COMMENTO AL VANGELO DI DOMENICA 6 OTTOBRE DI ALBERTO VIANELLO

Letture: Am 1,2-3;2,2-4; 2Tm 1,6-8.13-14; Lc 17,5-10
 
Granelli di senape
 
1
Come mai gli apostoli chiedono a Gesù una fede più grande? Tale loro domanda risulta la giusta reazione al precedente insegnamento di Gesù, che aveva affermato l'essenzialità dei rapporti fraterni all'interno delle comunità cristiane, per cui tutto deve essere caratterizzato dagli sforzi di recupero del fratello e dalla prontezza nel perdonare, senza limiti (cfr. Lc 17,2-3).
Di fronte a questa affermazione, gli apostoli comprendono che tale comportamento non può essere il frutto di un impegno e di uno sforzo solo umani. Vivere rapporti di comunione autentica, essendo sempre pronti e capaci a perdonare, comporta far regnare Dio delle proprie relazioni, significa dare tutto lo spazio e il primato al suo amore, così da lasciarsene impregnare tutti i rapporti.
Perciò è primario non il volonteroso darsi da fare, quanto il credere alla grazia divina. Proprio per questo è giusta la reazione non solo di mettere al primo posto la fede, ma anche di riconoscerla come un dono, così da farne l'oggetto fondamentale della propria preghiera.
 
Ma la fede non è come i capitali finanziari che devono essere «aumentati, accresciuti».
Gesù risponde, così, non presentando una prospettiva, ma facendo riferimento alla realtà: la piccola, povera fede che già avete. Con grande saggezza, e per la nostra sanità mentale, il Signore ci riconduce con i piedi per terra: dalla considerazione di una possibilità ideale (avere molta fede), che potrebbe farci schiantare nella considerazione della nostra impotenza, al concreto di ciò di positivo che già viviamo (una fede minuscola, ma effettiva). Non serve tanta fede da rendere possibile l'impossibile: dire all'albero di sradicarsi e piantarsi nel mare. Serve, invece, la fede piccola ma sufficiente ad aprire la porta della nostra vita al Signore. La disponibilità, la docilità, l'apertura a Dio è tutto ciò che è chiesto alla fede. Fidarsi di Dio basta, perché il di più rischia sempre, poi, di illuderci di poterci fidare di noi stessi.
 
La parabola successiva ha proprio lo scopo di farci scoprire fecondi, ma non illusi su noi stessi.
Ma rischia di sviare la comprensione del testo l’aggettivo «inutile». Letteralmente esso significa «senza utile». In effetti, il servo di cui parla Gesù, prima ha lavorato fuori per il suo padrone come contadino o pastore, poi ha lavorato dentro come domestico. Non è dunque che egli sia risultato «inutile» al suo padrone!
«Senza utile», allora, significa senza una particolare riconoscenza se non quella di «aver fatto quanto doveva fare». È la libertà da se stessi: non far risalire a sé meriti ed onori, ma rinviare tutto al Signore. Se le opere della fede sono compiute con il segreto scopo di ricavarne onori, riconoscimenti, applausi, guadagni, potere, carriera, finiscono sì, in questo caso, per essere «inutili». Rimangono cioè solo a livello umano, anche se, magari, in ambiente religioso, creano l'illusione di valere agli occhi di Dio. Riceviamo tutto gratis dalla grazia (charis) del Signore; e Lui non deve a noi nessuna gratitudine (charis) per quello che facciamo, solo perché lo dobbiamo fare, mossi proprio dalla sua grazia.
 
Perciò la vera umiltà non consiste nel ritenersi inutili. E Dio non ci fa dei doni perché essi, e noi stessi, non serviamo a nulla. La vera umiltà sta nel lavorare instancabilmente per il Regno di Dio, sapendo però che esso è un dono che riceveremo gratis dal Signore.
Una mamma e un papà si spendono totalmente per i propri figli: per farli crescere bene e perché siano felici nel futuro della loro vita. Però alla fine non presentano il conto, né hanno fatto tanto solo per averne ricompensa o gratitudine (anche se quest'ultima se l'aspettano, ma non per essa hanno lavorato).
Ognuno di noi ha un compito unico e insostituibile per il Regno di Dio: magari piccolissimo, ma nessuno altro lo può fare al nostro posto. E, senza questo compito fatto, il Regno non è vero e pieno. Il Signore ci vuole operatori instancabili, animati dalla fede microscopica come il granello di senape, responsabili del proprio compito e umili così da non attribuire a sé alcun merito.
La nostra mentalità vi vede contraddizione: insostituibili o microscopici, responsabili o immeritevoli. Invece è la nostra realtà di granelli di senape: piccolissimi, ma senza di essi non c'è la pianta, non considerati eppure si deve tutto ad essi.
Amiamo il nostro essere servi: lavoratori a cui non spettano i riconoscimenti, ma, per i quali, il lavoro è fatto, e il padrone è servito.
E Dio, in Gesù Cristo, s'è fatto così servo rispetto a noi.
 
Alberto Vianello

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