Angelo Scola" Caterina e l’amicizia civica"

Da Il Sole 24 Ore del 25 gennaio 2014”

1.Alla fine degli anni 50 io andavo al liceo in giacca e cravatta, oggi mio nipote ci va in jeans e scarpe d’ordinanza. Mio padre, superata la trentina (e lavorava già da più di vent’anni), chiese la mano di mia madre su suggerimento di un anziano amico delle due famiglie; e il matrimonio resse felicemente ad oltre
cinquant’anni di vita insieme, nella buona e nella cattiva sorte. Oggi i ragazzi iniziano, consumano e concludono le “storie” – come le chiamano loro – esplorando sempre più precocemente il campo degli affetti e della sessualità, senza che gli adulti quasi se ne accorgano… A questi ognuno di noi potrebbe aggiungere infiniti altri esempi per documentare il vertiginoso cambiamento dei costumi verificatosi nello spazio di un paio di generazioni.

I costumi individuano la condotta quotidiana di un popolo o di una comunità di persone. Non solo, quindi, la mentalità dominante, ma i comportamenti diffusi, universalmente accettati, divenuti per così dire “normali”. Di fatto esprimono lo stile di vita di una società e, di conseguenza, il suo grado di civiltà. Hanno a che fare con l’”ethos” di popolo legato a virtù e tradizioni. Di per sé non si può dire se fosse meglio prima o sia meglio adesso. Accade.
Un cambiamento di costumi non coincide, automaticamente, con una corruzione dei costumi. Inoltre in certi momenti, come quello attuale di “meticciato di civiltà”, la storia subisce brusche accelerazioni che impongono mutamenti. E la storia non è in balìa di un Caso anonimo e capriccioso, ma è sorretta da un Padre che ci ama e ci accompagna. Perciò stiamo davanti a ciò che accade con una sorta di simpatia previa, senza confondere il bene con il male, ma sempre sulle tracce del bene a cui inesorabilmente ogni uomo anela. Una posizione che non lascia mai tranquilli e comodi nel già saputo, ma apre continuamente delle domande e segnala urgenze ineludibili.

2. Quali le domande aperte e le improcrastinabili urgenze segnalate dal “caso Caterina”, la ragazza di 25 anni, studente di veterinaria a Bologna, vegetariana e animalista convinta, colpita da una serie di malattie genetiche rare e viva solo grazie al lavoro dei medici e ai progressi della ricerca scientifica? L’aver messo in rete la propria dolorosa esperienza e l’appassionato sostegno alla sperimentazione, anche animale, che finora le ha salvato la vita, è bastato a scatenare sul web un dibattito acceso, dai toni aspri e violenti, fino agli insulti più pesanti: “Mi dicono: “Meglio dieci topi vivi di te viva”; ma io spero di avervi fatto capire quanto ci tengo a vivere” (Caterina Simonsen).
Prima di ogni altra considerazione circa la legittimità e i limiti della sperimentazione con animali nel campo della ricerca scientifica, che cosa dice questa riduzione della rete a ring, in cui assistere a una feroce gara di pugilato tra opinioni, invece che vivere un confronto tra persone?

Dice l’urgenza che diventi costume una virtù già raccomandata da Aristotele: l’amicizia civica. In che cosa consiste? Nell’ascolto dell’esperienza dell’altro, attraverso una continua ed appassionata comunicazione reciproca. Non mi stanco di ripetere che, soprattutto in una società plurale e quindi tendenzialmente conflittuale come la nostra, siamo chiamati a raccontarci, attraverso un’umile e paziente auto-esposizione per riconoscerci ed incontrarci. Già Hegel diceva che l’attesa fondamentale di un uomo è quella di valere qualcosa per qualcuno. E Papa Francesco non perde occasione per richiamare alla necessità di una cultura dell’incontro, invece che dello scontro o dello scarto.

Il “caso Caterina” domanda con forza amicizia civica come stoffa della nostra convivenza sociale.
3. Come nasce l’amicizia civica, cosa la genera? Come nutre l’umana convivenza?
La domanda riaffiora continuamente soprattutto davanti alle situazioni di maggior sofferenza e disabilità, a tutte le fragilità della condizione umana.
Inoltre, di fronte alle acute problematiche legate alla teoria dell’evoluzione nelle formulazioni biologiche più avanzate, così come alle ardite rivendicazioni del “cervello etico” da parte delle neuroscienze, è possibile, senza amicizia civica, affrontare e trovare un accordo tra tutti i soggetti in campo? E farlo senza falsificare l’esistenza di una dimensione spirituale costitutiva della persona, quella irriducibile “sporgenza” di cui le civiltà di ogni tempo e latitudine sono imponente documentazione?
“Eppure – scriveva Karol Wojtyla in Persona e atto – esiste qualcosa che può essere chiamato esperienza dell’uomo”. Ignorarla fino a negarla impedisce la costruzione di vita buona.

Perché l’amicizia civica diventi costume occorre rispondere all’ineludibile domanda: chi vuol essere l’uomo oggi, all’inizio del terzo millennio? Un io-in-relazione, che riconosce e coltiva fino in fondo i propri rapporti costitutivi (con Dio, con il prossimo e con se stesso) o un individuo autonomo ed autoreferenziale fino al narcisismo, mero prodotto del proprio esperimento?

Commenti

Post più popolari