Dom Luigi Gioia Commento su Matteo 26,14-27,66 Domenica delle Palme (Anno A) (13/04/2014)


Vangelo: Mt 26,14-27,66
C'è qualcosa che l'uomo della Bibbia teme ancora più della sofferenza fisica, del dolore e
delle prove della vita. C'è una forma di sofferenza più grande e più profonda legata
direttamente alla relazione con il Signore. Una forma di sofferenza che più di ogni altra
chiude l'orizzonte e fa paura. Questa forma di sofferenza è espressa ogni volta che vediamo il
salmista gemere in espressioni di questo tipo: Perché Signore, ti tieni lontano, nel momento
di pericolo ti nascondi? oppure: Dirò a Dio, mia roccia, perché mi hai dimenticato? Perché
triste me ne vado, oppresso dal nemico? oppure ancora in un altro salmo: Perché sono
colpito tutto il giorno e fin dal mattino sono castigato? Se avessi detto: "Parlerò come
loro", avrei tradito la generazione dei tuoi figli. Riflettevo per comprendere, ma fu una
fatica ai miei occhi.

Questi versetti di salmi esprimono l'esperienza della confusione, della vergogna, due
parole molto importanti nell'Antico Testamento. Confusione e vergogna: "Ho sperato nel
Signore, ho creduto nella sua parola, mi sono fidato di lui, mi sono appoggiato su di lui, ma
ecco che sono umiliato. Ecco che trionfa' chi fa il male, chi non crede in te, chi non ha messo
in te la sua speranza.Ecco che sono confuso, che non capisco più nulla, che sono tentato di
vergognarmi della mia fede".
Ciò che umilia profondamente, ciò che riempie di confusione e di vergogna l'uomo biblico
-e questo è il contesto nel quale queste due parole sono spesso utilizzate -, è il fatto di non
capire: Riflettevo per comprendere, ma fu una fatica ai miei occhi.
Ci sono, nella vita, delle forme di dolore molto acute, lancinanti, come ad esempio quella
del parto o ancora come quella di un lavoro poco gratificante e  duro. Ma nel caso del parto,
sapere che è per avere un figlio, oppure nel caso di un lavoro duro o poco gratificante sapere
che è per garantire alla propria famiglia la sussistenza necessaria, aiuta, da forza, permette
di affrontare la prova, la sofferenza, le difficoltà con coraggio. Nulla, infatti, ci è più di
conforto, nei momenti difficili, del fatto di capire il senso di quello che viviamo, di vedere
dove ci conduce, di avere una prospettiva positiva a cui anelare e in cui sperare.
La relazione con il Signore, la vita di fede, la parola di Dio danno le chiavi per capire, ci
aprono al senso più profondo della vita e ci permettono di affrontare con serenità anche ciò
che tutti temiamo di più, la morte stessa. La fede è più forte della morte. Il senso che dà la
fede permette di non restare confusi, senza parole, senza speranza, davanti alla morte.
Però ci sono delle circostanze nella vita, ci sono delle situazioni, nelle quali proprio chi
mette tutta la sua fede e tutta la sua speranza in Dio, proprio chi cerca maggiormente di
affidarsi a lui, proprio chi -magari con i suoi limiti, ma mettendoci tutta la buona volontà-
cerca di fare la volontà di Dio, ebbene, proprio questa persona ad un certo punto vede
l'orizzonte chiudersi. Non capisce più quello che sta succedendo, comincia ad essere tentata
di dubitare dell'amore del Signore, comincia a dubitare che il Signore abbia veramente il
controllo della storia. Ed in queste occasioni, lentamente, spesso con grande sofferenza, si
insinua il tarlo del dubbio. A volte, quando la sofferenza è particolarmente acuta, quando
l'angoscia è profonda, quando le situazioni diventano veramente difficili, si può scivolare
nella disperazione.
Basta guardarci intorno.Si può andare dai casi generali ai casi più particolari.
Quanto spesso si assiste impotenti al trionfo delle logiche di disonestà e di menzogna.
Quanto spesso vediamo la giustizia calpestata. Oppure quanto spesso nelle nostre vite
vediamo che proprio lì dove abbiamo cercato di fare il bene, raccogliamo il male, il rifiuto.
Oppure mali inaspettati ci affliggono, non solo fisicamente, ma soprattutto moralmente e ci
schiacciano, fino a toglierci anche la voglia di pregare, fino a corrodere ogni slancio, ogni
entusiasmo. In questi frangenti precipitiamo in una grande oscurità e impotenza, la
speranza vacilla, il senso di quello che viviamo ci sfugge e soprattutto siamo tentati di
dubitare di Dio. Diventa vera per noi allora l'espressione del salmista  citata sopra: Riflettevo
per comprendere, ma fu una fatica ai miei occhi. In queste situazioni riflettiamo per
comprendere, per trovare il senso di quello che viviamo alla luce della fede, alla luce della
Parola di Dio, ma è una fatica ai nostri occhi e restiamo senza risposte.
Ma proprio nel momento di più grande oscurità, lentamente, faticosamente, il Signore ci
conduce in una dimensione nuova, più vera, della relazione con lui. Il drammatico racconto
della Passione di oggi ci aiuta a comprendere come questo avviene.
Inquesti momenti, prima di tutto, è fondamentale non colpevolizzarsi. Quando vediamo
il nostro cuore vacillare, quando vediamo che in questi momenti perdiamo lo slancio che
