Abazzia Pulsano Domenica «dell’annuncio a Giuseppe» IV Domenica di Avvento A

Domenica «dell’annuncio a Giuseppe» IV Domenica di Avvento A
Mt 1,18-24; Is 7,10-14; Sal 23; Rm 1,1-7
Si chiude oggi il breve ciclo delle Domeniche d’Avvento ma anche questa Domenica come ogni altra Domenica è il «Giorno del Signore Risorto», contemplato oggi come Colui che venne nella carne. La pienezza della Redenzione, la Resurrezione del Crocifisso con lo Spirito Santo, motiva ed esplicita 1’«inizio della Redenzione», come i Padri chiamavano il complesso che dall’Avvento al Natale all’Epifania al Battesimo e a Cana è la premessa dell’adempimento finale. La I preghiera di colletta ci fa pregare proprio in questa linea:
Infondi nel nostro spirito la tua grazia, o Padre,  tu, che nell'annunzio dell'angelo  ci hai rivelato l'incarnazione del tuo Figlio,  per la sua passione e la sua croce  guidaci alla gloria della risurrezione.
 Per il nostro Signore Gesù Cristo...
La divina liturgia inizia con il canto dell’antifona d’ingresso tratta da Is 45,8:
Stillate dall’alto, o cieli, la vostra rugiada e dalle nubi scenda a noi il Giusto; si apra la terra e germogli il Salvatore.
L’Antifona d’ingresso è tratta da Is 45,8 dove tutto il cap. 45 nel contesto della composizione che va sotto il nome di «Secondo Isaia» (Is 40-55), descrive con toni di violenta polemica lo scontro del Signore Unico con la rovinosa idololatria del tempo (sec. 6° a. C). Il Signore è l’Unico Sovrano universale, il Creatore onnipotente e Onnireggente. Sotto la sua sovranità benefica sta soggetto tutto quello che Egli chiamò all’esistenza, cosmo, popoli, storia, non il solo Israele. Tutto avviene per gli uomini secondo il suo Disegno sapienziale imperscrutabile. Così Egli affida la sua missione salvifica, finalizzata anzitutto al suo popolo adesso in esilio, ma poi a tutte le nazioni, nelle mani di un pagano della steppa, di tribù barbare, Ciro re dei Persiani, il futuro rovesciatore della potenza immane di Babilonia, che era l’oppressione del mondo. La onnipresente Potenza di Dio dirige la storia degli uomini e solo Lui può ordinare sovranamente la nuova creazione: nei cieli, che dalle loro nubi «distillino la Giustizia» misericordiosa e salvifica, e sulla terra, così che questa produca «la Salvezza». Nella teologia del deutero-isaia si tratta di due
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personificazioni per indicare «Colui che viene» subito perché è il Promesso, l’Inviato unico del Signore «che crea tutte le realtà». Da adesso il Disegno divino sta per manifestarsi e sta per operare quanto ha decretato immutabilmente. «Colui che viene» tuttavia venne dal Cielo, da Dio, come «nostra Giustizia». E poiché il Cielo si unì con la terra, venne anche dalla «Terra vergine», Maria, dalla cui inviolata verginità, dono divino, il Signore stesso si plasmò la carne del Figlio, come in antico aveva plasmato dalla terra vergine, infondendo all’argilla il suo Soffio divino (Gen 2,7). Questo linguaggio inaudito, purtroppo come tanti tesori della Tradizione si perde nella sciatteria spirituale generale, è significante in modo straordinario. È una sintesi mirabile di «teologia della storia», sulla rigorosa base della Bibbia, che i Padri (da S. Ireneo in poi) hanno splendidamente esposto e codificato. Esso va recuperato, poiché è vero e dice fatti veri. Il versetto del canto dell’alleluia dell’evangelo che è il centro della pericope evangelica di oggi verrà ripreso in seguito. È fondamentale tenere presente che la pericope naturale, da leggere perciò senza frammentazione, è Mt 1,1-25, anche se il Lezionario la dispone così: i vv. 18-24 per questa Domenica IV d’Avvento; i vv. 1-17 per la Vigilia del Natale. È indispensabile se non possiamo fare il commento completo sottolineare almeno tutta la singolarità ed invitare quanti lo desiderano ad un approfondimento personale. Questo per due ottimi motivi:  1. questa pericope si comprende solo nella sua stretta unità; 2.  poi nelle Domeniche e feste non è proclamata più. Il testo è l’inizio inimmaginabilmente augusto e solenne di un «evangelo», quello di Matteo, grandioso per sua natura. In Oriente il brano di questa IV Dom. di Avvento, la narrazione della Nascita del Signore secondo Matteo, è giustamente chiamato «l’Annunciazione a Giuseppe». L’esame sinottico lo pone in parallelo e in concomitanza necessaria con quella classica, a Maria Vergine (Lc 1,26-38), con la quale forma contesto nelle evidenti diversità e nelle più che evidenti concordanze, per un’unica lettura non mescolata e confusa. Due narrazioni del tutto diverse per protagonisti, tempo, luogo e destinatari, e modo, in mirabile «discordia concordante»:  a. il Centro è Gesù Cristo Signore;  b. L’Operante è lo Spirito Santo;  c. l’oggetto è la Vergine;  d. l’Annunciante è l’Angelo;  e. con-protagonista subordinato è l’umile e silenzioso Giuseppe;  f. l’Evento è la nascita verginale di Gesù Cristo Salvatore, l’Immanuel. Il versetto d’esordio della pericope naturale (1,1), solenne e maestoso, contiene la chiave d’interpretazione dell’intera pericope, anzi, a rigore, dell’intero evangelo di Matteo.
