ABBAZIA PULSANO COMMENTO AL VANGELO DI DOMENICA 6 OTTOBRE

DOMENICA «DEI SERVI INUTILI»
XXVII del Tempo per l’Anno C
Luca 17,5-10; Abacuc 1,2-3; 2,2-4; Salmo 94; 2 Timoteo 1,6-8.13-14
Canto all’Evangelo 1Pt 1,25
Alleluia, alleluia.
La parola del Signore rimane in eterno:
e questa è la parola dell’Evangelo
che vi è stato annunciato.
Alleluia.
Il testo del canto all’evangelo rimanda alla santa Iniziazione e costituisce uno dei ricchi temi
della divinizzazione. Precedentemente, al v. 23, Pietro aveva affermato che i fedeli sono stati generati
dalla Parola del Dio Vivente ed eterno, quale Seme incorruttibile (Gv 1,12-13; 3,3; Giac 1,18).
Il v. 25 dell’apostolo che cita qui Is 40,8b, «la Parola di Dio rimane in eterno» (vedi anche Sal
118,89), si pone in contrasto di fronte alla fragilità di tutte le realtà create, in specie alle più fragili,
quelle umane e vi aggiunge l’enunciato apostolico: ai fedeli è stata annunciata questa Parola divina,
l’Evangelo di Dio, non parole solo umane.
Nella «salita a Gerusalemme» (Lc 9,51 - 19,28) in questo testo singolare, proprio solo
dell’evangelista, Luca narra il lungo «esodo che si doveva consumare a Gerusalemme» (Lc 9,31),
secondo il quale attraverso la Croce e la Resurrezione Cristo deve tornare al Padre. Lungo l’itinerario

Gesù seguita ad attuare il suo ministero messianico nello Spirito Santo, operando i prodigi, ma
soprattutto insegnando in modo instancabile ai discepoli e alle folle che Lo circondano la dottrina del
Regno. Gesù seguita ad insegnare rispondendo agli apostoli che l’hanno interpellato con una richiesta;
ribadisce la potenza della fede e vi aggiunge alcune note severe sul servizio dei discepoli, che è gratuito
e disinteressato. Il contesto del brano ci dice che siamo ormai prossimi ad iniziare l’ultima tappa del
cammino verso Gerusalemme (17,11), anche se la collocazione dei vv. è da considerarsi più frutto dello
stile redazionale di Luca che di un preciso contesto.
Le parole di Gesù sulla fede si trovano negli evangeli sinottici in quattro forme differenti, due
delle quali sono assai vicine (vedi Mt 21,21; Mc 11,22-23) e annesse all’episodio del fico inaridito in
seguito alla maledizione di Gesù. Mt 17,20 riferisce la medesima sentenza, in una forma leggermente
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diversa, quando il Maestro spiega agli apostoli perché non sono riusciti a liberare dal demonio il
fanciullo epilettico.
Il testo di Luca corrisponde per la forma a questo secondo episodio di Matteo ma non ha alcun innesto
in un episodio, è soltanto preceduto da una invocazione degli apostoli (ecco lo stile redazionale di Luca)
perché il Maestro aumenti la loro fede. Un’allusione alle parole di Cristo si trova ancora nell’inno alla
carità di Paolo (cfr. 1 Cor 13,2): «Se possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne,
ma non avessi la carità, sono un nulla» .
Sebbene la sentenza di Gesù sia allo stato di masso erratico, nondimeno la frequenza della citazione indica
trattarsi di un insegnamento fondamentale, che ha vivamente colpito i discepoli.
Esaminiamo il testo
v. 5 - Luca introduce “gli apostoli” che pongono al Signore una richiesta fondamentale: «Accresci la
nostra fede».
Vivere lo stile di vita che Gesù propone è cosa assai difficile in questo mondo; gli apostoli si sentono
inadeguati al loro compito, perché di poca fede (cfr. 8,25; 12,28).
La richiesta rende palese la consapevolezza che la fede non è il risultato di uno sforzo umano,
ma è dono. Non è questione di quantità, ma di qualità. Và chiesta come il pane quotidiano ed il perdono
(cfr. 11,3ss “Padre nostro”). Dopo l’invocazione: «insegnaci a pregare» (11,1), questa è la preghiera
tipica del credente, soprattutto dell’apostolo:«aggiungi fede»(cfr. Mc 9,24).
