P.Raniero Cantalamessa"nota sulla sofferenza di Dio Padre e le eresie del patripassianesimo"

Nella seconda parte del secolo scorso, alcuni dei più noti teologi hanno parlato della sofferenza di Dio. Dietro il giapponese K. Kitamori (Theology of the Pain of God. Richmond, 1965), lo hanno fatto, partendo da punti di vista diversi, K. Barth (Dommatica ecclesiastica, IV/1, 303 s.), J. Moltmann (Der gekreuzigte Gott, Munchen 1972, pp. 184-267) e H .U. von Balthasar nella sua Teodrammatica. La Commissione Teologica Internazionale ha dato un giudizio sostanzialmente positivo su queste aperture (cfr. “Teologia, cristologia, antropologia”, in “Civiltà Cattolica”, 1983, pp. 50-65)-
Questa visione, con le dovute precisazioni e cautele, è stata accolta da Giovanni Paolo II che nell’enciclica sullo Spirito
Santo ha scritto: “La concezione di Dio, come essere necessariamente perfettissimo, esclude certamente da Dio ogni dolore derivante da carenze o ferite; ma nelle “profondità di Dio” c’è un amore di Padre che, dinanzi al peccato dell’uomo, secondo il linguaggio biblico, reagisce fino al punto di dire: “Sono pentito di aver fatto l’uomo!”… Il Libro sacro ci parla di un Padre, che prova compassione per l’uomo, quasi condividendo il suo dolore. In definitiva, questo imperscrutabile e indicibile “dolore” di padre genererà soprattutto la mirabile economia dell’amore redentivo in Gesù Cristo, affinché, per mezzo del mistero della pietà, nella storia dell’uomo l’amore possa rivelarsi più forte del peccato [...]. Nella umanità di Gesù Redentore si invera la “sofferenza” di Dio” (Dominum et vivificantem, n. 39).
Avendo io stesso, in più occasioni, fatto mia e diffusa questa tesi, qualcuno mi ha posto la domanda come essa si concilia con la condanna del cosiddetto Patripassianesimo, cioè della tesi che, nei primi secoli della Chiesa, attribuiva la passione al Padre. Vorrei, con questa nota, mostrare come la recente riscoperta della sofferenza di Dio non ha assolutamente nulla a che vedere con l’eresia del Patripassianesimo.
La più antica notizia su questa eresia ci è data da Tertulliano. Egli attribuisce a un certo Prassea dell’Asia Minore l’affermazione secondo cui “è il Padre che è disceso nella Vergine, lui che è nato da lei, lui che ha patito, insomma che è lo stesso Gesù Cristo” (Adversus Praxean, 1, 1). L’errore che Tertulliano rimprovera a Prassea, non è, come si vede, di attribuire la sofferenza a Dio Padre, ma nell’identificare il Padre con il Figlio, cioè nel negare la distinzione delle persone in Dio, in altre parole, la Trinità. In un documento della Chiesa greca del 345, si legge: “Patripassiani, è il nome con cui i Romani indicano quelli che noi chiamiamo Sabelliani” (Simbolo di Antiochia del 345, in PG, 26, 732C). È l’eresia nota anche con il nome di Modalismo, in quanto considera il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo come modalità diverse, o diversi modi di manifestarsi, della stessa persona divina.
La prova più evidente della totale diversità delle due prospettive ce la fornisce Origene. Egli che è uno dei più accesi avversari della dottrina sabelliana o modalista, è anche quello che per primo ha formulato in modo esplicito la dottrina biblica della sofferenza di Dio Padre: “Il Padre stesso, Dio dell’universo, lui che è pieno di longanimità, di misericordia e di pietà, non soffre forse, in qualche modo? O forse tu ignori che, quando si occupa delle cose umane, egli soffre una passione umana? Egli soffre una passione d’amore” (Omelie su Ezechiele, 6, 6, in GCS 1925, p. 384). In Dio, dunque, la passione ha, in certo senso, preceduto l’incarnazione. Questa ne costituisce anzi la manifestazione storica e l’effetto.
