalato a causa del proprio comportamento dissoluto?
E il ricco, invece, nonostante la sua ricchezza, fosse un generoso benefattore?
No, non è certamente questo il cuore della parabola.
Il ricco non è condannato perché ha oppresso il povero.
Ma perché lo ha ignorato.
Empietà e durezza di cuore vengono puniti, pietà e rassegnazione, compensati.
 
Esiste una parola-chiave nel racconto. Efficace e drammatica. Abisso.
Un abisso separa Abramo, Lazzaro e il ricco. Un abisso invalicabile, che non permette comunicazione, passaggio, salvezza. Un abisso che il ricco ha scavato, giorno dopo giorno, con la sua indifferenza.
Abramo quasi si scusa, in imbarazzo. Potrebbe anche aiutarlo, inviargli Lazzaro con un po’ d’acqua. Ma l’abisso impedisce ogni azione.
Anche Dio fa quel che può.

Fonte:http://www.tiraccontolaparola.it/


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