Abbazia Santa Maria di Pulsano Lectio dei" Ss. Pietro e Paolo Apostoli"

(29 Giugno, Solennità)
Mt 16,13-19; At 12,1-11; Salmo 33; 2 Tm 4,6-8.17-18
«I santi apostoli Pietro e Paolo sono festeggiati unanimemente in tutte le Chiese dell’antica Tradizione “cattolica” oggi divisa, d’Oriente e d’Occidente, negli antichi e nuovi calendari, alla medesima data. Se nei secoli queste Chiese si sono divise per così dire in modo orizzontale, diagonale, per le miserie degli uomini, e oggi sembrano ancora più irritate, tuttavia si ritrovano puntualmente, da lontano e tuttavia insieme,
anche se non lo volessero, ogni Domenica a celebrare Cristo Signore Risorto. E in molte feste, proseguendo questa celebrazione di Cristo Signore Risorto ma nella memoria dei Santi della Chiesa. E così finalmente a venerare insieme i Due Apostoli del Signore. Tutte le Chiese infatti sanno dalla fede comune che si può celebrare di per sé solo Cristo Signore Risorto con lo Spirito Santo, per essere innalzati ad adorare la Trinità santa consustanziale e indivisibile. Sanno che il Signore è il Mirabile tra i suoi Santi (Sal 67,36). Ma sanno che il Signore ama essere adorato tra i suoi Santi, e mai senza di essi. E sanno che in particolare Egli desidera che i suoi figli fedeli venerino le membra elette del Corpo «prezioso» del Figlio, quello riscattato dal Prezzo indicibile della Croce, membra assimilate al Figlio dallo Spirito Santo.
La Chiesa dei primi secoli era severa, e venerava con memorie liturgiche solo gli Apostoli, i Martiri e i Vescovi delle Chiese locali. Dalla fine del sec. 4° si cominciò a venerare qualche confessore, dal sec. 6° , e con grande solennità, la Madre di Dio, di Angeli e altri santi.
In tutte le Chiese la celebrazione degli Apostoli ha una singolare nota di gioia e di gravità insieme. Basterà qui accennare ai testi liturgici, agli inni celebri delle Chiese, dove risuona una nota di consapevolezza del Disegno divino di Bontà eccedente per gli uomini, attuato di fatto dalla divina Economia di Cristo con lo Spirito Santo nella Chiesa mediante quegli uomini che la vocazione divina imperscrutabile chiamò a portare lo Spirito Santo al mondo.
La memoria degli apostoli Pietro e Paolo fu antica e universale, da sempre e non solo a Roma, ma nell’intero mondo cristiano. La rassegna delle ufficiature liturgiche di tutti i Riti, orientali e occidentali, è un immane tesoro. Per dare un esempio della venerazione degli Apostoli, i Riti orientali per il sacramento della penitenza hanno tre «formule di assoluzione» da recitare di seguito e in esse sono richiamati invariabilmente, tra gli altri, i due testi di Gv 20,19-23, con la Pace, il Soffio dello Spirito Santo, l’invio a portare il Giubileo della «remissione dei peccati» al mondo; e Mt 18,18-19, sul «potere di sciogliere e legare» in terra ed in cielo.
Per questo la celebrazione del 29 giugno è singolarmente carica per la fede dei cristiani» (T. Federici, Cristo Signore Risorto Amato e Celebrato, Eparchia di Piana degli Albanesi, Palermo 2001).