Con essa si ottiene tutto (Mc 11,23s) Tutto infatti è possibile per chi crede (Mc 9,23) perché nulla è
impossibile a Dio (cfr. 1,37; 18,27).
v. 6 - Come quasi sempre, la risposta di Gesù non è diretta, che si smorzi in una battuta, ma è indiretta,
parabolica, ricca di dottrina. Le immagini a cui ricorre, nel loro simbolismo carico, vengono dalla vita
agricola per entrare nella vita spirituale. Dopo tanto stare con lui, ascoltandolo e guardandolo operare
prodigi, ancora tra i discepoli, insigniti del titolo di apostoli dal Maestro stesso, alcuni non hanno
coscienza di che cosa sia la fede richiesta.
Gesù comincia: «Se avete fede...».
La risposta di Gesù è tuttavia paradossale: invita a porre in atto ciò che essi già possiedono, perché
anche una fede “minima” può produrre risultati prodigiosi. Il confronto è enfatizzato dalla
contrapposizione tra il seme più piccolo (senape) e la pianta più difficile da sradicare, per la presenza di
aculei e radici profonde (gelso).
Ricordo che tra i traduttori non c’è accordo a riguardo del nome della pianta, resa da alcuni come
gelso e da altri sicomoro. Nell’Antico Testamento il termine è, generalmente, riferito al sicomoro (cfr.
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Lc 19,4): se così fosse, il paradosso sarebbe ancora più consistente, dato che era risaputo che questa
pianta poteva vivere anche per 600 anni ed era dunque difficilmente sradicarle. In entrambi i casi, il
senso dell’iperbole è chiaro: nulla è impossibile per chi crede! Non si tratta dunque di misurare la fede
con il criterio della quantità, ma dell’autenticità.
Da notare che a proposito della traduzione CEI di hōs qui proposta quel «quanto» dovrebb’essere
«come». Il seme della senape era proverbialmente la più piccola di tutte le sementi, grande quanto una
capocchia di spillo e come tale Gesù lo cita in una celebre parabola per indicare la misteriosa forza di
espansione del regno di Dio in contrasto con la sua iniziale modestia (cfr. Mt 13,31-32; Mc 4,30-32; Lc
13,18-19).
Eppure la fede è sufficiente per spostare un sicomoro, che Gesù indica, «quel sicomoro» (cfr. Sal 77,47),
anzi ancora di più, per fare un trapianto agricolo assurdo, incredibile, nel mare. Non solo, ma il gelso
obbedirebbe.
Nelle parole di Gesù sulla fede il paragone non sembra far leva tanto sulla piccolezza del seme, sulla sua
quantità, quanto sulla sua qualità di seme.
La risposta si ferma qui, incita però i discepoli alla meditazione; essi debbono sapere di quale fede fu
animato il Padre Abramo, quando uscì dalla sua terra per andare nomade senza indicazioni precise (Gen
12,1-3) e quando offrì Isacco al Signore (Gen 22,1-16).
Ed anche Mose, profeta e maestro, quando alzò il bastone per pregare contro i nemici (Es 17,8-16), e
quando con esso frantumò la rupe per dare acqua al popolo disperato (Es 17,1-7, vedi anche il salmo
responsoriale).
E quale fede potente, operatrice di prodigi, ebbero i Profeti d’Israele.
vv. 7-8 - La parabola propria del terzo evangelista e anch’essa, come s’è detto, non collocabile in un
esatto contesto, è introdotta da una domanda retorica per renderla più viva e attirare l’attenzione degli
ascoltatori.
Vi si parla di un padrone, il quale ha un servo tutto-fare che «ara o pascola»; sono queste le due azioni
tipiche dell’apostolo, l’annuncio = semina e la cura dei fratelli = pastore. Il servo o lo schiavo di cui si
parla è quindi proprio l’apostolo; egli non appartiene più a sé ma come lo schiavo appartiene al padrone
(= il Signore).
A nessuno viene in mente che il servo debba mangiare prima del padrone né che il padrone sia obbligato
al servo per avere egli eseguito gli ordini ricevuti.
Per condurre i suoi uditori ad interrogarsi, Gesù racconta loro una parabola, partendo da una situazione
quotidiana e articolandola attorno a due domande retoriche che Gesù pone per attirare l’attenzione degli
ascoltatori e trasformarli in interlocutori. Il significato della parabola potrebbe essere racchiuso in uno
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slogan: al servo è chiesto di comportarsi da servo. Dopo aver lavorato tutto il giorno nel campo, è
‘normale’ che continui a servire il padrone a tavola.
