Abbazia Pulsano Domenica «dei sadducei e la resurrezione» XXXII Dom. Tempo Ord. C

Domenica «dei sadducei e la resurrezione»
XXXII Dom. Tempo Ord. C
Lc 20,27-38 (leggi 20,27-40); 2 Mac 7,1-2.9-14 (leggi 7,1-42); Sal 16; 2 Ts 2,16-3,5 (leggi 2,13-3,5)
Antifona d’Ingresso Sal 87,3
La mia preghiera giunga fino a te;
tendi, o Signore, l’orecchio
alla mia preghiera.
Nell’antifona d’ingresso (Sal 87,3, SI) il Salmista è consapevole della sua fine prossima: «vicino agli
inferi sta l’anima mia» (v. 4b), e per questo si rivolge verso l’unico suo “Rifugio” con la sua supplica.
Questa è un’epiclesi affinché la sua voce giunga fino alla Presenza del Signore, davanti al trono della sua
grazia, sempre propizia e favorevole. In parallelismo sinonimico, con una seconda epiclesi l’Orante chiede
che il Signore tenda il suo orecchio benigno all’ascolto di questa voce supplicante (v. 3; e 30,3; 85,1). Il
che, secondo la teologia simbolica così espressiva, non può avvenire se il Signore non scende proprio Lui,
se non si fa vicino, come una Persona che accetta il colloquio con la persona del suo fedele.
Canto all’Evangelo Ap 1,5.6
Alleluia, alleluia.
Gesù Cristo è il primogenito dei morti:
a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli.
Alleluia.
Il canto all’evangelo, Ap l,5a.6b. è l’acclamazione iniziale dell’Apocalisse, una dossologia a Gesù
Cristo, il Primo dei risorti dai morti, che dà speranza ai "seguenti", i fedeli. A Lui si riconoscono e si
tributano «la gloria e l’impero». Questa formula è usata qui anche in senso polemico contro il culto
idololatrico che si tributava allora all’imperatore romano.
Nelle ultime 3 Domeniche del Tempo per l’Anno il Lezionario imprime come un movimento accelerato
verso la conclusione e la fine. I testi della santa Liturgia fanno entrare sempre più nelle realtà ultime
dell’esistenza. Realtà del mondo che termina e degli uomini che consumano la loro vita, realtà della storia
che corre alla sua definizione e al suo epilogo, della vita che è esistere e agire più o meno consapevolmente
alla presenza del Signore e davanti ai fratelli, e che esige alla fine un rendiconto. Si ha qui quella che oggi
si chiama escatologia, alla lettera lo studio dei «tà éschata, le realtà ultime» che avvengono nello spazio
tempo della creazione.
Comunità monastica di Pulsano – Lectio divina della XXXII Domenica del Tempo Ordinario C 1/7
Con l’ingresso messianico di Gesù a Gerusalemme (19,28) termina la lunga «salita» (iniziata al
9,51) ed inizia l’ultimo ministero della sua vita pubblica, con l’insegnamento di alcune massime realtà del
Regno.
Il luogo normale dove Gesù insegna è il tempio (19,47), dove si raccoglie intorno a lui sempre una gran
folla. Le questioni affrontate successivamente sono:
1. sul Battista (20,1-8);
2. la Pietra rigettata (20,9-18);
3. il tributo a Cesare (20,19-26);
4. la resurrezione (20,27-39);
5. il figlio ma Signore di David (20,41-44).
Luca è tornato allo schema di Marco.
Solo "il popolo" è in relazione con Gesù, ad esclusione di tutti gli avversari dell’inizio della sequenza.
Non appena Gesù è entrato nel tempio, si comporta come l’unico padrone del luogo e tutto il popolo
che si accalca ad ascoltarlo lo considera tale. Tutte le autorità, sommi sacerdoti, scribi e capi, perdono il
loro potere sul popolo. Gesù, che è solo ad insegnare, li eclissa tutti. A tal punto che alla fine questi non
compaiono neppure più e Gesù rimane solo padrone del luogo in un faccia a faccia esclusivo col popolo
soggiogato. È lui il solo vero capo del popolo.
