Comunità Marango commento Domenica 27 "Le guance di Dio"

Letture: Sir 35,15b-17.20-22a; 2Tm 4,6-8.16-18; Lc 18,9-14
 
Le guance di Dio
 
1
Credo che non ci rendiamo conto fino in fondo di come, in Gesù, Dio rovesci le categorie religiose, quelle rappresentate dal fariseo, l'uomo perfettamente pio, e dal pubblicano, l'uomo totalmente peccatore, se non accogliamo ciò che il brano del Siracide già ci rivela nella prima Lettura.
Purtroppo, nella pericope presa per la liturgia, viene tagliato il v.18: «Le lacrime della vedova non scendono forse sulle sue guance?». Il testo non è preciso (forse volutamente?): quel «sue» può riferirsi alla vedova, ma è possibile anche che («sue» come aggettivo possessivo riferito a Dio) si dica che le lacrime della vedova rigano il volto di Dio! È un'immagine, certo. Ma, attraverso di essa, la Scrittura ci vuole rivelare, con la sua straordinaria efficacia, l'incommensurabile vicinanza di Dio con il povero che soffre. Così vicino e solidale che le lacrime versate dal povero diventano le lacrime di Dio; che le guance rigate delle lacrime della vedova sono quelle di Dio; che il pianto di Dio è quello del povero; che le sue guance sono quelle del povero.
Quindi, il primo motivo per cui avviene il rovesciamento della sorte (il peccatore torna a casa giustificato e l'uomo perfetto no) non sta nell'uomo e nella falsità o autenticità del suo porsi davanti a Dio, ma in Dio stesso perché «eccelso è il Signore, ma guarda verso l'umile; il superbo invece lo riconosce da lontano» (Sal 138,6): questa è la grandezza di Dio.
 
La parabola dei due uomini che salgono al tempio a pregare mette in evidenza, per così dire, la conferma di questa scelta di Dio, guardando la verità dell'atteggiamento dei due.
Già la motivazione della parabola indirizza l'interpretazione: «Per alcuni che avevano l'intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri». Il testo letterale parla di una «essere persuasi, convinti, aver fiducia sopra se stessi». Si crede nel proprio io e non in Dio.
Strettamente legato al credere solo in sé è il disprezzo per gli altri. La mancanza di carità non è causata solo dalla fatica di essere buoni, ma anche dall'eccessivo compiacimento di se stessi.
Il fariseo fa un elenco di tutte le sue prestazioni religiose, che superano abbondantemente anche quello che la stessa legge religiosa prescrive. Cosa si vuole di più!? Il giudizio lo esprime già Luca descrivendo l’atteggiamento del fariseo nella preghiera: «Pregava stando rivolto verso se stesso». Pregava se stesso! Con le sue grandi opere religiose si era messo al posto di Dio. E aveva ridotto Dio a un contabile di tutti i suoi digiuni e di tutte le sue decime. Un Dio che non aveva nulla da dargli né da chiedergli. Perché lui era la perfezione in atto. E la prova era la sua diversità da tutti gli altri uomini: «ladri, ingiusti, adulteri».
Tale uomo non sa cosa sia la gratuità, la riconoscenza, la solidarietà, ricevute e date, che sono l'autenticità del rapporto con Dio e con gli altri.
E tale assurda preghiera si incarna nell'immediato spontaneo disprezzo di qualcun altro che pregava: «Non sono neppure come questo pubblicano». La preghiera è lode a Dio e sostegno dei fratelli: il fariseo l'ha ridotta a lode di se stesso e annullamento degli altri.
 
La preghiera vera, quella del pubblicano, è quella rivestita di umiltà. Che non significa sentirsi schiacciati dal proprio peccato. Il pubblicano dice con tutto se stesso il suo essere «il peccatore»: si sente talmente preso dal suo peccato da farne la sua identità.
Eppure è con totale e fiduciosa apertura a Dio che egli si rivolge con la sua preghiera. Possiamo dire che è alla luce di Dio e della sua misericordia che il pubblicano si riconosce peccatore: «Dio come sei buono e misericordioso, e come tale ti rapporti a me, proprio per questo sento come io sia peccatore». Non possiamo mai dire la misericordia di Dio senza con ciò riconoscere il nostro peccato. Ma non possiamo mai confessarci peccatori senza riconoscere il perdono con il quale il Signore vince ogni nostra condizione di peccatori, gratuitamente.
Il pubblicano deve avere "visto" le sue lacrime per i peccati commessi scendere sulle guance di Dio, ed è perciò con fiducia che si è aperto con la sua preghiera alla grazia del Signore.
 
E Gesù, alla fine, sanziona con il giudizio di Dio («io vi dico») la sorte dei due uomini.
Il pubblicano se ne torna a casa portando con sé l'esperienza vera di Dio, che è quella della sua misericordia. Il fariseo sarà tornato alle sue pratiche religiose, tutto contento di se stesso, ma senza Dio con sé.
Ed Dio potrà compiacersi di aver sentito ancora una volta le lacrime di un povero uomo scendere sul suo volto. L'esperienza più bella che anche un Dio possa fare.
 
Alberto Vianello

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