Gianfranco Ravasi "Giuseppe, il santo delle partite Iva"

Ci soffermiamo su una sola parola: quella che nei vangeli definisce la professione di Giuseppe e
dello stesso Gesù, prima del suo ministero biblico. Attorno a questa parola greca, téktôn, si è accesa
una polemica tra chi vorrebbe continuare a classificare Gesù e la sua famiglia nella categoria della
povertà e chi, invece, vorrebbe promuoverla al rango di media borghesia, soprattutto in vista dei
vari tentativi di raccordare capitalismo «misericordioso» e cristianesimo.
Ora, è da notare che il primo a definire Gesù un téktôn (e spiegheremo ovviamente che cosa
significhi) è Marco che, in occasione di una visita a Nazaret, osserva che i concittadini ironicamente
si chiedono: «Non è egli il téktôn, il figlio di Maria?» (6,3). Matteo, che probabilmente si trova a
disagio con questo sarcasmo e con questo titolo, riprende il racconto di Marco, ma con una curiosa

variante: «Non è egli [Gesù] il figlio del téktôn? » (13,55). Com’è evidente, qui è Giuseppe ad
essere iscritto a questa professione. Che la cosa non fosse molto esaltante è confermato anche da
Luca che, molto più asetticamente, trasforma così la domanda: «Costui non è il figlio di Giuseppe?»
(4,22).
A questo punto, per definire lo statuto sociale di Gesù e del suo padre ufficiale è necessario studiare
non solo il vocabolo in questione, ma anche le coordinate socio-economiche della Palestina di
quell’epoca. Il termine téktôn di per sé indica il falegname o il carpentiere, «colui che esercita il suo
mestiere con un materiale duro che conserva la sua durezza durante la lavorazione, per esempio
legno, pietra, corno, avorio», come scrive Richard A. Batey in un saggio scientifico sul vocabolo in
questione (non sarebbe, allora, corretta la resa «fabbro»). Le antiche versioni siriaca e copta dei
vangeli, i Padri greci della Chiesa, la tradizione popolare e iconografica, hanno optato per la
traduzione «falegname».
Tuttavia non bisogna dimenticare che il legno non serviva solo per approntare aratri o mobili vari,
ma anche come vero e proprio materiale di costruzione edilizia: infatti, oltre ai serramenti in legno, i
tetti a terrazza delle case palestinesi di allora erano allestiti con travi connesse tra loro con rami,
argilla, fango e terra pressati, tant’è vero che, dopo le piogge primaverili, potevano spuntare anche
steli e un velo verde, come è ricordato nel salmo 129 (vv. 6-7: «Siano come l’erba dei tetti, che,
prima di essere strappata, è già secca! Non se ne riempie la mano colui che miete né il grembo colui
che raccoglie»).
Con i recenti scavi di Sefforis, un’elegante città a soli 6 chilometri da Nazaret, scelta come prima
capitale (poi sarà Tiberiade, sul lago omonimo) del suo piccolo regno di Galilea da Erode Antipa
(quello che uccise il Battista e incontrò Gesù durante la passione), si è fatta strada l’idea in alcuni
studiosi che Giuseppe e suo figlio abbiano lavorato anche là, entrando così in contatto con la cultura
urbana ellenistica. Tuttavia è strano che nei vangeli non sia mai menzionata Sefforis durante il
ministero galilaico di Gesù: saremmo perciò di fronte solo a una generica possibilità. Ma a questo
punto è necessario collocare la classe del téktôn nel quadro sociale dell’Israele di allora.
Per cercare di elevare di rango Gesù, uno studioso tedesco, Rainer Riesner, nell’opera Jesus als
Lehrer («Gesù come maestro»), pubblicata nel 1981, è risalito all’equivalente aramaico del
vocabolo téktôn: in quella lingua, allora parlata, si usava il termine naggara’, che voleva dire
«carpentiere, falegname, tornitore, artigiano», ma che poteva significare anche «maestro, artista».
Così Giuseppe e Gesù sarebbero stati in realtà insegnanti o artisti. Peccato, però, che questo
significato «liberale » del vocabolo naggara’ sia documentabile solo in epoca tarda e che esso non
abbia alcun riscontro nelle antiche tradizioni giudaiche della Mishnah, la raccolta documentaria della vita e delle credenze dell’Israele anche dell’epoca di Gesù.
Se, dunque, stiamo all’accezione più comune e fondata sopra descritta, ci possiamo ora chiedere:
essere téktôn significava appartenere all’ultimo livello della scala sociale, per cui Cristo era
sostanzialmente un povero e un indigente?
Naturalmente la nostra risposta prescinde dal suo successivo insegnamento radicale e «utopico» nei
confronti della ricchezza, insegnamento che spesso è sbrigativamente liquidato o «smitizzato» da
certi alfieri del connubio tra capitalismo e cristianesimo.
