Alberto Vianello Comunità Marango"Una via di pace dura, stretta e fedele "

Letture: Is 50,4-7; Fil 2,6-11; Mt 21,1-11
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Come ogni anno, invece di soffermarci sul racconto della Passione, scegliamo di commentare il Vangelo dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme, che verrà proclamato all’inizio della celebrazione delle Palme. Con esso, anche noi ci apprestiamo ad entrare nella Settimana Santa, per vivere la Pasqua non solo del Signore, ma con il Signore Gesù.
Il racconto, che conosciamo molto bene perché ce lo riportano tutti e quattro gli evangelisti, è dominato dalla scelta di Gesù di entrare nella città, che simboleggia il popolo del Signore, su di un asino. Come sappiamo, con questa scelta di cavalcatura, Gesù indica la sua rinuncia a tutte le prerogative regali, alla forza, al potere (simboleggiati dal cavallo o dal carro), per scegliere la via della non violenza, del rispetto, dell’agire pacifico.

Com’è caratteristica di Matteo, che poggia tutti i momenti salienti e maggiormente rivelativi sulla citazione della Scrittura, la scelta dell’asino come cavalcatura viene riferito a un passo del profeta Zaccaria. Ma, da questa citazione, Matteo toglie le altre prerogative del re («giusto, vittorioso») e mantiene solo l’aggettivo «mite»: tutto si concentra sulla mansuetudine del Messia, rappresentato dall’animale che cavalca.

Anche i tre più grandi personaggi (in chiave messianica) dell’Antico Testamento hanno cavalcato un asino nella situazione più critica e più decisiva della loro vita e della loro missione: Abramo quando parte per andare a sacrificare Isacco secondo il comando di Dio (Gen 22,3), Mosé quando Dio gli impartisce di tornare in Egitto per liberare Israele dal faraone (Es 4,20-22), Davide quando fugge umiliato dal figlio Assalonne che gli ha usurpato il potere.
Così, cavalcare l’asino indica la via dura, stretta e fedele che hanno percorso coloro che hanno indicato, con la loro vita nel Signore, la venuta del Messia.
Pensiamo a quel cavalcare l’asino da parte di Abramo, mentre va a sacrificare il suo unico figlio, «l’amato», il suo futuro, tutta la sua fede in Dio e nelle sue promesse. Pensiamo Mosé, che su di un asino torna in Egitto per liberare un intero popolo, dopo che dall’Egitto era fuggito, vedendo minacciata la sua vita quando aveva cercato di liberare un solo uomo. Pensiamo a Davide, che su di un asino cavalca il dolore, la sconfitta, la lacerazione degli affetti, l’umiliazione, andando in esilio e rinunciando ad opporsi con la violenza.
Tutti e tre hanno cavalcato contro se stessi, per essere veramente obbedienti a Dio. Tutti e tre troveranno, al termine di questo cammino in groppa ad un asino, l’esperienza del Signore. Abramo vivrà non il sacrificio di Isacco ma la benedizione divina in lui; Mosé sperimenterà la mano potente con cui Dio libera il suo popolo dalla schiavitù; Davide, pur nel dramma della morte del figlio, si troverà nelle mani un regno su Israele più forte e fecondo.
Anche per Gesù, l’ingresso a Gerusalemme su di un asino indica la via dura, stretta, esigente, perché obbediente, da percorrere per realizzare il Regno. Solo dopo averla abbracciata e percorsa tutta, senza sconti o privilegi, vi scoprirà il miracolo del Padre che non abbandona il proprio Figlio negli inferi. Ma perché il Figlio ha accettato di viverli, non considerandosi migliore degli uomini, che è venuto a servire.
I tre personaggi dell’Antico Testamento e il loro percorso sopra un asino “lanciano” anche un altro aspetto: quello del figlio prediletto. Abramo è chiamato a sacrificarlo, Mosé a liberarlo (il popolo d’Israele) ma compromettendo se stesso, Davide a non rifiutarlo (con la sua violenza).
Così, in certo modo, sopra l’asino che entra a Gerusalemme portando il Re Messia umile e povero, c’è il Padre: è lui che deve passare per la via stretta, è lui che deve mettersi in gioco per il Figlio.

L’altra nota marcata nel racconto di Matteo è la «folla numerosissima», che accompagna Gesù nel suo ingresso e che risponde allo shock della città proclamando la sua identità di «profeta» pari a Mosé, cioè il Messia atteso.
Ma anche a proclamare la condanna di Gesù ci sarà la «folla» (cfr. 27,20-24). Quindi non bisogna mai valutare la bontà di qualcosa sulla quantità delle persone e delle presenze. Perché la fede richiede, invece, la qualità; ovvero l’interiorità, la serietà, il coraggio, la coerenza, la stabilità. Ciò che è da valutare e da riconoscere è il terreno buono, non tutto il terreno del campo, o ogni terreno. Di ben altri numeri parla Gesù: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (18,20).
Allora entriamo nella Settimana Santa con l'adesione sincera e personale al Signore, con l’adesione della nostra vita concreta, non quella ideale, con i nostri desideri, ma anche con l’accettazione cordiale dei limiti delle situazioni in cui viviamo. Così, davvero, vivremo la Pasqua con il Signore Gesù.

Alberto Vianello

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