«Nonostante la riforma liturgica proposta dal Vaticano II, le feste e le Domeniche sono riempite di iniziative e significati che poco hanno a che fare con ciò che la liturgia celebra. Si tratta di un’esigenza pastorale, come s’usa dire. Le persone, infatti, sono raggiunte per la maggior parte nella celebrazione eucaristica festiva e domenicale, e nella loro formazione cristiana si deve prestare attenzione ad aspetti della vita ecclesiale e sociale che diversamente andrebbero perduti. In tal modo però si corre il rischio di concentrare l’attenzione su questi aspetti anziché sul mistero celebrato. Per fare degli esempi: la festa della Sacra Famiglia diventa la festa della famiglia, la solennità della Madre di Dio diventa la giornata della pace, la domenica in albis diventa la giornata della divina misericordia, la solennità dei Santi Pietro e Paolo diventa la festa del Papa. Per attenerci a quest’ultima si possono proporre alcune considerazioni. Anzitutto perché si è attuata questa trasposizione; poi perché tale trasposizione meriterebbe di essere ripensata.
La storia del pensiero e delle pratiche cristiane risente di congiunture teologiche, spesso a servizio di scelte rese necessarie per la vita della Chiesa. Come ancora oggi si può vedere nei testi per la celebrazione, i due santi apostoli Pietro e Paolo sono associati sia nel martirio sia nella venerazione. Tuttavia man mano che nel pensiero teologico si è avvertita la necessità di affermare e difendere il primato della Chiesa di Roma, trasformatosi abbastanza presto nel primato del suo vescovo, san Paolo è stato posto in secondo piano. Nessuno ne nega l’importanza, ma nella rilettura che si attua a partire dalla funzione del successore di Pietro, Paolo tende a essere relegato in posizione subalterna: se, infatti, Pietro è la roccia sulla quale Gesù ha fondato la sua Chiesa, Paolo, benché apostolo, martire, teologo superiore a Pietro, non appare più indispensabile affinché la Chiesa possa sussistere.
Indiscutibile che Pietro nei vangeli occupi un posto ‘primaziale’, e quindi nella comunità delle origini sia il punto di riferimento. Ma è altrettanto indiscutibile che Paolo sia colui che modella il cristianesimo e lo apre al mondo del suo tempo e quindi alla storia futura. Nel momento in cui la preoccupazione per il permanere della Chiesa diventa dominante a fronte delle divisioni e delle eresie, era logico che si mettessero in evidenza anzitutto le prerogative di Pietro, quasi dimenticando che la Chiesa di Roma è riconosciuta fondata sulla testimonianza dei due apostoli.
C’è un ulteriore elemento da tenere presente per capire le ragioni della trasposizione. Nei primi secoli per legittimare la verità di una Chiesa a fronte di quelle ‘eretiche’ si incomincia a elaborare la dottrina della successione apostolica: se una Chiesa può vantare la fondazione da parte di un apostolo o di un suo successore, la si deve riconoscere autentica; il processo della successione deve però prendere avvio dai dodici, coloro che sono stati con Gesù e da lui costituiti fondamento. A questo riguardo si può notare che nell’epistolario paolino, benché Paolo difenda la sua designazione come apostolo perché anch’egli ha visto il Signore, lo stesso Paolo non si equipara mai ai dodici: in 1 Cor 15,3-8, quando elenca i testimoni del Risorto, denomina se stesso come un ‘aborto’, benché nella medesima lettera al cap. 9 abbia dichiarato che anch’egli ha visto il Signore, in sintonia con Gal 1,16. Se poi si va a leggere Ef 2,20 («edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti»), sembra che egli non includa se stesso nel numero di costoro, benché più avanti (3,7) si presenti come «ministro del Vangelo».
Da questi cenni pare si possa affermare che, senza nulla negare al valore della testimonianza di Paolo, nella letteratura neotestamentaria si coglie una distinzione tra il gruppo dei dodici, ricostituito dopo il tradimento di Giuda (cfr. At 1) e gli altri apostoli, tra i quali Paolo. Diventava pertanto logico che, essendo Pietro il capo dei dodici, si arrivasse a porre l’accento sulla sua funzione e quindi su quella del suo successore, soprattutto nella polemica prima con l’imperatore (non si può dimenticare che in una società verticistica i rapporti tra Chiesa e impero erano rapporti tra Papa e imperatore) poi con i riformatori. Paolo diventava pertanto ‘marginale’: ciò che si doveva salvaguardare era la struttura istituzionale della Chiesa. Per dirla in termini un po’ schematici: Pietro e il suo successore apparivano necessari per la struttura permanente della Chiesa; Paolo, che peraltro non ha successori, no. La figura di Pietro e del suo successore tendono gradualmente a identificarsi: a partire soprattutto da Leone Magno (V secolo) il Papa rappresenta San Pietro, misticamente presente in lui. Se poi, facendo un salto un po’ ardito, si volge lo sguardo alla devozione nei confronti del Papa nel secolo XIX con la denominazione di lui come «dolce Cristo in terra» mutuata, pare, da Santa Caterina da Siena, la dissolvenza tra san Pietro e il Papa appare compiuta. Ovvio che in questi passaggi la letteratura religiosa, l’arte, oltre che la teologia svolgono un ruolo determinante. Sintomatico a questo riguardo che la basilica di San Giovanni in Laterano, sede della cattedra del vescovo di Roma, passi in secondo piano rispetto alla basilica di san Pietro annessa ai palazzi vaticani, dove il Papa celebra: la cattedra di san Pietro diventa la cattedra del Papa. L’immaginario devozionale collega così in forma indissolubile San Pietro e il Papa.
Il passo a far diventare la festa dei Santi Pietro e Paolo la festa del Papa è così compiuto. Il fatto poi che in questa solennità si raccolgano le offerte per la carità del Papa, come oggi si dice (precedentemente si parlava dell’obolo di San Pietro), aiuta a fissare ancora di più la convinzione che il 29 giugno sia la festa del Papa.
Per verificare se così debba essere, basterebbe leggere con attenzione i testi della liturgia di questa giornata: dalle orazioni alle letture della celebrazione eucaristica, alle antifone e alle letture del breviario appare chiaro che così non dovrebbe essere: i due apostoli, che stanno come fondamento della Chiesa di Roma, non possono essere dissociati privilegiando Pietro su Paolo.
Si deve concludere che in questa circostanza non si dovrebbe parlare del Papa? Pare che la risposta sia positiva: la solennità dei Santi Pietro e Paolo non è la festa del Papa, bensì dei due pilastri sui quali la Chiesa si sente edificata. A Brescia è conservata una tela del pittore cinquecentesco Bonvicino, detto il Moretto: i due apostoli reggono insieme una chiesa, chiaramente simbolo della Chiesa. Senza nulla togliere alla funzione del Papa, non si può dimenticare che la solennità di oggi è anzitutto celebrazione di coloro che con la loro testimonianza hanno permesso alla Chiesa di Roma di “presiedere nella carità”» (di G. Canobbio1, articolo in Servizio della Parola di Giugno/Luglio 2014 – 457 – pp.93-96).