In un’altra sua opera, lo stesso Tertulliano difende, contro l’eretico Marcione, l’esistenza di passioni in Dio, insistendo però giustamente sulla diversità che c’è tra le passioni umane e quelle divine: “Noi che crediamo che Dio è perfino venuto sulla terra e che, per la nostra salvezza, ha preso su di sé l’umiltà della natura umana, siamo ben lontani da quelli che vorrebbero un Dio che non si cura di niente. Da qui l’affermazione degli eretici secondo cui se Dio si adira, è geloso, alza la voce e si rattrista, deve per forza corrompersi e morire. […] Stoltissimi! Giudicano le cose divine alla stregua delle cose umane e poiché tra gli uomini tali passioni sono segno di corruttibilità, pensano che così avvenga anche in Dio. […] Ma se la corruttibilità della natura umana fa sì che in noi le passioni siano segno di corruzione, l’incorruttibilità della natura divina fa sì che in Dio esse siano segno di incorruzione” (Adversus Marcionem, II, 16, 3-4).
Se c’è una precisazione o una correzione da apportare alla tesi della sofferenza di Dio (e a quello che io stesso ho scritto in proposito) è la seguente. Quando si parla di sofferenza di Dio non si deve insistere unilateralmente sulla sofferenza del Padre, ma di tutte e tre le persone divine. Anche la sofferenza in Dio è trinitaria! Lo stesso Spirito Santo, essendo l’amore di Dio in persona, è anche, di conseguenza, “il dolore di Dio in persona” (H. Mühlen, Das Herz Gottes. Neue Aspekte der Trinitätslehre, in “Theologie und Glaube”, 78 (1988) 141-159).
È sorprendente come, su questo punto, gli artisti abbiano precorso di secoli i teologi. Nell’arte occidentale con il titolo “la Trinità” si intende una rappresentazione c’è il Padre che, con le braccia distese e il volto sofferente, regge la croce di Cristo e tra il volto del Padre e quello del Figlio c’è la colomba dello Spirito Santo. Innumerevoli sono le rappresentazioni di questo tipo, sia nell’arte popolare che in quella di grandi autori. L’esempio più noto è la Trinità di Masaccio in Santa Maria Novella a Firenze. La Trinità intera era sulla croce.
Anziché di sofferenza divina, forse sarebbe meglio parlare, come faceva Origene, di passione (pathos) divina. La parola sofferenza evoca per noi inevitabilmente qualcosa di negativo e di imperfetto che certamente non si addice a Dio; la parola passione, o pathos come si dice tuttora con parola greca, lo sappiamo dall’esperienza umana, può indicare sia un grande, prolungato, dolore, sia un travolgente amore. In Dio indica le due cose allo stesso tempo: questo come causa, quello come effetto.
Il pathos designa l’interiore vitalità di una persona, indica le vibrazioni con cui questa si mette in sintonia o in distonia con il mondo che la circonda, con il bene e con il male; indica il coinvolgimento o meno di una persona nei confronti di un evento o realtà che le è davanti; il pathos designa il mondo degli affetti profondi, gli orientamenti affettivi della volontà, dei pensieri e delle scelte di una persona.
In Dio il pathos designa la sua infinita vitalità, le vibrazioni profonde del suo essere. Essendo Dio santissimo, anche il suo pathos è santissimo. Il Dio biblico non è assolutamente un essere freddo, affettivamente distaccato dal mondo, che dall’alto del suo trono pronuncia i suoi giudizi sugli uomini e sulle cose senza coinvolgimento personale. La creazione è opera del Pathos divino. Ma il luogo peculiare dove il Padre rivela tutto il suo coinvolgimento e tutto il suo pathos è il rapporto di alleanza con il popolo eletto.
Proprio perché il Padre vive il rapporto di alleanza con il suo popolo in un clima di intensissimo pathos d’amore, rimane profondamente colpito dal rifiuto d’amore e di fedeltà del popolo e prova in sé il pathos del dolore di un marito abbandonato dalla sua sposa infedele, dello sdegno e della delusione quando le ingiustizie e le iniquità del popolo raggiungono il colmo. Il dolore del Padre viene dalla necessità in cui lo pone il suo amore (il cuore!) di mettere a tacere la sua giusta collera e la sua giustizia e trasformarla in misericordia. Esemplare a questo riguardo il testo di Osea 11, 7-9.