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Il termine greco «Gènesis», ripetuto strategicamente al v. 18, traduce l’ebraico tóledah (plur. tòledót, cfr. ad es. Gen 2,4a; 5,1 e poi 5,2-32), racchiude diversi significati, tutti sacri, che la teologia simbolica presenta da accettare tutti insieme, senza opposizione né esclusione, ma in ricca e decisiva complementarità. Tali significati, almeno i maggiori, sono:  1. genesi, in quanto «creazione» (cfr il libro della Genesi, che apre l’AT);  2. genealogia;  3. generazione;  4. origine;  5. nascita;  6. storia (in ebraico moderno, di fatto, «storia» si dice tòledót).  L’evangelo di Matteo si presenta come il «Libro della genesi, della creazione, della generazione, dell’origine, della nascita, della storia di Gesù Cristo». Il nome composto sarà poi spiegato ai vv. 21 e 25 in specie, ma non solo da essi. Lasciando ad altra occasione l’esame dei vv. 1-17 passiamo ad esaminare la pericope di questa IV Dom. di Avvento.
Esaminiamo il brano
v. 18 Con il questo versetto Matteo si dispone, come abbiamo detto, a narrare il culmine della génesis, la creazione, la generazione, la genealogia, l’origine, la nascita, la storia «di Gesù Cristo», con una specie di titolo riassuntivo. La maggior parte dei manoscritti ha «Gesù Cristo»; altri hanno «il Messia». La presenza dell’articolo determinativo («il») e l’enfasi data dalla genealogia a Gesù come Figlio di Davide (= Messia) fa pensare che l’originale avesse «il Messia». Nel versetto che precede il nostro testo e che segna la conclusione della genealogia di Gesù, ci viene offerta la chiave di lettura teologica del brano evangelico di questa domenica: «Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù, chiamato Cristo» (Mt 1,16).
Il testo greco non dice dalla quale è nato Gesù, ma dalla quale è stato generato Gesù. Una differenza non da poco, si tratta infatti della forma verbale detta passivo divino, un artifìcio letterario impiegato spesso nella Bibbia per attribuire un’azione a Dio, senza citarlo per nome. Che cosa intendeva attestare l’evangelista con un’affermazione così solenne? Per comprenderlo dobbiamo rifarci alla mentalità e alla cultura del mondo semitico dove non si sapeva che, nella nascita di un bambino, concorrevano il papà e la mamma. Si pensava che solo il papà generasse e la mamma si limitasse a custodire, far crescere in grembo e poi dare alla luce il figlio che era tutto del padre.