La citazioni si sono rese necessarie perché non appaia una mia solitaria “caparbia ostilità” il continuo richiamo ad una maggiore fedeltà al lezionario e quindi al doveroso compito dell’omileta di raccordare ed integrare la proclamazione dei testi liturgici a volte “orribilmente tagliuzzati” e le dannose “omelie a titolo” che come “medicine scadute” uccidono lentamente ed inesorabilmente la fede del santo popolo di Dio.

Antifona d’Ingresso
Sono questi i santi apostoli che nella vita terrena
hanno fecondato con il loro sangue la Chiesa:
hanno bevuto il calice del Signore,
e sono diventati gli amici di Dio.

L’antif. d’ingresso è una composizione; una specie di professione di fede e di gioia, una specie di lapide solenne le cui lettere vengono dalla Scrittura. I due Apostoli da vivi hanno impiantato la Chiesa (allusione a Mt 16,16-18), bevendo la Coppa del Signore, partecipando al suo destino anzitutto nella celebrazione dei Misteri, nelle loro Comunità, poi nell’assimilazione del loro martirio al Sacrificio della Croce (allusione al lógion di Mc 10,38-39; vedi la Domenica XXIX per l’Anno, Ciclo B). Così essi sono diventati «amici di Dio», come Abramo che ebbe fede solo nel Signore (Gen 15,6, citato in Giac 2,23), essi che non ebbero paura di chi uccide i corpi (Lc 12,4), ma che, in quanto suoi amici fedeli, adempirono quanto il Signore prescrive, ascoltando da Lui la Parola del Padre (Gv 15,14.15).

Canto all’Evangelo   Mt 16,18
Alleluia, alleluia.
Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa
e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa.
Alleluia.

