Abazia di S.Maria di Pulsano XXIV Domenica tempo ordinario

Domenica «delle parabole della divina misericordia»
XXIV del Tempo per l’Anno
Luca 15,1-32; Esodo 32,7-11.13-14; Sal 50; 1 Timoteo 1,12-17<
Canto all’Evangelo 2 Cor 5,19
Alleluia, alleluia.
Dio ha riconciliato a sé il mondo in Cristo,
affidando a noi la parola della riconciliazione.
Alleluia.
Il versetto di 2 Cor 5,19ac, che orienta la proclamazione evangelica, parla del Disegno divino
contemplante che è la riconciliazione con il Padre degli uomini peccatori. Il Padre se li è riconciliati
mediante il Figlio morto e risorto e per portare l’effetto di questo agli uomini ha posto negli Apostoli la
«Parola della riconciliazione», l’Evangelo della Grazia da annunciare agli uomini.
Ancora la proclamazione evangelica di questa domenica và letta a partire da Cristo battezzato dallo
Spirito Santo, mentre, così inviato dal Padre, episodio dopo episodio passa e, senza interrompere mai la
sua attività, annuncia l’Evangelo e compie le opere della Carità del Regno.
Questa pericope è ancora situata nel contesto della «salita a Gerusalemme» (Lc 9,51 - 19,28). Questo
grande testo è proprio di Luca, ed è proclamato dalla Domenica XIII alla Domenica XXXI. A
Gerusalemme si deve adempiere l’esodo del Signore al Padre suo (Lc 9,31), che comprende la Croce, la
Resurrezione e la gloria.
Al centro della liturgia troviamo oggi quel capolavoro dell’evangelo di Luca che è il c. 15. Il testo
riporta l’insegnamento di Gesù sulla divina Misericordia, contenuto in 3 parabole, le quali possono
essere chiamate anche, e più esattamente, le «parabole della Misericordia e della Gioia divina».
Il brano evangelico può essere diviso in tre parti:
a. vv. 1-2: l’introduzione che offre l’ambientazione ed insieme la giustificazione dei racconti parabolici
che seguono;
b. vv. 3-10: due parabole sulla ricerca ed il ritrovamento, rispettivamente collocate nell’ambiente
agricolo e domestico;
c. vv. 11-32: una parabola riguardo ad un padre e ai suoi due figli.
Parabole che più di tante altre di Gesù hanno fatto breccia nel cuore dei credenti e dei non
credenti. La terza, propria di Luca, è la più nota, la più lunga per la sua ampiezza e pienezza di
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significato, per la vastità del respiro e la dottrina che contiene e viene giustamente definita un piccolo
evangelo nell’Evangelo».
Una prima osservazione: il testo non parla di “parabole”, ma di “parabola”: i tre racconti
costituiscono dunque un’unica parabola, quella della misericordia di Dio.
Il contesto della parabola è dato dai vv. 1-3 posti ad introduzione del racconto: è la risposta diretta alle
mormorazioni dei farisei e degli scribi, indignati del modo umano e delicato con cui Gesù avvicinava i
peccatori e si rallegrava per la loro conversione. Accusato di essere troppo condiscendente con i
peccatori, Gesù risponde proponendo il comportamento del Padre, che egli è venuto a rivelare al mondo:
«Chi ha veduto me, ha veduto il padre» (cfr. Gv 14,9): forse mai come nella condotta di Gesù verso i
peccatori queste due parole, dette alla vigilia della morte trovano la più convincente esemplificazione.
Più che del "figliolo prodigo" o del "fratello maggiore", è la parabola del Padre, e sono proprio le sue
parole che ci danno la via per comprendere il racconto: «Bisognava far festa». L’hanno capito i
peccatori, che fanno festa a Gesù; i giusti sono chiamati a fare altrettanto.
La festa e la gioia del perdono cominciano quaggiù. Nel racconto accanto al verbo della gioia
che scandisce le due parabole gemelle della pecora e della dramma perduta e ritrovata si aggiunge
anche, e per quattro volte nella terza parabola, il verbo "festeggiare".
La gioia biblica è, certo, un’esperienza psicologica e umana, comprendente l’allegria e la serenità, ma va
oltre: è, infatti, lo stato di chi è in comunione con Dio e partecipa della sua perfezione.