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Nella genealogia - che è la prima pagina dell’evangelo di Matteo - per trentanove volte ricorre il verbo generare, sempre attribuito a maschi e impiegato all’attivo: «Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli...». Giunto a Giuseppe l’evangelista interrompe la cadenza e introduce il passivo divino. Giuseppe non genera, Giuseppe è “lo sposo di Maria, dalla quale è stato generato Gesù, chiamato il Cristo”. Gesù - chiarisce Matteo - non è stato generato da Giuseppe, ma da Dio. È la confessione di fede nella divinità del figlio di Maria, professata nelle comunità cristiane del I secolo d.C. e trasmessaci dall’evangelista. È così importante questo passivo divino che Matteo lo riprende subito dopo - ed è l’inizio del brano evangelico di oggi: «Così fu generato Gesù Cristo». Poi, per coinvolgerci sempre più nella scoperta dell’identità del Figlio di Dio continua raccontando l’annunciazione a Giuseppe. «sua madre Maria»: è già Madre; ha già ricevuto il Dono dall’alto, come sappiamo da Luca. Quale titolo più grande di questo? «si era fidanzata»: nella legge giudaica, con il fidanzamento che avveniva davanti a due testimoni, il contratto matrimoniale si riteneva già stipulato, era un vincolo non più solvibile. Gli ebrei si sposavano molto giovani: secondo i rabbini, l’età conveniente per l’uomo era 16-18 anni, per le ragazze 12-13 anni. Normalmente erano i genitori a scegliere lo sposo. La legge vietava di sposare donne straniere "che potrebbero essere idolatre e spingere i figli sulla stessa via". Ugualmente proibita era l’unione fra consanguinei, pena la morte. Durante il fidanzamento la legge riconosceva ai "promessi" gli stessi diritti e doveri degli sposi: la ragazza infedele, ad esempio, veniva punita come adultera; se il fidanzato moriva la ragazza era considerata vedova. Il fidanzato offriva alla futura sposa il "mattan", un dono che restava alla donna anche in caso di vedovanza. La dote data alla sposa era considerata disonorevole per il marito: toccava invece al futuro sposo dare al padre della ragazza il "mohar ", un dono in denaro o in natura fissato per contratto, che si firmava con la luna piena, considerata portafortuna.  I matrimoni si celebravano solitamente in autunno, dopo i raccolti e la vendemmia: così c’era più tempo libero e anche maggiori disponibilità di provviste e di denaro. Non c’erano cerimonie religiose: solo al primo pellegrinaggio i novelli sposi offrivano un sacrificio. Si accompagnavano lo sposo e la sposa in festoso corteo (cfr. Mt 25,1-13): quando lo sposo, salutati gli ospiti, raggiungeva la sposa, le amiche si ritiravano spegnendo le loro lampade.  Alle nozze si invitava normalmente l’intero villaggio. Le feste di nozze duravano da 3 giorni (per una donna risposata), fino a 14 giorni, durante i quali parenti e amici erano ospiti dei festeggiati. Forse per questo a Cana "venne a mancare il vino" (cfr. Gv 2,3). Un figlio nato durante questo periodo era considerato senz’altro legittimo. Attraverso il rito nuziale solenne (dopo un anno) sarebbe stato ratificato e sigillato anche civilmente, e gli sposi (alla lettera il lat. sponsus indica il fidanzato), potevano cominciare la vita comune. L’evangelo di Matteo con forza non minore di quello lucano (1,27.35) afferma l’esclusione di ogni funzione generatrice
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umana da parte di Giuseppe: «prima che essi convivessero», prima del rito matrimoniale e della vita in comune, come ripeterà poi al v. 25. L’estraneità di Giuseppe alla concezione del Bambino è colta in estrema sintesi anche nelle immagini pittoriche; nel modello iconografico classico la separazione della figura di Giuseppe dalla coppia madre-bambino, esprime proprio la non-partecipazione al concepimento, che è opera esclusiva dello Spirito (v.20). «per opera dello Spirito Santo»: Il greco non ha l’articolo determinativo. Inoltre, l’idea di «Spirito Santo» implicita nel testo è più affine alle idee dell’AT che alle dottrine dei concili della Chiesa. Il ruolo dello spirito di Dio nella creazione compare in Gn 1,1-2. L’espressione «per opera dello Spirito Santo» è la spiegazione che il narratore dà al lettore, per offrirgli un indizio per il mistero della gravidanza di Maria che Giuseppe deve affrontare. v. 19 - «Giuseppe»: L’Evangelo dice poco di Giuseppe: è sposo di Maria, artigiano coscienzioso, "uomo giusto " che rispetta la legge (cfr. Mt 1,18-19). Davanti al mistero dell’incarnazione, si sente impari e vorrebbe ritirarsi in silenzio: ma in sogno apprende che tocca a lui "figlio di Davide" dare il nome e la legittima discendenza al Messia. E Giuseppe rimane al suo posto, vicino a Maria vergine e a Gesù Figlio di Dio.  