Le autorità tuttavia non possono sopportare un simile abuso. Sono ben decise a difendere il loro
potere. La morte di Gesù è l’unico rimedio. Facendo tacere definitivamente questa voce onnipotente, essi
pensano di poter ritrovare un’autorità che non avrebbe mai dovuto essere contestata loro a questo punto.
Anche se sono obbligati ad attendere, per timore di questo popolo che li abbandona per ascoltare Gesù, la
decisione è già presa e ormai si tratta solo di provocare l’occasione. Siccome di giorno non si può nulla
contro di lui, finiranno con l’andare a cercarlo sul monte degli Ulivi dove, a causa delle loro minacce, si
rifugia per passarvi la notte.
L’episodio evangelico di questa domenica si legge nella triplice tradizione sinottica (cf Mt 22,23-33;
Mc 12,18-27), inserito nello stesso contesto delle polemiche di Gesù negli ultimi giorni della sua vita, a
Gerusalemme.
La pericope liturgica s’interrompe al v. 38, e non si comprende perché, in quanto la pericope naturale
termina al v. 40. Infatti il v. 39 narra come conclusione che alcuni esperti della Legge, forse del partito dei
farisei (visto che credono alla resurrezione), opposto a quello dei sadducei hanno ascoltato la disputa, che
quindi era pubblica. Hanno però visto con grande soddisfazione che il Signore ha le medesime loro idee e
speranze, e accolgono con gioia la vittoria del Signore come loro vittoria. Su essa gli danno anche
testimonianza aperta della verità, in modo leale, e con totale favore: «Maestro, bene parlasti!».
E il v 40 chiude la questione affermando che non si osò interrogare più Gesù su qualsiasi questione.
Comunità monastica di Pulsano – Lectio divina 2/7 della XXXII Domenica del Tempo Ordinario C
Esaminiamo il brano
v. 27 «sadducei »Tra i gruppi religiosi esistenti in Palestina ai tempi di Gesù, quello dei farisei è il più
frequentemente menzionato dagli evangeli; accanto ad essi si affacciano sporadicamente i sadducei, che,
nella persona del sommo sacerdote, assumeranno poi le parti principali nel processo di Cristo, astutamente
tirati in ballo dai farisei con l’accusa fatta a Gesù di voler distruggere il tempio (Mt 26,61; Mc 14,85),
nell’ambito del quale il sacerdozio dominava. Il nome «sadduceo»è in relazione col nome di Sadoc,
sommo sacerdote al tempo di Salomone (1 Re 2,35; soppianterà Abiatar cfr. 2 Sam 8,17; 1 Re 1,8) che i
sacerdoti ebrei consideravano loro antenato.
Ai sadducei appartenevano le famiglie più ricche e influenti della casta sacerdotale e della nobiltà laica di
Gerusalemme; dal punto di vista religioso essi erano conservatori: sostenevano la validità esclusiva della
Legge scritta da Mose, rifiutandosi di riconoscere la obbligatorietà della tradizione giuridica orale, alla
quale i farisei attribuivano, invece, la stessa autorità della Legge scritta; in politica erano realisti, quindi
favorivano i rapporti con i Romani occupanti. I sadducei scompaiono dalla storia con la distruzione del
tempio di Gerusalemme (70 d.C), dopo aver tentato invano di impedire la rivolta armata condotta dagli
intransigenti zeloti, sicché la riorganizzazione del giudaismo posteriore risultò di stampo farisaico.
Per il loro atteggiamento nei confronti di Gesù e i primi cristiani vedi At 4,1-2; 5,17-18; e Mt 26,57 = Mc
14,53. «negano che vi sia la resurrezione» : una delle più acute divergenze dottrinali tra farisei e sadducei
riguardava la risurrezione dei corpi, di questo Paolo saprà abilmente trarre vantaggio per difendersi in un
giudizio (cf. At 23,6-10). L’opposizione sadducea alla resurrezione aveva origine dal fatto che, fermandosi
al Pentateuco di Mose essi non riconoscevano validi i testi di Dn 12,2-3 e 2 Mac (la lett), dove la credenza
è chiaramente affermata.
