mons. Roberto Brunelli"La luce degli occhi per vedere più in là"
IV Domenica di Quaresima - Laetare (Anno A) (30/03/2014)
Vangelo: Gv 9,1-41
Le letture di queste domeniche toccano temi vitali: domenica scorsa era l'acqua, oggi la luce. "Un tempo eravate tenebra" scrive l'apostolo Paolo (Efesini 5,8-14), "ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce; ora, il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità". Nel vangelo, la riflessione parte dalla guarigione di un mendicante, cieco dalla nascita: ma, secondo lo stile dell'evangelista Giovanni, un fatto ne comporta altri e implica interrogativi e questioni dottrinali. Il cieco nato, ad esempio: per quanto importante, il miracolo è uno dei tanti narrati dai vangeli, spesso in poche righe o addirittura in modo riassuntivo ("Guarì numerosi paralitici, sordomuti, ciechi, lebbrosi..."); invece, a questo, Giovanni dedica un intero capitolo (il 9), diffondendosi sugli atteggiamenti di chi assiste al fatto: gli apostoli, i genitori del guarito, gli avversari del guaritore. Appare evidente l'intenzione dell'evangelista, di prospettare la guarigione del cieco nato come emblematica di realtà che vanno oltre il caso specifico, per assumere una valenza universale.
I primi a intervenire sono gli apostoli; riflettendo una convinzione diffusa (non solo allora!), secondo cui ogni male è punizione divina del peccato, essi chiedono al Maestro se a causare la cecità del mendicante siano stati i peccati di lui o dei suoi genitori. E' evidente anche a noi che tanti mali, fisici e psichici, sarebbero evitati da un comportamento virtuoso; è evidente inoltre che i genitori possono essere causa di dolore nei figli: un padre rovinatosi al gioco li priva del benessere; se un bimbo nasce con l'aids non è certo colpa sua, e forse neppure di sua madre; genitori litigiosi provocano nei figli traumi psicologici, destinati a trascinarsi talora tutta la vita. Ma nel caso del cieco nato, Gesù smentisce categoricamente quella convinzione: "Né lui né i suoi genitori hanno peccato"; la cecità del mendicante, come ogni altro male da cui gli uomini sono colpiti, non dipende sempre da specifiche colpe di qualcuno. Soprattutto, poi, il nostro Dio, il Dio rivelato da Gesù come Padre, non è vendicativo e neppure uno spietato giustiziere.
Il miracolo suscita una controversia tra gli astanti. I farisei sostengono che, avendo operato di sabato quando è proibito ogni lavoro, Gesù è un peccatore: dunque da evitare; e all'ovvia considerazione del guarito ("Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato; se costui non fosse da Dio, non avrebbe potuto far nulla") sanno opporre soltanto una reazione rabbiosa: lo espellono dalla comunità. Non c'è peggior cieco di chi non vuol vedere, e certo peggiore della cecità fisica è quella intellettuale, di chi anche di fronte all'evidenza si ostina nei propri preconcetti, di chi chiude gli occhi e si ostina a sostenere che il sole non c'è.
La conclusione dell'episodio manifesta il significato profondo del prodigio. Incontrando di nuovo il beneficiario, Gesù lo invita a valersi della vista ricuperata per riconoscere lui: "Tu credi nel Figlio dell'uomo?" "E chi è, perché creda in lui?" "Tu l'hai visto, è colui che parla con te". Come con la samaritana di domenica scorsa, tutto mira allo stesso scopo. La luce degli occhi è metafora della luce dell'anima; "Io sono la luce del mondo" ha proclamato Gesù in un'altra occasione; "chi segue me non cammina nelle tenebre". Il cieco nato è ciascun uomo, incapace da solo di vedere la luce divina e dunque di lasciarsi guidare da essa, con le conseguenze, personali e collettive, di cui tutti siamo testimoni; se si vuole fare a meno della luce di Dio, quanti disastri, sconfitte, tragedie, amarezze!
Proprio per evitarcele, nella sua somma bontà Dio ci ha fatto dono della sua luce, perché possiamo vedere la strada giusta nel cammino di questa vita, la strada che ha come meta Lui, luce infinita.