Di lui non sappiamo altro; proprio per questo sono fiorite molte antiche leggende. Secondo un apòcrifo, Giuseppe, già novantenne e vedovo con sei figli, fu scelto tra una rosa di pretendenti come sposo di Maria perché dal suo bastone, miracolosamente fiorito, si levò in volo una colomba. È una leggenda che ha ispirato spesso la pittura. Nella fuga in Egitto, Giuseppe avrebbe portato con Gesù e Maria anche quattro dei propri figli. Al ritorno a Nazaret Gesù apprese da lui il mestiere di fabbro o falegname tuttofare, operando miracoli "artigianali " come allungare o accorciare tavole di legno e rifinire in un istante un letto per il re di Gerusalemme intorno al quale Giuseppe lavorava da anni. Giuseppe è invocato come protettore dei morenti perché chiuse gli occhi – nell’evangelo scompare dopo il ritorno a Nazaret - assistito da Gesù e da Maria. La leggenda dice che aveva 111 anni e che la sua anima fu portata in cielo dagli arcangeli Michele e Gabriele. Sicuramente nessuna morte fu bella come la sua. «uomo giusto»: Per un uomo «giusto» davanti a Dio ed alla sua Legge come Giuseppe è il dramma, il dubbio. Perché? Il titolo dato a Giuseppe è uomo «giusto», le interpretazioni più morbide come «gentile» o «pio» non sono sufficienti. La legge specifica che interessava Maria e Giuseppe si trova in Dt 22,23-27, e riguarda il caso in cui si riscontra che una donna promessa in sposa non è vergine. Questa doveva essere rimandata alla casa del padre e lapidata a morte dagli uomini della città per la disgrazia (disonore) che aveva gettato sulla casa paterna. Non si tratta della «giustizia» che, in ossequio alle prescrizioni della Legge, avrebbe spinto Giuseppe a rimandare la sua sposa, sospetta d’infedeltà; nè di quella giustizia che è bontà, la quale, per non nuocere a Maria, la cui colpevolezza non era provata nè provabile, gli avrebbe suggerito di rimandarla in
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segreto. Per la fidanzata in così grave fallo, oltre la pubblica ignominia, la pena prevista era la lapidazione (cfr. Dt 22,13-21; l’ignominia doveva essere tolta via dal popolo); era in suo potere ripudiare il contratto firmando una dichiarazione alla presenza di testimoni, ma senza manifestare pubblicamente i motivi. «e non voleva accusarla pubblicamente»: Il greco kai («e») deve avere valore avversativo («ma»). L’accusa pubblica («svergognare») allude alla gogna pubblica descritta in Dt 22,23-27. Giuseppe decise di risparmiare a Maria questo disonore pubblico limitandosi semplicemente a ricorrere al procedimento, meno pubblico, del divorzio: «Se essa dice: "Io sono impura", con ciò scioglie il suo contratto matrimoniale e se ne va». È da ritenere che egli fosse al corrente di quello che era avvenuto; non c’è ragione per cui Maria, sua fidanzata, non dovesse informarlo di tutto. La giustizia dell’uomo pio, retto, timorato di Dio, consiste nell’essere «giusto» ciò che Dio vuole che egli sia. Giuseppe, messo di fronte alla nuova situazione provocata dall’intervento soprannaturale, pensa di non essere più al suo posto e ciò lo spinge a trarsi in disparte. Il dubbio di Giuseppe non si riferiva quindi alla colpevolezza o all’innocenza di Maria, bensì al ruolo che egli personalmente doveva avere nell’avvenimento. Un intervento soprannaturale glielo rivela: egli dovrà imporre il nome al bambino, cioè, dovrà essere il suo padre legale. Altri «giusti» sono i genitori di Giovanni (Lc 1,6), Simeone (Lc 2,25), Giuseppe di Arimatea (Lc 23,50), il centurione Cornelio (At 10,22), mentre altri si fanno passare per tali (Lc 16,15; Mt 23,28). vv. 20-21 Siamo giunti all’annunciazione vera e propria. Nella narrazione che si sviluppa in tre momenti (vv. 20-21, annuncio; vv. 22-23, citazione biblica; vv. 24- 25, realizzazione ), si trovano gli elementi caratteristici del genere letterario degli annunci di cui è piena la Bibbia (cfr Gen 17-18; Es 3; Gdc 13,3ss; Lc 1,11ss); e cioè:  1. l’apparizione (v. 20a),  2. il turbamento (v. 20b),  3. il messaggio (vv. 20-21),  4. l’obiezione (v. 20),  5. il «segno»  e il nome (v. 21).  Nell’AT. «Angelo del Signore» è una metafora che intende rispettare la Persona del Signore, ponendo un intermediario tra Lui e gli uomini (cfr nascita di Isacco, Sansone, Giovanni, ecc. ).  Un angelo serve da messaggero di Dio anche in Mt 2,13.19 nel contesto dei sogni. I sogni in Mt 2,13.22 sono veicoli di comunicazione divina. Così qui sono presentati due motivi che acquisteranno importanza nel capitolo seguente. v. 20 - «in sogno»: La manifestazione è in sogno come avviene ai Patriarchi (cfr. Gen 20,6; 31,11), ai Profeti (cfr. Num 12,6), ai sapienti (cfr. Dan 2,19; Gb 33,14-15).