La storia dei sette fratelli con la madre (la lettura), che muoiono con la speranza nella vita futura,
presenta un certo parallelismo con l’esempio che i sadducei propongono a Gesù per mettere in ridicolo la
credenza nella resurrezione.
I libri dei Maccabei (o libri dei Martiri di Israele) sono la testimonianza di un’epoca di lotte (II sec. a.
C.) sostenute per salvaguardare l’indipendenza politica come condizione per la libertà religiosa. Il primo di
questi libri è abbastanza vicino ai fatti, ma non va al di là dell’interesse nazionalistico.
Il secondo libro, in una prospettiva più spirituale, insiste sulla dimensione religiosa degli avvenimenti e
vede nella restaurazione del tempio la promessa di un avvenire di fedeltà a Dio. Vi si trova, per la prima
volta, l’affermazione della resurrezione dei giusti. Storicamente siamo nel periodo dell’eroica resistenza
alla campagna di Antioco IV Epifane per imporre l’ellenizzazione al popolo d’Israele( 167-164 a. C).
v. 28 Gesù si è fatto ormai conoscere dai sadducei (cf. 19,45-48; 20,1-8), che tentano ora di metterlo in
difficoltà o quantomeno ridicolizzare certi suoi insegnamenti.
Comunità monastica di Pulsano – Lectio divina della XXXII Domenica del Tempo Ordinario C 3/7
La domanda parte dalla Legge, il testo è Dt 25,5-10. la «legge del levirato»: il levirato ha come fine lo
scopo di perpetuare il nome del defunto, ed evitare l’alienazione dei beni di famiglia. Non è un obbligo
assoluto, salvo in Gen 38 (storia di Giuda e Tamar), sembra; un nuovo matrimonio è possibile fuori della
famiglia del defunto (il più frequente) vedi Rut 1-4.
In sostanza, per non perdere il nome di un membro della tribù, se moriva un uomo sposato la sua vedova
doveva essere risposata dal fratello di lui (il cognato = levir), o dal parente più vicino, in modo che gli
eventuali figli avessero sempre il nome dello scomparso.
La norma certamente non era gradita a chi voleva perpetuare il suo nome, ma era la Legge; che a suo
modo, tuttavia, esprime già l’esigenza fondamentale dell’uomo di sopravvivere oltre la propria morte
tramite una discendenza suscitata da lui o diversamente da un suo congiunto. La posterità è un mezzo per
valicare la barriera della morte.
vv. 29-33 I sadducei pongono un caso limite; poteva trattarsi di un caso ipotetico, come si faceva e si fa
nelle interminabili discussioni «casistiche», partendo cioè da un «caso»e cercando soluzioni in tutte le
direzioni, valide per eventuali applicazioni. I sadducei certamente non erano teneri con Gesù, e adesso
attendono la sua risposta, pronti a beffarlo. Per comprendere il testo dobbiamo porci nella prospettiva
giusta:
a. la cultura greca ereditata ci ha portati a credere che l’anima dell’uomo sia immortale per
sua natura. La morte è considerata quindi come separazione dei due elementi del nostro
composto: il corpo scende nel sepolcro e si corrompe, mentre l’anima si libera da tutta la
materia e la sofferenza terrena, salendo al piano di Dio se è sufficientemente purificata.
b. sul piano dell’AT l’uomo è visto in forma d’unità organica, così che lo stesso insieme
personale subisce la morte e si corrompe nel sepolcro (nello sheol o ade dove si
realizzava una sopravvivenza sbiadita e senza consistenza, che a malapena poteva essere
chiamata sopravvivenza; si tratta di un’esistenza puramente passiva senza la minima
attività : «Nessuno tra i morti ti ricorda. Chi negli inferi canta le tue lodi?» (dal Sal 6,6 e
cf Sal 88,11-13).
Questo non suppone che l’AT ignori la speranza della salvezza; non la ignora infatti, ma la
immagina fondamentalmente come futura e storica: il popolo d’Israele nel suo insieme riceverà alla fine la
gloria del compimento delle promesse e la benedizione d’una presenza trasformante di Dio. Tutto
l’evolversi della storia è stato un avanzare verso questa meta; le generazioni passate saranno come il
fondamento del nuovo Israele di pienezza che sorgerà allora in modo pieno.