Vangelo: Gv 9,1-41
Le letture di queste domeniche toccano temi vitali: domenica scorsa era l'acqua, oggi la luce. "Un tempo eravate tenebra" scrive l'apostolo Paolo (Efesini 5,8-14), "ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce; ora, il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità". Nel vangelo, la riflessione parte dalla guarigione di un mendicante, cieco dalla nascita: ma, secondo lo stile dell'evangelista Giovanni, un fatto ne comporta altri e implica interrogativi e questioni dottrinali. Il cieco nato, ad esempio: per quanto importante, il miracolo è uno dei tanti narrati dai vangeli, spesso in poche righe o addirittura in modo riassuntivo ("Guarì numerosi paralitici, sordomuti, ciechi, lebbrosi..."); invece, a questo, Giovanni dedica un intero capitolo (il 9), diffondendosi sugli atteggiamenti di chi assiste al fatto: gli apostoli, i genitori del guarito, gli avversari del guaritore. Appare evidente l'intenzione dell'evangelista, di prospettare la guarigione del cieco nato come emblematica di realtà che vanno oltre il caso specifico, per assumere una valenza universale.
I primi a intervenire sono gli apostoli; riflettendo una convinzione diffusa (non solo allora!), secondo cui ogni male è punizione divina del peccato, essi chiedono al Maestro se a causare la cecità del mendicante siano stati i peccati di lui o dei suoi genitori. E' evidente anche a noi che tanti mali, fisici e psichici, sarebbero evitati da un comportamento virtuoso; è evidente inoltre che i genitori possono essere causa di dolore nei figli: un padre rovinatosi al gioco li priva del benessere; se un bimbo nasce con l'aids non è certo colpa sua, e forse neppure di sua madre; genitori litigiosi provocano nei figli traumi psicologici, destinati a trascinarsi talora tutta la vita. Ma nel caso del cieco nato, Gesù smentisce categoricamente quella convinzione: "Né lui né i suoi genitori hanno peccato"; la cecità del mendicante, come ogni altro male da cui gli uomini sono colpiti, non dipende sempre da specifiche colpe di qualcuno. Soprattutto, poi, il nostro Dio, il Dio rivelato da Gesù come Padre, non è vendicativo e neppure uno spietato giustiziere.
Il miracolo suscita una controversia tra gli astanti. I farisei sostengono che, avendo operato di sabato quando è proibito ogni lavoro, Gesù è un peccatore: dunque da evitare; e all'ovvia considerazione del guarito ("Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato; se costui non fosse da Dio, non avrebbe potuto far nulla") sanno opporre soltanto una reazione rabbiosa: lo espellono dalla comunità. Non c'è peggior cieco di chi non vuol vedere, e certo peggiore della cecità fisica è quella intellettuale, di chi anche di fronte all'evidenza si ostina nei propri preconcetti, di chi chiude gli occhi e si ostina a sostenere che il sole non c'è.
La conclusione dell'episodio manifesta il significato profondo del prodigio. Incontrando di nuovo il beneficiario, Gesù lo invita a valersi della vista ricuperata per riconoscere lui: "Tu credi nel Figlio dell'uomo?" "E chi è, perché creda in lui?" "Tu l'hai visto, è colui che parla con te". Come con la samaritana di domenica scorsa, tutto mira allo stesso scopo. La luce degli occhi è metafora della luce dell'anima; "Io sono la luce del mondo" ha proclamato Gesù in un'altra occasione; "chi segue me non cammina nelle tenebre". Il cieco nato è ciascun uomo, incapace da solo di vedere la luce divina e dunque di lasciarsi guidare da essa, con le conseguenze, personali e collettive, di cui tutti siamo testimoni; se si vuole fare a meno della luce di Dio, quanti disastri, sconfitte, tragedie, amarezze!
Proprio per evitarcele, nella sua somma bontà Dio ci ha fatto dono della sua luce, perché possiamo vedere la strada giusta nel cammino di questa vita, la strada che ha come meta Lui, luce infinita.
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