Nel canto all’Evangelo il «Tu sei Pietro», serve a orientare l’Evangelo, è un’insistenza fastosa e gioiosa, in quanto la pericope è già orientata in quel senso. La pericope evangelica è infatti densa ma come sempre, e in particolare per questa pericope, il contenuto si comprende meglio se si conosce il contesto e si ha presente lo schema dell’Evangelo in esame.
Questi vv. risentono enormemente del taglio, per così dire «petrino», sviluppato in questa solennità di due Apostoli del Signore. Come per altre feste anche qui tuttavia prosegue la celebrazione di Cristo Signore Risorto ma nella memoria dei Santi della Chiesa.
Siamo in quei cc. tra il 3° e il 4° grande discorso di Gesù che raccontano del suo ministero messianico itinerante. Una terribile «crisi» di uomini è in atto: l’annuncio dell’Evangelo e del Regno, che tendeva a fare del popolo d’Israele un solo missionario con lui, è fallito.
Dopo il ministero messianico in Galilea Gesù si ritrova praticamente solo, con 12 discepoli ancora incapaci di reggere l’immane compito dell’evangelo.
Ha tuttavia bisogno di loro, della loro fede, per svolgere l’ultima parte della sua missione: la Croce.
Dopo la Croce egli sa che come Risorto dovrà inviare uomini pronti ad annunciare l’Evangelo della Resurrezione in tutto il mondo.
Non solo i sinottici, ma anche l’evangelista Giovanni (6,69) conosce la tradizione della professione di fede dell’apostolo Pietro. Il quadro geografico è diverso: a Cesarea di Filippo per Marco e Matteo, nessuna indicazione in Luca, a Cafarnao o nelle vicinanze secondo Giovanni, che inserisce le parole di Pietro subito dopo il discorso sul pane di vita tenuto nella sinagoga di quella città.
La pericope sarà proclamata anche la XXI Dom. per l’Anno A.