Quando i profeti ricevono dal Padre parole di riprovazione, sono messi a parte del dolore e dello sdegno suo e sentono nelle loro viscere tutto l’amaro dell’ira. “Le mie viscere! Le mie viscere!, esclama Geremia. Sento un gran dolore! Le pareti del mio cuore! Il mio cuore mi freme nel petto! (Ger 4:19). Soltanto la comprensione del pathos di Dio permette di comprendere certe pagine della Bibbia che riguardano la famosa “collera” di Dio.
Il pathos divino non si esprime però solo in chiave di sofferenza, ma anche di gioia. Dio, dice il libro della Sapienza, gioisce nel creare; in Isaia 62,4-5, si vede come il Padre celeste gioisce intensamente nello sposarsi con Israele, suo popolo. Dio, oltre che sposo, è anche un padre e una madre per Israele e vive tutto il pathos interiore della paternità verso il popolo che ha generato nell’alleanza. Di nuovo è Geremia che ha le parole più toccanti al riguardo: “Efraim è dunque per me un figlio così caro? un figlio prediletto? Da quando io parlo contro di lui, è più vivo e continuo il ricordo che ne ho; perciò le mie viscere si commuovono per lui,e io certo ne avrò pietà», dice il Signore” (Ger 31,20).
La rivelazione del pathos d’amore del Padre raggiunge la sua massima espressione nell’incarnazione del Figlio. Il suo invio nel mondo e il suo sacrificio sulla croce per la salvezza degli uomini sono la manifestazione massima del pathos d’amore e di dolore del Padre per l’umanità. Ma, come per l’Antico Testamento, la pienezza dell’amore che il Padre ha rivelato agli uomini in Cristo non è stato accolta da essi se non in parte. La maggioranza dell’umanità non ha conosciuto questo amore. Sulla croce Gesù porta su di se il segno del rifiuto dell’amore di Dio. Ma l’amore del Padre invece di spegnersi a causa di questo rifiuto, si dona ancora di più agli uomini con nuove effusioni di amore e di grazia.
Basta, come si vede, uno rapido sguardo all’insieme della Bibbia per scoprirvi il volto di un Dio tutt’altro che “impassibile” (apathès), come era quello dei filosofi greci, “motore immobile”, che muove tutto senza essere, lui stesso, mosso (e commossso!) da niente. Il Dio biblico è un Dio “appassionato”. “ Dio è amore” e l’amore è la cosa più vulnerabile che esista al mondo. Se è vero amore, esso deve infatti lasciare libero l’amato di accoglierlo o rifiutarlo, e il rifiuto dell’amore, specie da parte della propria sposa o dei propri figli, come si sa, è una delle sofferenze più acute dell’essere umano. Di esso si lamenta Dio in Isaia: “Ho allevato e fatto crescere figli, ma essi si sono ribellati contro di me” (Is 1, 2). “Non si vive in amore senza dolore”, scrive l’autore del libro L’Imitazione di Cristo, e questa legge si attua prima di tutto in Dio.
Quello che riconcilia il discorso sulla sofferenza di Dio con la nostra irrinunciabile fede nella sua infinita perfezione e potenza è che alla fine l’amore trionferà su ogni specie di dolore; non ci sarà più “né lacrima, né lutto, né dolore, né morte”, né in noi né in Dio. L’amore trionferà, ma a modo suo, cioè non sbaragliando il male e ricacciandolo fuori dai propri confini (non lo potrebbe fare senza distruggere la libertà umana), ma trasformando il male in bene, l’odio in l’amore. “Dio, dice una preghiera liturgica della Chiesa, manifesta la sua onnipotenza soprattutto con la misericordia e il perdono” (Domenica XXVI del Tempo Ordinario). La sua onnipotenza è una onnipotenza di amore.
Alla fine non resterà che l’amore di Dio e anche i reprobi non faranno che proclamare, sebbene negativamente, il suo amore infinito. Secondo la parola di una celebre mistica medievale: “Alla fine tutto sarà bene e ogni specie di cosa sarà bene” (Giuliana di Norwich, Libro delle rivelazioni, cap. 27).

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