I sadducei sono i rappresentanti classici di questo modo di pensare. Nei tempi che precedono la venuta di
Gesù, questa visione si allarga e si trasforma: da una parte si precisa che i giusti del regno futuro non
dovranno più subire la morte; dall’altra si aggiunge che i giusti dei tempi passati riprenderanno la vita
Comunità monastica di Pulsano – Lectio divina 4/7 della XXXII Domenica del Tempo Ordinario C
(risusciteranno) per partecipare alla gloria dei salvati del tempo escatologico. Questa è la tendenza
dominante degli ambienti rabbinici e farisaici.
«il numero sette» (lo troviamo anche nella la lett.) indica una certa pienezza, una totalità (cf. 1 Sam 2,5; Rt
4,15; Ger 15,9; interessante per talune analogie è il testo di Tb 3,11-15); ricordiamo la «settimana»che
termina nel riposo domenicale.
vv. 34-36 La risposta di Gesù è dura, e come già in altre occasioni, scavalca i cavilli di scuola per
considerare a fondo il problema. Gesù si muove sul piano di modo e sul piano di fatto della risurrezione.
Poiché il pensiero ebraico non distingueva tra anima e corpo, poteva facilmente incorrere in una
concezione materialistica e «banale» della risurrezione. Era la visione che sostenevano i farisei, facile
oggetto di caricatura da parte dei sadducei che perciò escludevano come assurda ogni idea di risurrezione.
(Il modo) Gesù differenziandosi dai farisei mostra che la fede nella risurrezione è fede nella potenza di
Dio, il quale ha il potere di creare tutto nuovo e introduce un concetto inedito della realtà: quelli giudicati
degni (i figli della risurrezione, di Dio, uguali agli angeli) non vivono come i figli di questo mondo (cf. Mt
22,29; Mc 12,24). E’ una realtà trasfigurata.
A un caso di paternità sette volte incompiuta e sfociata otto volte nella morte, Gesù risponde capovolgendo
la problematica. Se non vi è resurrezione, non sarà prendendo moglie o marito che si eviterà di sfociare
nella morte, non è neanche perché avrà figli che l’uomo eviterà di scomparire. Vivranno solo quelli che
riporranno la loro sola fiducia in Dio, l’unico vero vivente. Quelli che vivranno come figli, ricevendo tutto
da Dio, quelli non potranno morire. O si dovrà dire che Dio non è il Dio della vita. Negare la risurrezione,
in altre parole negare la vita, equivale a negare l’esistenza stessa di Dio. Se Abramo, Isacco e Giacobbe
sono vivi, non è tanto per aver generato dei figli quanto per il fatto di essere stati e di essere per sempre
generati da Dio. Alla risurrezione, vale a dire nell’ordine di Dio, la moglie, come ciascuno dei figli di
Adamo, non si identifica mediante la sua relazione di sposa, né per mezzo della sua eventuale maternità,
ma per mezzo della sola relazione di filiazione, l’unica che sia originaria e che non si possa abolire, la
stessa che definisce gli angeli.
vv. 37-38 Gesù aggiunge anche la dimostrazione che la risurrezione e la vita perenne sono un fatto reale,
promesso dalla scrittura (il fatto).
I sadducei ignorano non soltanto la potenza di Dio, ma anche le sacre scritture, dalle quali Gesù cita un
testo dai libri di Mose, i soli autorevoli in materia di fede secondo i suoi diretti avversari.
«Nel racconto del roveto ardente» (un antico modo di citare la Bibbia, con riferimento al contesto,
necessario in assenza di capitoli e versetti introdotti rispettivamente nei secoli XIII e XIV d. C.), Mosè
chiama il Signore «Dio di Abramo. Dio di Isacco e Dio di Giacobbe».