È partecipazione al suo amore: il figlio maggiore della parabola non riesce a condividere la gioia del
padre perché il suo cuore è gretto ed egoista.
L’evangelista Luca, in particolare, sente la gioia come l’atmosfera dei tempi messianici inaugurata da
Gesù; a lui si accosta Paolo, che così si rivolge ai cristiani di Filippi: «Perciò, fratelli miei carissimi e
tanto desiderati, mia gioia e mia corona, rimanete saldi nel Signore così come avete imparato,
carissimi! Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi. La vostra affabilità sia
nota a tutti gli uomini. Il Signore è vicino!» (Fil 4,1.4-5).
Esaminiamo il brano
v. 1 - «si avvicinavano...pubblicani e peccatori»: nonostante le strettissime esigenze appena espresse
sul discepolato (14,25-35), "rinnegati e furfanti" non desistono dall’avvicinarsi a Gesù.
«tutti»: si sottolinea la totalità; nessuno è escluso, specialmente i lontani.
«per ascoltarlo»: tutti i peccatori sono ammessi come uditori della gloria di Dio. Ascoltare significa
diventare discepoli.
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v. 2 - «Farisei e scribi mormoravano»: Luca contrappone al gruppo dei pubblicani e dei peccatori il
gruppo dei farisei e degli scribi. Per entrambi Gesù costituisce un polo d’attrazione, tuttavia, mentre il
primo gruppo si avvicina per ascoltarlo, il secondo lo osserva per criticarlo. Nelle sacre Scritture
gongýzō è il vocabolo della contestazione di Dio e del rifiuto del suo modo di dare salvezza («Perché ci
hai fatto uscire dall’Egitto ?»; è il verbo che percorre i libri biblici che parlano di Israele nel deserto e
della ribellione a Dio e ai suoi doni (Esodo, Numeri, Deuteronomio). È il verbo con cui l’uomo pretende
di suggerire a Dio come dovrebbe comportarsi con l’uomo e come dovrebbe dargli la salvezza (o il
castigo). Per costoro (farisei e scribi) i pubblicani e i peccatori sono persone ormai «perdute»: su di loro
incombe il giudizio di Dio. L’accoglienza calorosa che essi ricevono da Gesù è inspiegabile e contro
ogni logica (cfr. Lc 19,7).
v. 3 - Il motivo che spinge Gesù a narrare questa parabola è dimostrare che Dio non la pensa come gli
scribi e i farisei. Scribi e farisei sono i veri destinatari del racconto; la parabola è un invito ai giusti
perché si convertano dalla propria giustizia, che condanna, alla gioia del Padre, che giustifica. Gesù
parla non tanto per difendersi dalle loro obiezioni, quanto per aprire loro gli occhi al mistero di Dio. Dio
è misericordia.
vv. 4-6 – La prima celebre parabola è del pastore che possiede un gregge di 100 pecore. Di esse una si è
incautamente lasciata distanziare dal resto del gregge e quindi si perduta nel deserto. Il pastore buono
allora lascia incustodito il gregge delle altre 99 pecore, torna sui luoghi del pascolo e ricerca quell’unica
pecora dappertutto, nel deserto e altrove, finché la ritrova. Allora se la prende in braccio «nella gioia» e
chiamerà tutti gli amici per farsi congratulare per il ritrovamento, perché ha recuperato una pecora «che
era perduta», era andata alla rovina.
v. 7 - «Così vi dico…»: La parabola conclude ancora «dal minore al maggiore», al modo rabbinico. Se
per così poco si fece gioia sulla terra, allora per quell’immenso valore che è un uomo, il peccatore
convertito, quello che più di tutti gli altri aveva bisogno della salvezza, quello che perciò deve essere più
amato degli altri, tanto più si farà «gioia nel Cielo», ossia Dio gioirà. E questo più che per 99 giusti, che
non hanno necessità della conversione. Ma così il gregge è nuovamente al completo. Nessuno può
essere perduto: anche se “uno solo” manca, la comunione non è completa e la festa non può iniziare.
Notiamo che Luca introduce la parabola con una domanda rivolta direttamente a scribi e farisei: «Chi
di voi...?». Gesù vuole incontrarli nella comune vocazione di pastori del popolo di Dio. Come agisce
dunque un pastore? Chi ha bisogno di lui: le pecore sicure nell’ovile o quella perduta?
