Don Alberto Brignoli "Al termine del cammino "

Domenica delle Palme (Anno A) (13/04/2014)
Vangelo: Mt 26,14-27,66
Il cammino volge al termine. L'annuale tentativo di "ritornare al Signore con tutto il cuore", e di "lasciarci riconciliare con lui" attraverso le opere di penitenza della Quaresima, non ha più molto tempo a disposizione. Ed è perfettamente inutile cercare di ricuperare il tempo perduto facendo un rush finale come quello dei velocisti in vista del traguardo; inutile, perché in fondo non abbiamo alcun premio da conquistare, al termine del cammino della Quaresima. Anzi, se l'intensità più o meno forte dello sforzo ascetico profuso in questo tempo di Quaresima può portare a un risultato concreto, questo è proprio la consapevolezza che il cammino fatto non aveva questo scopo.
La Quaresima, così come altri momenti dell'anno o della nostra vita in cui liberamente decidiamo di
aumentare il nostro sforzo ascetico nella preghiera, nella penitenza e nelle opere di carità, non ha l'obiettivo di farci "conquistare" un premio, come se la vita di fede fosse un impegno della nostra buona volontà contro la nostra accidia per sentirci dire da Dio che siamo stati bravi e che ci meritiamo un attestato di santità. Sarebbe tutto troppo facile: Dio sarebbe un distributore di grazie, uno che riparte premi ai vincitori e condanne agli sconfitti. Per poi accorgerci - se ci guardiamo dentro - che paragonati a lui, pur essendo a sua immagine e somiglianza, tutti quanti siamo eterni perdenti. Perché se c'è qualcuno che vince, in questa eterna sfida della vita tra il bene e il male, di certo non siamo noi, ma lui. E per di più vince - guarda un po' - in un modo che a noi sa di sconfitta, considerata la grande pietra rotolata davanti al suo sepolcro, per di più sigillata per essere ben sicuri che tutto quanto sia finito. Se la Quaresima fosse questo sforzo di diventare santi e sconfiggere il male che è dentro e fuori di noi, bello sforzo e bella conclusione!
Grazie a Dio, non è così. La Quaresima non è lo sforzo di diventare più santi, ma un cammino di fiducia, un cammino di fede. E se poi questo cammino ci fa anche più buoni, più santi e più volenterosi, tanto di riguadagnato per noi: ma non è il suo scopo principale. Se si tratta di un cammino, il suo scopo è quello di camminare nella fiducia seguendo la persona di cui crediamo fortemente di poterci fidare. E allora, poco a poco, passo dopo passo, nella fatica del quotidiano vivere (che non è certo una passeggiata), ci accorgiamo che camminare dietro a lui ci fa bene, fa bene alla circolazione della vita che è dentro di noi, fa bene alle nostre relazioni umane, fa bene all'anima. E se poi il cammino parte dal deserto, ancor meglio; se parte dalla presa di coscienza che siamo un nulla, che non abbiamo nulla e che abbiamo bisogno di tutto, allora partiamo col piede giusto. Perché solo così riusciamo a capire cos'è la fede: è sentire di aver bisogno di tutto, del "tutto", di Dio.
Fede è aver bisogno di cibo nel deserto (come il Maestro all'inizio della sua missione), è aver bisogno di una tenda che ci ripari in una notte all'addiaccio sul monte (come i discepoli sul Tabor), di acqua nell'arsura del mezzogiorno (come la donna al pozzo di Samaria), di luce nelle tenebre (come uno che è cieco dalla nascita), di vita là dove tutto parla di morte (come le sorelle di Lazzaro che rimproverano Dio per la sua assenza).
"Non ti ho forse detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?": con queste parole rivolte a Marta, Gesù aveva terminato, domenica scorsa, i suoi insegnamenti quaresimali sulla fede. E pure oggi, ci spalanca la porta sulle celebrazioni del mistero della nostra Salvezza, con un'ultima, grande domanda prima di morire, gridando, sulla croce: "Dio mio, perché mi hai abbandonato?".
È la più grande e drammatica domanda che la nostra fede possa rivolgere a Dio: e per fortuna - o per Grazia - domenica prossima, il primo giorno dopo il sabato, avremo la sua risposta.

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