Enzo Bianchi "Santa Trinità "

Commento al Vangelo di Enzo Bianchi – Domenica 15 giugno 2014
 Gv 3,16-18
È la domenica in cui confessiamo la Trinità di Dio. In verità la Trinità di Dio è confessata dalla chiesa
sempre, in ogni liturgia, ma recentemente si è sentito il bisogno di istituire una festa teologico-dogmatica,
che non è conosciuta né dall’antichità cristiana né, tuttora, dalla tradizione cristiana orientale. È

comunque l’occasione di una lode, di un ringraziamento, di un’adorazione del mistero del nostro Dio,
comunione d’amore tra Padre, Figlio e Spirito santo. Qualcuno può essere stupito che il testo evangelico
scelto dalla chiesa per questa festa parli in modo manifesto solo del Padre e del Figlio, mentre sembra fare
silenzio sullo Spirito santo.
In realtà lo Spirito è presente come “amore di Dio” e come “compagno inseparabile del Figlio” (Basilio di
Cesarea), perché là dove sta scritto che “Dio ha tanto amato il mondo”, il cristiano comprende che Dio ha
amato il mondo con il suo amore che è lo Spirito santo del Padre e del Figlio. La Triunità di Dio non è una
formula cristallizzata e non occorre nominare sempre le tre persone per evocarla: il Padre, il Figlio e lo
Spirito santo sono termini che indicano una vita di amore plurale, comunitario, sono una comunione che
noi tentiamo di esprimere con le nostre povere parole, sempre incapaci di “dire il mistero, la rivelazione”,
del nostro Dio. Ma soffermiamoci sul brano evangelico.
Siamo nel contesto del colloquio notturno tra Gesù e Nicodemo (cf. Gv 3,1-21), un “maestro di Israele”
(Gv 3,10) che rappresenta la sapienza giudaica in dialogo con Gesù. È questo un dialogo faticoso per
Nicodemo, che ha fede in Gesù ma fatica ad accogliere la novità della rivelazione portata da questo rabbi
“venuto da Dio”. Gesù risponde alle domande del suo interlocutore, ma l’ultima risposta, quella più lunga,
sembra contenuta all’interno di una meditazione dell’autore del quarto vangelo. Dunque, nei versetti che
oggi la chiesa ci offre è Gesù a parlare oppure si tratta di una meditazione dell’evangelista? In ogni caso
sono parole di Gesù non certo riportate tali e quali, ma meditate, comprese e ridette nel tessuto di una
comunità cristiana che ha cercato di crederle e di viverle. Così si apre il brano: “Dio ha tanto amato il
mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui … abbia la vita eterna”.
Subito prima sta scritto: “Bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia
la vita eterna” (Gv 3,14-15). Queste due affermazioni sono parallele e si spiegano a vicenda. Affinché ogni
uomo possa credere, aderire al Figlio dell’uomo e mettere la propria fiducia in lui, occorre che conosca
l’amore di Dio per ogni uomo, per tutta l’umanità, per questo mondo. Tale amore di Dio si è manifestato in
un atto preciso, databile, localizzabile nella storia e sulla terra: il 7 aprile dell’anno 30 della nostra era un
uomo, Gesù di Nazaret, nato da Maria ma Figlio di Dio, è stato innalzato sulla croce, dove è morto “avendo
amato fino alla fine” (cf. Gv 13,1), e in quell’evento tutti hanno potuto vedere che Dio ha talmente amato
il mondo da consegnargli il suo unico Figlio, da lui “inviato nel mondo”.
Ecco il dono dei doni di Dio: dono gratuito, dono di se stesso, dono irrevocabile e senza pentimento. Dono
fatto solo per un amore folle di Dio, il quale ha voluto diventare uomo, carne fragile e mortale (cf. Gv
1,14), per essere in mezzo a noi, con noi, e così condividere la nostra vita, la nostra lotta, la nostra sete di
vita eterna. Ecco ciò che è accaduto con la venuta nella carne del Figlio di Dio e con la discesa dello Spirito
che sempre è il compagno inseparabile del Figlio; ecco il mistero dell’amore di Dio vissuto in comunione,
comunione del Padre, del Figlio e dello Spirito santo.
Quel mondo (kósmos) che a volte nel quarto vangelo è letto sotto il segno del male, del dominio di Satana,
“il principe di questo mondo” (Gv 12,31; 16,11; cf. 14,30), qui è letto come umanità, come universo che
Dio vide “cosa buona” (Gen 1,4.10.12.18.21.25) e “molto buona” (Gen 1,31), che egli ha amato fino alla
follia, fino al dono di se stesso, dono che gli ha richiesto spogliazione, povertà, umiliazione. Questo dono
folle di Dio al mondo non ha come scopo il giudizio del mondo ma la sua salvezza: Dio vuole che l’umanità
conosca la vita per sempre, la vita piena, che soltanto lui può darle. Ma di fronte al dono resta la libertà umana. Il dono è fatto senza condizioni, dunque può essere accolto o
rifiutato. Chi lo accoglie sfugge al giudizio e vive la vita per sempre, ma chi non lo accoglie si giudica da se
stesso. Certamente troviamo qui espressioni di Gesù molto dure, radicali, ma esse vanno decodificate e
spiegate. Se Gesù dice che “chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome
dell’unigenito Figlio di Dio”, non lo dice manifestando una condanna per le moltitudini di uomini e donne
che non hanno potuto incontrarlo nella storia, perché appartenenti ad altri tempi o ad altre culture.
Costoro, se avranno vissuto la loro esistenza in conformità all’esistenza umana di Gesù, contraddistinta
dall’amore dei fratelli e delle sorelle, è come se avessero vissuto, pur con tutti i limiti umani, la vita di
Gesù; e così, senza conoscerlo, senza professare il suo Nome nella fede cristiana, conosceranno la vita
eterna in lui e con lui. Ma chi ha avuto una vita gravemente difforme dalla vita umana di Gesù, e anzi in
contraddizione con essa, non conoscendo l’amore, costui è già giudicato e condannato: non c’è per lui vita
eterna.
Enzo Bianchi

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