In Gesù, nelle sue azioni e parole, l’agire di Dio diventa visibile. Dio si fa pastore delle proprie
pecore, un pastore che corre il rischio di perdere il gregge pur di ritrovare l’unica pecora che manca
all’appello. Un pastore che rischia perché si fida delle sue pecore. Un pastore capace di fare festa.
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vv. 8-19 – La seconda parabola è della dracma smarrita. Una donna possiede 10 dracme e dentro casa,
come succede così spesso, ne perde 1. Allora fa tutte le ricerche febbrili in casa e spazza con cura ogni
angolo, finché finalmente trova la sua dracma. Perciò subito convoca e raduna le sue amiche per gioire
insieme del ritrovamento. Anche qui la conclusione necessaria va «dal minore al maggiore»: tanto più
nel Cielo, alla presenza di Dio circondato dalla sua corte regale che contiene le miriadi degli Angeli, si
farà gioia per un solo peccatore convertitosi.
v. 11- Con la terza parabola il Signore narra la vicenda del celeberrimo «figlio prodigo». Questa
parabola ha il doppione alla Domenica IV di Quaresima di questo Ciclo C. . In sintesi, Gesù invita i capi
del popolo a fare proprio il cuore del Padre. Se ciò non accade, anche farisei e scribi sono figli perduti,
mai allontanatisi da casa, ma incapaci di comprendere il cuore del Padre. Per questo racconta loro la
terza storia.
«Un uomo»: È Dio, che nel corso della lettura si rivelerà insieme padre e madre, legge e amore.
«aveva due figli»: i due figli indicano la totalità degli uomini; peccatori о giusti, per lui siamo sempre e
solo figli, per questo ha compassione di tutti e non guarda i peccati.
v.12- «Padre»: così lo chiama il figlio minore; non tanto per dei sentimenti positivi, quanto per far
valere i propri diritti. Lo conosce come uno che gli deve dare delle cose.
«dammi»: attivo imperativo aoristo: inizia un’azione nuova. Alcune norme regolavano il diritto di
successione alla morte del padre, о la spartizione dei beni mentre era ancora in vita il padre: cfr. Dt
21,17; Sir 33,20-24.
«divise»: Dio non è antagonista, concede ai suoi figli tutto quanto ha.
vv. 13-16 - Preso dall’ansia di vivere, portandosi via tutto, si allontana dal Padre, ma così, presto, perde
tutte le sue sostanze e se stesso.
«a pascolare i porci»: il peggio che poteva capitargli in fatto di degradazione (cfr. 8,32), perché oltre a
tutto, si trovava in uno stato di impurità legale (cfr. Lv 11,7; Dt 14,8).
vv. 17-19 - «rientrò in se stesso»: semplicemente rinsavisce; constata che la realtà non era come
pensava. Si noti come in questo soliloquio Luca non esprima grandi sentimenti di pentimento; è una
conversione a sé, più che al Padre, intuisce il vero proprio interesse. La fame gli fa capire che s’è
sbagliato nel valutare le cose; è l’inizio di un cammino. Dice un antico proverbio ebraico: «Quando gli
israeliti hanno bisogno di mangiare carrube, è la volta che si convertono».
«salariati...di mio padre»: lo considera e lo chiama padre, anche se non considera sé come figlio.
Instaura il paragone con i salariati: istintivamente pensa che l’alternativa sia diventare come il fratello
maggiore! Ha ancora una falsa immagine del Padre.
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«ho peccato»: dalla considerazione della sua miseria il giovane passa al riconoscimento delle sue colpe;
non ha infatti una colpa sola, ma parecchie: aver chiesto la divisione dell’eredità; l’essere andato
lontano; l’aver dilapidato tutto; il non aver pensato al padre prima di cercare il lavoro umiliante.
«contro il cielo»: modo ebraico di dire, per evitare di pronunciare il nome di Dio, qui particolarmente
espressivo per chi, come il figlio minore, si sente indegno di ogni perdono.