Esaminiamo il brano

v. 13 - «Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo»: In un clima di ostilità e di rifiuto il narratore annota che Gesù lascia il territorio di Israele e si dirige verso nord, nella regione governata dal tetrarca Filippo, figlio di Erode il grande. L’allontanamento geografico assume nell’evangelo di Matteo un particolare significato, perché in questo contesto presenta l’annuncio esplicito della nuova comunità che viene a continuare e completare l’antica: al rifiuto dei capi di Israele si contrappone l’accoglienza ed il riconoscimento dei discepoli. Ai capi di Israele viene dunque sostituito un uomo di fede, un uomo che con la sua fede in Gesù Messia possa essere il fondamento di una nuova costruzione.
«La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?»: La domanda «chi è Gesù» è continuamente posta alla Chiesa di ogni tempo, fin dalle origini; anche quella di Matteo tenta di dare una risposta.
Una domanda fondamentale dunque e questo è particolarmente evidente nell’evangelo di Marco dove la confessione di Pietro sta al centro fisico del Libro, ed in un certo senso fa da cerniera tra la prima e la seconda fase della vita del Signore e del suo ministero.
Il Signore non è riuscito a fare del suo popolo «il missionario» del Regno insieme a lui, ma addirittura si trova abbandonato da tutti, in solitudine, fuori del territorio propriamente palestinese, a Cesarea di Filippo.
Attorno a Gesù restano solo dodici discepoli incerti ma proprio di questi Gesù ha bisogno per portare al mondo il grande Dono: lo Spirito Santo.
In Matteo già la domanda stessa è una risposta: «Chi dice la gente che sia il figlio dell’uomo?»; Gesù o la comunità in sua vece identifica il figlio del carpentiere (cf. Mt 13,55) con il «Figlio dell’uomo2», la figura più misteriosa ma anche più prestigiosa del messianismo veterotestamentario.
Gesù stesso rivendica una tale identità nel corso del processo davanti al sinedrio (Mt 26,64).
Nella sua domanda Gesù cerca di appurare il grado di comprensione della folla e dei discepoli sulla sua persona. La gente comune non è riuscita a capire chi egli sia, ma ha colto il senso fondamentale della sua missione: egli è un profeta, cioè uno che parla non di sua iniziativa ma per ispirazione divina (come tanti altri apparsi nella storia biblica). Geremia è aggiunto da Matteo; nel giudaismo questo profeta era venerato particolarmente come intercessore celeste a favore del popolo d’Israele (cf 2 Mac 15,13-16).
v. 15 - «Ma voi chi dite che io sia?»: la risposta di Simone [Šim’òn in ebr. = docile (all’ascolto della parola)], data a nome dei discepoli coglie nel segno.
Pietro soprattutto, nell’Evangelo di Matteo, ha un posto di particolare rilievo: è il primo della lista (10,2); cammina dietro a Gesù sulle acque (14,28); lo accompagna sul monte della trasfigurazione (17,1) e nel Getsemani (26,37); paga in suo nome il tributo (17,24).
v. 16 - «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente»: La risposta di Pietro nell’evangelo di Matteo è tuttavìa diversa da quella riportata da Marco e da Luca; verosimilmente tutti e tre dicono la stessa cosa. L’evangelista Matteo non aggiunge un nuovo titolo, ma esplicita l’appellativo «Cristo» («Figlio di Dio», cf. Nota 2).
La risposta di Pietro è la confessione della Chiesa delle origini sull’identità di Gesù di Nazaret: egli non è uno dei profeti, ma l’inviato di Dio per eccellenza, il salvatore, il liberatore che tutti attendono, nonostante il rifiuto e l’opposizione delle autorità costituite.
v. 17 - «Beato…»: La singolarità di Matteo nel confronto sinottico è quella di aver inserito dopo la confessione di Pietro una dichiarazione di Gesù nei confronti dell’apostolo.
v. 18 - «io a te dico…»: L’incombenza riservata a Pietro è espressa con un linguaggio particolare e tipicamente orientale. L’uso della metonimia è un tipico modello: è nominato il contenente per il contenuto, Es. le chiavi stanno per la casa e simboleggiano il potere di disporre di essa (cf. Is 22,15-22); il cielo sta per l’autorità di Dio.