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«non temere»: costatando il mistero di Maria, Giuseppe, si era persuaso di non poter assolutamente stare con lei e cerca di ritirarsi, senza danneggiare Maria. L’angelo però lo esorta a non aver di nuovo timore e Giuseppe, davanti all’indicazione del cielo, non ha più alcuna esitazione. «prendere con te»: In conseguenza del fidanzamento ufficiale Maria era già la moglie di Giuseppe. Ora si tratta di decidere se Giuseppe debba completare il procedimento matrimoniale portando a casa sua (o di suo padre) la sua sposa già incinta. Mentre il primo pensiero di Giuseppe era quello di sospendere il procedimento, il consiglio che riceve dall’angelo è di portarlo a compimento perché fa parte del piano di Dio. v. 21 - «e tu lo chiamerai Gesù»: Secondo Lc 1,31 è Maria che riceve l’incarico di dare il nome a Gesù. Ma per Matteo il personaggio focale è Giuseppe, che perciò è incaricato di dare il nome a Gesù (vedi Mt 1,25). Il nome normalmente veniva dato al momento della circoncisione, l’ottavo giorno dopo la nascita (vedi Lc 1,59; 2,21). Il nome poteva essere dato da un genitore o dall’altro (vedi Gen 4,25-26). «Gesù»: il nome Gesù deriva dalla forma greca del nome ebraico Yeshua o Yeshu, che sono la forma abbreviata di Joshua. Il significato originale di Joshua probabilmente era «Jwhw aiuta». Ma il nome è stato poi legato alla radice ebraica che significa «salvare» (ys’) è iterpretato «Dio salva». L’interpretazione del nome di Gesù mette tale nome in relazione alla sua missione nell’ambito del disegno di Dio. «Gesù» (= Salvatore) il nome ebraico era un nome di persona molto frequente fra gli Israeliti a partire da Giosuè, che fù la personalità più grande del A.T. a portare tale nome. Ad esso si aggiunge «Cristo», ebr. Mashiah, «l’Unto» del Signore, alla lettera greca Christòs, Unto. vv. 22-23  La rivelazione angelica è integrata dall’evangelista con la conferma scritturistica desunta dalla celebre profezia di Isaia riguardante l’Emmanuele (Is 7,14 della la lett). v. 23 - «la vergine»: l’originale ebr. ha il termine ‘almah, che per sé indica giovane donna, ragazza da marito, non necessariamente vergine; per indicare una vergine l’ebr. ha betulah. Matteo cita dalla versione greca dei LXX che ha appunto parthénos, vergine; tale versione è fatta, nel sec. 3°-2° a.C, da Ebrei e non da cristiani, i quali rileggono le profezie alla luce del progresso della fede e della Rivelazione. Il celebre oracolo pronunciato da Isaia: «Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele, che significa Dio con noi» era l’annuncio della nascita di Ezechia, il figlio di Acaz. In lui erano state riposte tante speranze e difatti fu un re devoto e pio, ma non realizzò le promesse di felicità, di benessere e di pace descritte da Isaia. Non fu affatto “un prodigio di consigliere, un guerriero invincibile, un padre per sempre, un principe della pace...” (Is 9,5-6). Sorprende la fermezza di un popolo che, anche dopo la scomparsa della dinastia davidica, anche dopo la distruzione di Gerusalemme e la deportazione a Babilonia, ha continuato a credere nella fedeltà di Dio e ad attendere l’adempimento della sua promessa. Indicando Gesù come colui che ha dato pieno compimento alla profezia, Matteo lo presenta come il vero, atteso “Emmanuele, il Dio con noi”.