«non sono degno di esser chiamato tuo figlio»: un altro peccato si aggiunge al fardello già pesante del
figlio minore: essere figlio non è questione di dignità o di merito; è un dato di fatto. Il padre può essere
libero nel mettere al mondo il figlio, ma nell’essere figlio non c’è libertà; non si sceglie né di nascere né
da chi. Il figlio minore non ha ancora capito che il Padre è amore necessario e gratuito; pensa, non
avendola meritata, di rinunciare alla sua paternità. Il poveretto ha aggiunto ai suoi anche il peccato del
giusto: il rifiuto di Dio come amore gratuito. La conversione non è diventare "degni", o almeno
"migliori" o "passabili", per meritare la grazia di Dio; la conversione è accettare Dio come un Padre che
ama gratuitamente.
«trattami»: attivo imperativo aoristo positivo: ordina di cominciare un’azione nuova.
v. 20 - La scena dell’incontro col padre è travolgente.
«ancora lontano»: fin qui abbiamo parlato dell’ atteggiamento del figlio; suo padre è ben altro, non
aspetta al varco l’indegno per rinfacciarli una colpa senza scuse, previene ogni suo atto di pentimento,
«lo vide»:è il verbo horáō, un vedere che giunge fin sotto la superficie, nella verità delle cose. Per
quanto lontano il Padre lo vede sempre; nessuna oscurità e tenebre può sottrarlo alla sua vista (Sal
139,11s). L’occhio è l’organo del cuore: gli porta l’oggetto del suo desiderio.
Vedere e commuoversi sono anche le due azioni attribuite al samaritano (10,33) e allo stesso Gesù
nell’episodio della vedova di Nain (7,13).
«si commosse»: questo sentimento che sconvolge il cuore del padre fornisce la chiave della sua
condotta; in quella commozione è narrata tutta la sua passione per l’uomo. Letteralmente
splanchnízomai «fu colpito alle viscere» indica l’aspetto materno della paternità di Dio. È la qualità di
quel Dio che è misericordia In Lc 6,36 Dio ci è presentato come «padre misericordioso », cioè insieme
come padre e come madre (Luca usa " oiktírmōn” che traduce l’ebraico «rahamin», che indica il ventre,
l’utero materno che genera). La paternità di Dio per sé viene dopo la sua maternità; per questo siamo
generati e amati senza condizioni, da sempre e per sempre accolti. In quanto madre, ci ama
visceralmente, ed entra con noi in un rapporto di necessità biologica, dandoci la vita, la casa e il cibo. In
quanto padre ci ama liberamente ed entra in rapporto con noi mediante la parola: ci dà un nome e ci fa
crescere adulti e responsabili. Lo sguardo di Dio verso il peccatore è tenero e benevolo come quello di
una madre verso il figlio malato (cfr. Is 49,14-16; Ger 31,20 s; Sal 27,10; Os 11,8; ).
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Quale stridente contrasto con l’emozione opposta che prende il primogenito «egli fu preso da collera»
(v. 28a)!
«correndo»: è un atteggiamento affatto normale per un orientale.
«si getto al suo collo»: la corsa del padre termina in uno slancio che lo fa letteralmente "cadere addosso
" al figlio. Esaù, il fratello al quale fu rubata la primogenitura, cadde sul collo di Israele, contro ogni sua
aspettativa (Gen 33,4). L’incontro dei due fratelli, a lungo divisi e in lotta, è figura dell’incontro dei suoi
figli. Anche Giuseppe, venduto come schiavo dai fratelli, si getta sul collo di Israele (Gen 46,29).
«lo baciò»: è il segno del perdono (cfr. 2 Sam 14,33).
vv. 21-24 - Il padre prende subito l’iniziativa: non permette al figlio di terminare la sua confessione; non
dice nulla al figlio, ma quanto sta per dire ai servi parla per lui in modo più espressivo di ogni altro
linguaggio.
«la veste migliore»: lett. il vestito primo, dove s’intende quella veste che è la prima in ordine di tempo
e di dignità. È l’immagine e la somiglianza di Dio, gloria e bellezza originale che rivestiva l’uomo.
«rivestitelo... mettetegli»: attivo imperativo aoristo positivo: è il nuovo inizio.
«l’anello»: è il segno dell’autorità (cfr. Gen 41,42; Est 3,10; 8,2 ed anche Gc 2,2)
«sandali»: è un altro segno della recuperata figliolanza, della libertà di figlio; lo schiavo non porta
sandali.
«portate»: attivo imperativo presente positivo: ordina di continuare un’azione già iniziata (siamo
sempre considerati figli).