«Tu sei Pietro»: Il nome del primo dei discepoli è Šim’òn, in ebraico «Docile [all’ascolto]» della Parola. Ma il Signore gli muta il nome, come «presa di possesso» definitiva, nell’aramaico Kèfà’, che non era un nome di persona, ma indicava semplicemente una roccia, un grande blocco di pietra molto solido. Gesù inventa dunque uno strano soprannome che vuol far riflettere. Quando la comunità cristiana cominciò a parlare greco, il nome Kephàs fu reso con Petros ma anche in greco non era un nome proprio. L’uso costante della prima comunità però lo ha trasformato nell’autentico nome dell’apostolo Simone e noi, dopo secoli di uso, non ci accorgiamo più di questo passaggio.
L’apostolo diventa la rupe salda nella fede, sopra la quale il Signore può costruire la «sua Chiesa», dotandola di ogni potere di salvezza per le mani di Pietro e degli Apostoli (Mt 18,18, testo parallelo e da leggere sempre insieme). L’autorità di Pietro trova in Mt 16,18-19 la massima espressione ed esaltazione; i testi di Lc 22,31 e di Gv 21 non sono così espliciti.
La risposta di Gesù è una beatitudine nuova rivolta a Pietro figlio di Giona (cf. Gv 1,41.42), non per un suo merito ma perché beneficiario di una rivelazione concessa dal Padre. È la grazia illuminante di Dio che gli ha svelato il segreto della persona di Gesù.
La beatitudine dell’apostolo diventa così il riconoscimento da parte di Gesù del gesto di grazia di Dio verso il discepolo.
«la mia chiesa»: il termine greco ekklesia, fra gli evangelisti, è usato solo da Matteo e si allaccia strettamente ad un termine ebraico (qahal), che nell’Antico Testamento indicava la comunità di Israele, il popolo convocato e scelto da Dio come sua proprietà. L’espressione di Gesù infatti fa intravvedere una contrapposizione: la «mia» chiesa si contrappone, evidentemente, ad un’altra. La chiesa di Gesù è la nuova comunità che riconosce in lui il Messia, è il nuovo Israele, contrapposto a quella parte dell’antico popolo che lo ha rifiutato. Pietro è la prima pietra di una nuova costruzione: con un’immagine edile tratta dai profeti Gesù paragona il gruppo dei fedeli ad una costruzione ed allude alla nuova casa di Israele che verrà edificata.
«le potenze degli inferi»: Questa nuova realtà non sarà soggetta alla morte. Tale è il significato dell’oscura espressione semitica: «le porte» sono il luogo cittadino ove si amministra la giustizia ed il potere, per cui sono diventate il simbolo del governo e della forza; «gli inferi» (in ebraico she’ol, in greco hádēs) indicano il mondo sotterraneo dei morti e stanno a rappresentare la morte stessa e la caducità di tutte le cose. Le porte degli inferi indicano pertanto l’inevitabile fine che sovrasta ogni realtà terrena. Ma Gesù intende proprio dire che la sua comunità non è una semplice realtà terrena, giacché non è soggetta al potere della morte, non è destinata a finire come tutte le altre cose.
v. 19 - «a te darò le chiavi»: All’immagine della pietra fondamentale viene quindi aggiunta un’altra immagine: quella del ministro plenipotenziario di un regno. Con allusione all’antico rito di consegnare la chiave della città per conferire ad una persona il potere di governo su quella città (cfr. Is 22,22), Gesù promette di costituire Pietro suo vicario nell’annuncio e nel servizio del Regno che il Messia è venuto ad inaugurare.
Le chiavi servono per aprire e chiudere; ma la nuova espressione non adopera questi verbi, bensì “legare e sciogliere”. Significa che, rapidamente, si è passati ad una terza immagine, che completa le precedenti. Anche questa è un’oscura espressione semitica, abbastanza nota nell’ambiente rabbinico per indicare il potere che ha il capo di una comunità. La formula ha sostanzialmente due significati, uno morale ed uno giuridico. Nel senso morale, «legare e sciogliere» significa imporre un obbligo o dichiararne liberi ed indica il potere di interpretare autorevolmente la volontà di Dio. Nel senso giuridico invece significa ammettere alla comunione ecclesiale o separarne, stabilendo concretamente le condizioni indispensabili per esserne membri. La corrispondenza fra la terra e il cielo indica lo stretto rapporto fra l’opera di Dio e del suo Cristo, da una parte, e la continuazione storica della sua chiesa, dall’altra, sotto la guida di Pietro e degli altri apostoli (cfr. Mt 18,18).
Adesso il Signore può andare verso la Croce. Per questo adesso il Padre può trasfigurarlo come anticipo della Resurrezione (Mt 17,1-9), ossia "confermarlo" per la Croce, e porlo con i discepoli sotto la Nube della divina Gloria, lo Spirito Santo onnipotente.