Quindi, conclude, non è il Dio dei morti ma dei vivi. Gesù induce i suoi interlocutori a ragionare così: tra il
Signore dell’Alleanza ed i patriarchi c’è un rapporto che è, e non può non essere che rapporto di vita. E
siccome Abramo, Isacco e Giacobbe erano già morti, bisogna ammettere il loro ritorno alla vita, altrimenti
Comunità monastica di Pulsano – Lectio divina della XXXII Domenica del Tempo Ordinario C 5/7
il Dio vivente sarebbe un Dio di morti. Nella Bibbia, «il Dio di un tale»non significa tanto il Dio adorato
da lui, quanto il Dio dal quale egli è protetto; in tal senso, il Signore era «scudo»dei patriarchi, come dice
la Bibbia e come gli ebrei lo invocavano ogni giorno nella preghiera.
Se Abramo e gli altri patriarchi fossero morti per sempre, il Signore sarebbe venuto meno alla promessa di
essere loro protettore e l’appellativo «Dio di Abramo» risulterebbe ingannevole e derisorio, perché la
morte senza speranza costituirebbe una sconfìtta per Dio e una delusione per l’uomo.
Un uomo morto, ridotto secondo la condizione semitica a un’ombra nell’oltretomba, non più cosciente e
quindi non più vivente e integro, è sottratto alla protezione divina.
Le parole citate in Lc 20,37b sono quelle con cui Dio si fa conoscere da Mosè (Es 3,6 e 15). Dato il
contesto di sterilità ripetuta e successiva del caso presentato dai sadducei, si può senz’altro ricordare che
per i tre patriarchi si è posto lo stesso problema di sterilità:
a. Sara, moglie di Abramo, è sterile (Gen 17,17),
b. allo stesso modo Rebecca moglie di Isacco (Gen 25,21)
c. e Rachele moglie di Giacobbe (Gen 29,31);
È per l’intervento di Dio che esse danno ai loro mariti una discendenza (Gen 18,9s; 25,21; 30,22).
Il popolo eletto, la casa di Giacobbe non porta il nome di Abramo, ma quella del figlio del figlio,
Giacobbe-Israele. Il triplice nome di Dio che si rivela a Mosè è quello di una triplice generazione, è il
nome di una vita ricevuta e trasmessa contro la sterilità e la morte, è il nome di quelli che hanno ricevuto la
vita da Dio di generazione in generazione.
Luca è il solo a concludere la risposta di Gesù con la frase «perché tutti vivono per lui»:si tratta di
un’esplicitazione del pensiero di Cristo. Chi vive per sé, muore nell’egoismo. Chi vive per il Signore,
partecipa già ora alla vita che ha vinto la morte. Gesù non volle dire di più circa questo mistero. Noi
cristiani sappiamo che tutto questo dev’essere interpretato ora attraverso la Pasqua di Gesù. Per noi esiste
la resurrezione, perché crediamo che Cristo è risuscitato. Siamo il suo corpo in questo mondo e dobbiamo
partecipare della sua sorte.
Il v. 40 chiude l’interrogazione affermando che nessuno osò più interrogare Gesù su qualsiasi questione.
Antifona alla Comunione Sal 22,1-2
Il Signore è mio pastore, non manco di nulla;
in pascoli di erbe fresche mi fa riposare,
ad acque tranquille mi conduce.
Accanto alla preghiera II colletta concludo con l’antifona alla comunione (Sal 22 – SFI) che è
l’inizio del canto gioioso di un orante che attraverso una formula di alleanza (“Tu sei il mio Pastore – io
sono il tuo gregge”), che percorre tutta la narrazione biblica, afferma la sua solida fiducia in Dio (come fa
anche il salmo responsoriale) che è potente e che non farà mancare nulla al “Suo” gregge che nutre con la
Comunità monastica di Pulsano – Lectio divina 6/7 della XXXII Domenica del Tempo Ordinario C
Parola e con il Convito. Per l’applicazione di oggi il Signore è il Pastore che dona la Vita eterna alla Sposa
bella preparata per lo Sposo.
II Colletta
O Dio, Padre della vita
e autore della risurrezione,
davanti a te anche i morti vivono;
fa' che la parola del tuo Figlio
seminata nei nostri cuori,
germogli e fruttifichi in ogni opera buona,
perché in vita e in morte
siamo confermati nella speranza della gloria.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…
lunedì 4 novembre 2013
Abbazia Santa Maria di Pulsano
Comunità monastica di Pulsano – Lectio divina della XXXII Domenica del Tempo Ordinario C 7/7

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