Nel dare i primi ordini il padre usa l’imperativo aoristo: si tratta di cominciare azioni nuove, causate
dall’inizio di una nuova condizione, quale nessuno (nemmeno il figlio stesso) oserebbe sperare
possibile.
Una volta restituito alla sua dignità, il resto viene di conseguenza e diventa normale: perciò il padre usa
l’imperativo presente.
«il vitello grasso»: il sacrificio grasso (lett. di grano) immolato, che si "mangia", "facendo festa" è
un’allusione all’eucarestia. Per i commentatori questo vitello di grano è l’Agnello immolato per
quell’amore che è prima della fondazione del mondo (Gv 17,24).
«ammazzatelo»: attivo imperativo aoristo: qui è necessario per indicare un’ azione che si compie una
volta sola per sempre.
«cominciarono a far festa»: non si dice "fecero festa", ma "cominciarono"; è l’inizio di ciò che sarà
senza fine.
vv. 25-32 - «Il figlio maggiore»: il maggiore è Israele, il primogenito di Dio, figura di ogni giusto.
Raggiungiamo ora l’apice della parabola: l’incontro con chi deve essere ancora ritrovato.
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«chiamò... domandò»: il “giusto” non sa nulla della gioia di Dio, anzi gli è sospetta e per questo indaga
minuziosamente, interroga un servo per sapere cosa sta accadendo.
«si arrabbiò»: conosciuto l’avvenimento reagisce come davanti ad una minaccia; è venuto meno il
fondamento della sua esistenza. Quest’ira è il contrario della compassione del padre. Giona si contristò
mortalmente alla prospettiva di un Dio simile (cfr. Giona 4,3.8.9).
«non voleva entrare»: l’ostinazione del giusto è dura, come quella di Giona. Attraverso la porta della
misericordia i peccatori passano tutti, ma dei giusti nessuno, perché non lo vogliono.
«il padre uscì a pregarlo»: (lett. «a consolarlo») anche conquesto figlio il Padre è colui che si muove
per primo. Dio consolò Israele mediante i profeti, fino al Battista che «consolava ed evangelizzava»
(3,18), chiamando alla conversione.
«rispose a suo padre»: paziente, quel Padre che non ha ascoltato l’umiliazione penitente del
secondogenito, ascolta ora le accuse del primogenito.
«ti servo... non ho trasgredito»: è il servizio dello schiavo (duleo), non l’obbedienza del figlio verso il
Padre. Il tempo presento sottolineala condizione permanente scelta da questo figlio che come uno
schiavo non si è mai sognato di trasgredire un comando del Padre.
«un capretto»: davvero una richiesta minima davanti al grosso vitello.
«il figlio tuo»: Il primogenito rifiuta di dare il nome di «fratello» al prodigo ma non gli contesta il nome
di «figlio» in rapporto al padre. Di colpo, il padre del figlio indegno non gli sembra più neppure suo
padre; parla di lui come di un padrone al cui servizio lavora come schiavo: «Ecco, io ti servo da tanti
anni [come uno schiavo: duléo» (cfr. v. 29].
Se il secondogenito si augurava di divenire, a casa del padre, un servo ben pagato, il primogenito si
considera come uno schiavo verso il quale il padrone non ha alcun debito di riconoscenza.
La comprensione che egli ha del rapporto padre-figlio non è migliore di quella del fratello.
La parabola tace, probabilmente ad arte, l’ulteriore reazione del figlio maggiore che del figlio minore. In
una stupenda solitudine rimane il mistero dell’amore del Padre, che il peccatore non era riuscito a
prevedere e il "buono" a spiegarsi.
Quell’amore imprevedibile è come una lama di luce che squarcia le tenebre della nostra condizione, la
condizione di peccatori bisognosi di misericordia.
In questa prospettiva comprendiamo sempre di più cos’è la nostra eucarestia: rendimento di grazie al Padre
per l’amore che ci dona, per il perdono che ci offre, per la Pasqua che vuole celebrare con noi.
II Colletta
O Dio, che per la preghiera del tuo servo Mosè
non abbandonasti il popolo ostinato
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nel rifiuto del tuo amore,
concedi alla tua Chiesa
per i meriti del tuo Figlio,
che intercede sempre per noi,
di far festa insieme agli angeli
anche per un solo peccatore che si converte.
Egli è Dio...
lunedì 9 settembre 2013
Abbazia Santa Maria di Pulsano
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