La I lettura di At 12,1-11 con il racconto della liberazione di Pietro dal carcere, ultima narrazione di Atti del capo degli apostoli, ha le connotazioni dell’evento prodigioso, carico di mistero e di riferimenti simbolici.
Tutto il racconto assume un significato particolare dall’ambientazione temporale: si svolge infatti durante la festa di Pasqua; l’intero episodio potrebbe essere intitolato “la Pasqua di Pietro”. Il disepolo, accompagnato nella preghiera da tutta la comunità, vive l’esperienza dell’esodo, l’uscita dalla schiavitù verso la libertà. Tutto sembra un sogno ed invece è realtà. Pietro ha vissuto in modo simbolico la dinamica pasquale ed il racconto lucano ne generalizza il valore come ben lo interpreta anche la liturgia attraverso il salmo responsoriale e il ritornello: “Il Signore mi ha liberato da ogni paura”.

Per equilibrare alquanto la celebrazione, finora tendente a esaltare Pietro, la II lettura di 2 Tm 4,6-18, che riporta parole ed esperienze autentiche di Paolo, è come la sintesi grandiosa, e umile, della vita di un fedele servo del Signore. Egli dalla prigionia sta per avviarsi a rendere presso Cesare la testimonianza al Signore, che ve lo ha inviato (At 23,11). Già si riconosce come libagione sacrificale; il tempo del suo esodo a Dio è venuto (v. 6). Per il fedele Timoteo, che ha esortato alla perseveranza, alla fede, alla grazia divina che deve donare nel suo ministero pastorale, traccia il suo bilancio. La battaglia bella, della pace e dell’Evangelo, è terminata. La corsa è giunta al traguardo. La fede donatagli dal Signore è stata conservata, patrimonio unico che Paolo custodisce come il bene maggiore (v. 7). Al traguardo supremo lo attende la corona della giustizia, che la Bontà del Signore quale Giudice incorruttibile e inappellabile consegnerà a Paolo vincitore della corsa (metafore sportive, che piacciono tanto a Paolo), nel Giorno che ormai sta qui. Tuttavia non unicamente a Paolo, ma anche a quanti hanno amato l’Epifania di Lui, la sua Manifestazione finale e totale (v. 8).
Però in questo momento, insieme a lui, quanti sono questi fedeli che saranno premiati? Paolo obietta, certo con grave dolore apostolico, non egoistico, che nel primo processo nessuno gli è stato presente, tutti l’abbandonarono (v. 16a), con la sola eccezione felice di Luca (v. 11).
E l’Apostolo prega affinché questo non sia imputato da Dio ai pavidi, fratelli impauriti dalla persecuzione (v. 16b). E rinnova la sua confessione di fede e di gratitudine: il Signore gli è stato sempre presente, e lo ha rafforzato e rinvigorito. Lui, come il Salmista (Sal 21,22), come Daniele (Dan 6,21.28), «fu liberato dalla bocca del leone», ossia da ogni azione umana malvagia. E il Signore lo libererà in vista del Regno suo sovraceleste (vv. 17b-18a). L’Apostolo termina con la dossologia: «A Lui la gloria per i secoli dei secoli. Amen!» (v. 18b) che in un certo senso è l’ultima parola dell’Apostolo ai suoi fedeli. È il trionfo sulla morte, è la vita nella fede che acclama alla Vita divina.