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In Israele la verginità di una ragazza era apprezzata prima del matrimonio, ma mantenerla per tutta la vita era motivo di biasimo. La donna non sposata e senza figli era irrisa perché non era stata capace di attirare su di sé lo sguardo amorevole di un uomo, era un albero senza frutti, meritevole di commiserazione (Is 56,3-6; Gdc 11,39). È per questo che nella Bibbia il termine vergine ricorre spesso in senso metaforico: indica una condizione spregevole. Vergine Sion non significa Gerusalemme immacolata e pura, ma povera, disprezzata, priva di vita (Ger 31,4). Israele umiliata dagli assiri è paragonata da Amos alla vergine che non ha realizzato il sogno di essere madre: «È caduta, non si alzerà più, la vergine d’Israele; è stesa al suolo, nessuno la fa rialzare» (Am 5,2). Anche Babilonia, la sanguinaria, è maledetta dal profeta: «Sarai ridotta in polvere, vergine Babilonia» (Is 47,1). Per le ragazze da marito era dunque regola stretta «in Israele» conservarsi per lo sposo, in fedeltà all’alleanza ed ai doveri di future madri onorate, custodi della generazione fedele. Le adultere erano soggette alla pene di morte. Maria dunque è vergine e partorisce. Il termine vergine nella Bibbia ha anche un altro significato metaforico: indica la persona che ama con cuore indiviso. L’infedeltà di Israele è paragonata a una prostituzione (Ger 5,7); la sua contaminazione con gli idoli è considerata un adulterio, una divisione del cuore fra il Signore, l’unico sposo, e gli idoli delle nazioni, i suoi amanti (Os 2). La verginità è il simbolo dell’amore totale e incondizionato per il Signore. È in questo senso che Paolo impiega il termine quando scrive ai Corinzi: «Io provo per voi una specie di gelosia divina, avendovi promessi a un unico sposo, per presentarvi quale vergine casta a Cristo» (2 Cor 11,2). Maria ha certamente realizzato alla perfezione anche questa verginità ed è, per ogni discepolo, il modello sommo di cuore indiviso per Dio. «Emmanuele»: nome simbolico che significa «Dio è con noi», cioè Dio ci protegge e ci aiuta v. 24 «fece»: l’animo di Giuseppe era già così propenso a una soluzione straordinaria (data la straordinaria virtù della sua Sposa e la non meno straordinaria sensibilità spirituale propria) che alla prima comunicazione celeste crede e accetta senza la minima esitazione. Ben diversamente invece aveva agito il sacerdote Zaccaria (cfr. Lc 1,8-20). Conosciuto il ruolo che gli era assegnato in quel matrimonio, egli si sentì libero dal turbamento, dallo sconcerto e dal dubbio; obbedendo in tutto, con docilità perfetta, pronta, umile, silenziosa verso Dio e gli uomini. A differenza di Acaz (cfr. la lett.) che rifiuta il segno di Dio provocandone lo sdegno, Giuseppe accoglie il segno che gli è dato nell’apparizione dell’angelo e ascoltandone la parola diventa intimo collaboratore di Dio. Ecco come Gesù può essere discendente di Davide, anche se Giuseppe, di stirpe davidica, non ha avuto parte nella sua generazione. Dio stesso si è incaricato di inserire Gesù nella discendenza davidica, facendo sì che Giuseppe accogliesse nella sua casa Maria e ne riconoscesse legalmente il figlio, imponendogli il nome con autorità paterna.
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Giustamente M. Kramer scrive: «Non è la casa di Davide che dà al Signore un figlio in adozione, ma Dio stesso genera il messia come suo figlio fin dal seno materno e lo dà come figlio adottivo alla casa di Davide». Il collegamento con Abramo e Davide risulta così dimostrato e assicurata la discendenza, sia pure fuori dei vincoli di sangue. II Colletta: O Dio, Padre buono,  tu hai rilevato la gratuità  e la potenza del tuo amore,  scegliendo il grembo purissimo della Vergine Maria  per rivestire di carne mortale il Verbo della vita:  concedi anche a noi di accoglierlo e generarlo nello spirito  con l'ascolto della tua parola, nell'obbedienza della fede.  Per il nostro Signore Gesù Cristo...    
lunedì 16 dicembre 2013 Abbazia Santa Maria di Pulsano

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