Ciò può risuonare socialmente ingiusto ai nostri orecchi, ma nella Palestina del I secolo, in cui servizio e
schiavitù erano realtà comuni, doveva essere un concetto ampiamente condiviso. Il servo non attende
gratitudine, dato che sta facendo ciò che deve fare.
«preparami… e servimi»: imp. Aoristo il primo presente il secondo. La preparazione si fa una volta sola
mentre il servizio dura a lungo. Il verbo del servizio è diakonéò, cfr. Gv 13,4.
v. 9 - La risposta è contenuta nel modo di formulare la domanda: è no!
Il lavoro dello schiavo non è oggetto di gratitudine: è insieme dovuto e gratuito. Sia lui che il suo lavoro
appartengono al padrone.
v. 10 – «Siamo servi inutili»: l’uso dell’aggettivo achrèios, inutile, senza valore, non vuole togliere
valore all’azione umana ma spingere gli apostoli verso un sano realismo offrendo un paragone. Nella
consapevolezza di ciò che è, il servo non usa il proprio lavoro come strumento di rivendicazione o vanto
nei confronti del proprio padrone. Allo stesso modo il discepolo / apostolo, sapendo che tutto ciò che è e
possiede gli è stato donato, non vivrà nell’orgoglio, ma trasformerà la propria esistenza in un canto di
lode a Colui da cui tutto proviene.
Possiamo ricordare la parabola del fariseo e del pubblicano (18,10-14). Mentre il fariseo usa la propria
impeccabile osservanza della Legge per ‘ricattare’ Dio, il pubblicano si pone dinnanzi a lui nella verità e
proprio per questo viene giustificato da Dio. Il medesimo messaggio è presente negli scritti rabbinici:
«Se avrai praticato molto la Torah non vantartene; perché per questo sei stato creato».
Quello che a prima vista, nella conclusione della parabola, aveva un che di aspro e quasi di irritante; in
realtà afferma quale dev’essere l’atteggiamento interiore del discepolo nell’esecuzione del suo mandato.
Questa schiavitù per amore è la liberazione totale dall’egoismo: «Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati
a libertà e questa non consiste nel vivere secondo l’egoismo, ma nell ‘essere, mediante la carità, schiavi
gli uni a servizio degli altri» (Gal 5,13).
L’aggettivo achrèios che la CEI traduce «siamo servi inutili». Non è esatto, perché lo schiavo che fa il
suo servizio non è «inutile»! In greco si usa una parola che significa «inutile» o «senza utile», cioè senza
guadagno.
Una traduzione migliore potrebbe essere, «siamo semplicemente schiavi», che significa che non
facciamo il nostro lavoro per guadagno o per utile, ma per dovere e gratuitamente: semplicemente
perché siamo suoi e apparteniamo a lui.
Chi «ara o pascola», non lo fa per turpe motivo di lucro (1P15,2), ma perché spinto dall’amore del suo
Signore morto per tutti (2 Cor 5,14).
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Essere servi inutili equivale dunque a «rinunciare a fare qualcosa di noi stessi» per lasciarci fare da Dio.
Soltanto perché lui ci precede, possiamo seguire; soltanto perché lui perdona, possiamo perdonare;
soltanto perché lui è con noi possiamo continuare ad annunciare l’Evangelo «con forza e amore»
persino nella persecuzione e nel martirio (2 Tm 2,6).
Il ministero apostolico è di sua natura gratuito, perché rivela la fonte da cui scaturisce:
«gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,8).
Per Paolo la ricompensa più alta è predicare gratuitamente l’Evangelo (1 Cor 9,18).
La sostanziale povertà dei sevi di Dio risulta evidente dal fatto che nell’opera della salvezza tutto
risale al Signore; Paolo ammoniva i Corinzi che parteggiavano per questo o per quell’evangelizzatore:
«Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma è Dio che ha fatto crescere. Ora né chi pianta né chi irriga è
qualcosa, ma è Dio che fa crescere» (1 Cor 3,6).
Lo stesso apostolo, quasi a commento delle parole di Cristo, dice: «Non è per me un vanto
predicare l’Evangelo, è per me un dovere: guai a me se non predicassi l’Evangelo!» (1 Cor 9,16).
II Colletta
O Padre, che ci ascolti se abbiamo fede
quanto un granello di senapa,
donaci l’umiltà del cuore,
perché cooperando con tutte le nostre forze
alla crescita del tuo regno,
ci riconosciamo servi inutili,
che tu hai chiamato
a rivelare le meraviglie del tuo amore.
Per il nostro Signore Gesù Cristo...
lunedì 30 settembre 2013
Abbazia Santa Maria di Pulsano
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