Su questo argomento, in realtà, bisogna procedere con molta cautela, senza fondamentalismi, sì, ma
anche senza fin troppo comodi sincretismi, come fanno certi teologi americani del conservatorismo
«misericordioso». Se stiamo alla documentazione e alla ricostruzione più attenta e fondata del
quadro socio-economico giudaico del I secolo, possiamo ottenere i risultati che seguono: a) a livello
delle alte classi, in quel piccolo principato che era la Galilea si attestava un gruppo molto ristretto,
che comprendeva, oltre a Erode e alla sua corte di ufficiali e di notabili (evocata nel racconto del
martirio del Battista, in Marco 6,21), i latifondisti, i grossi mercanti e i sovrintendenti alla esazione
delle tasse (si pensi a Zaccheo, anche se egli era di Gerico, in Giudea); b) al livello opposto, il più
basso, erano collocati invece i lavoratori a giornata (si ricordi la parabola di Matteo 20,1-16), i
braccianti e quello che Sean Freyne, nella sua opera sulla «Galilea da Alessandro il Grande ad
Adriano» ( Galilee from Alexander the Great to Hadrian), pubblicata in America nel 1980, chiama
«il proletariato rurale»; l’abisso era raggiunto dagli schiavi per debiti, costretti a un pesante lavoro
agricolo nei latifondi; essi, però, costituivano un’entità molto ridotta. La categoria del téktôn, come
quella prevalente dei piccoli coltivatori e dei pescatori – alla cui cultura Gesù attingerà spesso nella
sua predicazione, elaborandone immagini e comportamenti –, si collocava a un livello intermedio
tra quei due estremi, ma con una tendenza verso il basso. Perciò non ha alcun senso applicare alla
famiglia di Gesù la classificazione di middle class, che negli Stati Uniti ha un valore molto più alto
nella scala sociale, né quella di borghesia a cui siamo abituati. Con molta fantasia c’è stato chi,
come G. Wesley Buchanan, in un articolo apparso nel 1965 sulla rivista Novum Testamentum è
arrivato al punto di immaginare Gesù come un amministratore commerciale che sovrintendeva agli
operai di un’impresa di costruzioni (il titolo era significativo: Jesus and the Upper Class )! In realtà
la famiglia di Gesù non era povera in senso stretto, ridotta alla miseria degli schiavi o all’aleatorietà
economica dei lavoranti a giornata, ma neppure era da ricondurre alla nostra borghesia
commerciale, piccola o media che sia. Si trattava di un tenore di vita decoroso ma modesto, legato
per il contadino alle mutazioni climatiche e al mercato e per il falegname-carpentiere-artigiano alle
commissioni, all’incremento edilizio e all’inflazione, per non parlare delle tassazioni gravose, sia
civili sia religiose.
In questa luce – ovviamente con differenti coordinate storiche e sociali – la famiglia di Gesù è da
ricondurre alla maggioranza dei lavoratori dipendenti attuali e a certi ambiti artigiani solo familiari
e ristretti. I dati evangelici sulla sua vita e sulla sua predicazione lo riportano costantemente a
questo orizzonte semplice e modesto. I centri che egli visiterà durante la sua predicazione galilaica
saranno appunto quelli popolati da questa classe: Nazaret, Cana, Nain, Corazin, Cafarnao. Come si
è detto, il suo itinerario non comprenderà mai Sefforis o Tiberiade, città ellenistiche e
«residenziali».
Anche questa «modestia» diventa, allora, un segno dell’incarnazione che colloca Dio nella
quotidianità semplice. Il cristiano sarà invitato a lavorare con le proprie mani, come farà anche
Paolo che ai Tessalonicesi scriverà: «Voi ricordate, infatti, o fratelli, le nostre fatiche e i nostri
stenti: lavorando giorno e notte per non essere di peso a nessuno di voi, vi abbiamo predicato il
vangelo di Dio» (1Tessalonicesi 2,9), ribadendo comunque che «se uno non vuole lavorare, neppure
mangi» (2Tessalonicesi 3,10); un impegno condotto con fedeltà, ma senza la frenesia
dell’accumulo, come suggerirà Gesù stesso nel Discorso della Montagna: «Per la vostra vita non
affannatevi di quello che mangerete o berrete […]. Non angustiatevi, dunque, dicendo: “Che mangeremo? Che berremo?” oppure: “Di che ci vestiremo?” Tutte queste cose le ricercano i gentili»
(Matteo 6,25.31-32).
Tra parentesi, è curioso ricordare che il motto paolino «chi non lavora non mangia» fu inserito
anche nella costituzione sovietica, e Lenin, nell’opera I bolscevichi conserveranno il potere
statale?, scriveva: «Chi non lavora non mangia: ecco la regola essenziale, iniziale, principale che
possono e debbono applicare i soviet quando saranno al potere!».in “Avvenire” del 18 marzo 2014

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