«Pietro e Paolo, Apostoli, fondatori di Chiese, Martiri, “afferrati” ambedue in modi diversi dal medesimo Signore, “posseduti” da Lui attraverso anche la mutazione battesimale del loro nome: Šim’òn Kêfâ Pétros, Simone Pietra Pietro; e Ša’ul Pàulos, «Richiesto [dal Signore]» e «Nulla valente» Paolo, un nome romano, Paulus, grecizzato per indicare «lo scarso» davanti al suo Signore (da At 13,9 in poi). Due persone, due Ebrei veri, diversissimi tra loro. Uno è pescatore, piuttosto incolto. L’altro è geniale, rabbino, intellettuale, raffinato. Ma nel Collegio apostolico scelto dal Signore, i Dodici, Pietro che ne è capo, e Paolo che vi sta accanto con il medesimo titolo e diritto di origine divina, sono le due figure per eccellenza della pneumatoforia, portare lo Spirito Santo al mondo, agli uomini.
Pietro in primo tempo agli Ebrei, per formare la «Chiesa dalla circoncisione». Ma non solo per questo, per dignità è il capo e corifeo, il portaparola. Paolo, l’iniziatore dell’evangelizzazione dall’Asia minore alla Grecia fino a tutto l’Occidente, è il «docente delle nazioni pagane» e dei discendenti di quei pagani antichi, i cristiani d’oggi. Ma non solo per essi. Perciò ambedue gli Apostoli, come proclama e canta l’Oriente, sono i Prôtóthronoi, i «primi nella cattedra» della dottrina divina e salvifica. Certo. Nella perfetta eguaglianza degli Apostoli del Signore, essi sono più rappresentativi: discepoli, convertiti, apostoli, martiri, edificatori dell’edificio della Chiesa; accanto a essi Giovanni li eguaglia, ma non nel martirio, e Tommaso, l’Apostolo dell’Oriente fino in India, è grande martire, ma non lascia scritti di dottrina. Non per nulla il 30 giugno, in ideale prosecuzione con essi due, Roma festeggia anche i suoi «Protomartiri», quella «ingente moltitudine» di cui parla Tacito, che insieme con Pietro, arsi vivi sulla consolare Via Cornelia, l’attuale Via della Conciliazione, prestarono con lui la comune testimonianza di amore, di fede e di vita a Cristo Signore.
La solennità di oggi celebra il Signore Risorto commemorando i due suoi Apostoli, e insieme il fatto di certo più importante nella vita di Pietro e di Paolo. Essi non ebbero alcun merito. Al contrario, essi furono gratificati dal Gratuito divino con la vocazione più personale che si dia, la vocazione profetica per la Parola, che è vocazione militare, con l’imperativo militare «Va’!» (Lc 7,6-9, le parole del centurione che suscitano la meraviglia del Signore). Inviati così per la missione e l’agone. La somiglianza differenza tra i due si vede anche nel battesimo che hanno ricevuto dal Padre mediante il Figlio nello Spirito Santo: di Fuoco (At 2,1-12) e di Soffio creante (Gv 20,22-23), Pietro; la medesima Pentecoste dello Spirito Paolo, ma, accecato dalla Luce di Gesù, per mano della Chiesa, dall’umile servo di Dio Anania (At 9,15-18). Ambedue sono inviati, per vie difficili, a portare l’unico Evangelo della grazia, l’unica predicazione apostolica che è la fede cristiana di oggi e di sempre, sempre la medesima. Per l’unica Chiesa di Dio, l’Unica Santa, nella meraviglia divina che sono le Chiese diffuse su tutta la terra. In forme diverse, certo, ma convergenti.
Pietro e Paolo sono accomunati dal Signore con un medesimo destino: partiti l’uno da Gerusalemme via Antiochia, l’altro da Antiochia, essi sono i veri Fondatori della Chiesa di Roma in quanto Chiesa apostolica. Questa esisteva anche prima di essi, ma solo con essi è apostolica, il cuore di Pietro, il cuore di Paolo. Riferisce S. Clemente Romano, «per invidia e gelosia» ambedue furono denunciati all’autorità romana da cristiani della comunità di Roma, che dopo il martirio glorioso furono pronti a riconoscerli come loro fondatori e a venerarne religiosamente le tombe e la memoria. Vedi l’Apostolo della Domenica XXV per l’Anno, Ciclo B.
E la stessa iconografia unisce i Due Apostoli e Martiri in innumerevoli rappresentazioni, già dai secoli 2° e 3°, nella forma visiva fedele che i cristiani di Roma avevano mantenuto. I due Apostoli appaiono abbracciati, nella medesima fede e carità. Come i cristiani di Palestina quella del Signore, 1’«Icona santa». Infine, il Signore li associa nel comune martirio, a poca distanza di tempo (anni 64 e 67?), a Roma, per testimoniare all’impero pagano e al mondo di tenebra Lui, il Risorto, e il Padre che con lo Spirito Santo Lo ha inviato agli uomini. Essi, i due Apostoli, sono per così dire i Capi della «così ingente nube di Testimoni posta su noi» (Ebr 12,1) da Dio, per richiamare i dubbi e le debolezze umane verso la fede e verso la forza.
E i due «trofei degli Apostoli» sulle vie consolari di Roma, la Via Cornelia e la Via Ostiense, le loro tombe, sono memorie storiche certe di questa Economia storica. Anche l’archeologia è confermata dalla storia, e non viceversa; e chi oggi dubita della venuta di Pietro e Paolo a Roma, e della loro opera di fondazione della «Chiesa che presiede nella carità» le altre Chiese (S. Ignazio Martire d’Antiochia), si pone fuori della storia, della scienza e della verità. In antico esisteva un unico pellegrinaggio del mondo cristiano: alle tombe dei Due Apostoli, per avere confermata dal Signore la fede, pregando accanto a chi la fede ha propagato e ha testimoniato. Da allora i cristiani fedeli e consapevoli della fede visitano le tombe degli Apostoli con gioia e riconoscenza al Signore. Stabilendo Pietro e Paolo come Trofei suoi, segni gloriosi, sempre presenti nell’animo dei fedeli, il Signore ha realmente visitato il popolo suo, popolo santo del Signore Vivente.
Perciò la memoria liturgica delle Chiese pone nell’ordine della dignità del Corteo celeste la Madre di Dio, gli Apostoli, i Martiri e i Vescovi della Chiesa locale. Ecco il segno preclaro di tutta la Chiesa, la Sposa, la Madre, l’Orante, senza la cui commemorazione l’Unica Santa, la Cattolica, l’Apostolica non comunicherebbe alle sue origini benedette.
Celebrando il Signore oggi nello Spirito Santo, la Parola divina su Pietro e Paolo insegna l’accresciuta fedeltà alla Chiesa di Dio» (T. Federici, Cristo Signore Risorto Amato e Celebrato, Eparchia di Piana degli Albanesi, Palermo 2001).


Colletta
O Dio,
che allieti la tua Chiesa
con la solennità dei santi Pietro e Paolo,
fa’ che la tua Chiesa
segua sempre l’insegnamento degli Apostoli
dai quali ha ricevuto il primo annunzio della fede.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…




lunedì 23 giugno 2014
Abbazia Santa Maria di Pulsano

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