aveva animato fino ad allora la nostra vita di fede, quando vediamo che l'entusiasmo che ci
aveva sempre caratterizzati si diluisce, quando vediamo che non riusciamo a reagire
positivamente come vorremmo -ebbene, in questi momenti non dobbiamo temere, perché il Signore non solo non ci condanna, non solo non ci giudica, ma ci fornisce lui stesso le parole
per esprimere questa sofferenza, per trasformarla in preghiera. In questi momenti di
impotenza tutto quello che possiamo fare è cercare di trasformare questa impotenza in
preghiera.
In particolare ci sono le parole dei salmi citati prima, ma soprattutto quello che la liturgia
di questa domenica delle palme ci propone oggi. Le parole che ci sono offerte sono quelle del
salmo 21, le stesse che Gesù ha pronunciato sulla croce: Mio Dio, mio Dio, perché mi hai
abbandonato?
In questo la nostra fede e la nostra relazione con il Signore sono veramente grandi: in
esse non vi è spazio solo per il ringraziamento e la lode o solo per il lamento e la supplica.
Nella nostra fede, nella nostra preghiera, nella nostra relazione con il Signore, vi è spazio
anche per la delusione, vi è spazio per l'amarezza e vi è spazio anche per la collera. Non
bisogna aver paura di dirlo: vi è spazio anche per la disperazione. Sembra un paradosso, ma
è vero: nella nostra relazione con il Signore vi è spazio anche per la disperazione.
E' un errore cercare di attenuare il carattere inaudito, scandaloso, del grido di Gesù sulla
croce, del Figlio che dice al Padre, di Dio che dice a Dio: Dio mio, Dio mio, perché mi hai
abbandonato?
Colui che è venuto come nostro modello, colui al quale dobbiamo guardare per capire
cosa voglia dire essere figli del Padre ci appare in questo momento supremo non in una
serena accettazione della volontà di Dio. Al contrario, lo vediamo gridare la sua
disperazione, il suo dolore, la sua sofferenza, la sua solitudine. Il Figlio dice al Padre: perché
mi hai abbandonato? Non dobbiamo cercare di attenuare lo scandalo di questo grido. Se il
Signore ha spinto il suo abbassamento, la sua confusione, la sua umiliazione e la sua
sofferenza fino a voler fare l'esperienza di questa disperazione, fino a voler gridare questa
disperazione, abbiamo il dovere di prenderla sul serio. Abbiamo il dovere di accettarne le
conseguenze.
La vita di fede non è una vita beata, nella quale possono succedere delle cose che ci
affliggono esteriormente, ma con la perenne garanzia della serenità e della pace interiori.
Purtroppo no. La vita di fede non ci risparmia queste esperienze limite, non ci risparmia
questa solitudine, non ci risparmia questa angoscia. La vita di fede ci chiede, non di
ignorarle, non di sminuirle, ma veramente di gridarle, proprio come ha fatto Gesù. Gesù
non ha cercato di nascondere né a sé stesso, né al Padre, né a noi, questo momento di
disperazione, questo momento di angoscia, questo momento di solitudine, ma lo ha manifestato e lo ha addirittura gridato. Quindi se lo ha fatto lui è perché vuole che ci
sentiamo autorizzati a farlo anche noi, in lui, con lui, grazie a lui.
C'è una frase del salmo 66 che rischia di passare inosservata, ma che forse meglio di
qualunque altra esprime questo aspetto paradossale della relazione con Dio e della vita di
fede: persino la collera dell'uomo ti da gloria. Questa è parola di Dio. Questa frase del
salmo ci insegna che diamo gloria a Dio essendo veri, essendo autentici davanti a lui. Diamo
gloria a Dio lodandolo, quando siamo nella gioia o quando sentiamo o scopriamo i motivi
per lodarlo; diamo gloria a Dio ringraziandolo per i suoi benefici; diamo gloria a Dio
adorandolo per la sua grandezza. Ma siamo veri, siamo autentici, nella nostra relazione con
Dio, diamo gloria a Dio soprattutto quando abbiamo il coraggio di presentargli la nostra
umiliazione, la nostra incapacità di capire, la nostra sofferenza, la nostra rivolta interiore, la
nostra collera.
In questa settimana santa lasciamo che il Signore ci liberi da tutto quello che ci ostacola
nella relazione con lui. E questo grido di Gesù sulla croce: Mio Dio, mio Dio, perché mi hai
abbandonato? ci aiuti a capire fino a che punto il Signore vuole essere con noi e vuole che
noi restiamo con lui. Il Signore vuole essere con noi fin nella tenebra nella quale siamo
tentati di dubitare della sua presenza, vuole che noi restiamo con lui in questo momento nel
quale siamo esposti a questo grido di disperazione, a questo grido di solitudine, di angoscia
che dobbiamo saper accogliere come un grido che è stato fatto per noie che Cristo è sempre
pronto a ripetere con noi per liberarci.
Se salgo in cielo, Signore, là tu sei,
se scendo negli inferi, anche lì ti trovo.
Se prendo le ali dell'aurora,
per abitare alle estremità del mare,
anche là mi guida la tua mano
e mi afferra la tua destra.
Se dico: «almeno le tenebre mi avvolgano
e la luce intorno a me sia notte»;
nemmeno le tenebre per te sono tenebre,
e la notte è luminosa come il giorno.
Per te, Signore, le tenebre sono come luce.
Sal 139, 8-12

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