Abbazia Santa Maria di Pulsano Lectio Divina Domenica “della moltiplicazione dei pani e dei pesci”
XVIII del Tempo Ordinario A
Mt 14,13-21; Is 55,1-3; Sal 144; Rm 8,35.37-39
Antifona d’Ingresso Sal 69,2.6cd
O Dio, vieni a salvarmi.
Signore, vieni presto, in mio aiuto.
Sei tu il mio soccorso, la mia salvezza:
Signore, non tardare.
All’inizio di questa celebrazione l’Orante dell’antifona d’ingresso (tratta dal Sal 69,2.6cd, SI) aiuta a pregare degnamente, chiedendo con due epiclesi parallele che il Signore si appresti ad intervenire in soccorso, anzi che si affretti ad aiutare (v. 2; cfr v. 6; 30,3; 68,18; Mt 8,5). Le necessità dei suoi fedeli anzi sono così urgenti, che l’Orante reitera l’epiclesi per la Presenza, chiedendo al Signore, l’unico Soccorso e l’unico Liberatore, che non tardi, se non vuole che si perisca (v. 6cd). Questo celebre testo è posto anche all’inizio dell’officiatura delle sante Ore.
Canto all’Evangelo Mt 4,4b
Alleluia, alleluia.
Non di solo pane vivrà l’uomo,
ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio.
Alleluia.
Nell’alleluia all’Evangelo la citazione di Mt 4,4b. (tratta da Dt 8,3 e usata già nella all’Evangelo della Domenica I di Quaresima) dà tono a tutta la celebrazione di oggi. Letta nel contesto dell’Evangelo di oggi, ne dà l’orientamento, accentuando il senso forte della Parola Pane, «il Corpo di Cristo che si mangia ascoltando» (i Padri), il Cibo divino sempre indispensabile, ma tanto più nella tensione spirituale di quanti cercano e sperimentano la tenerezza e la misericordia di Dio.
Il Signore dopo aver annunciato il Regno compie le opere del Regno e prepara così non solo israele ma anche noi all’incontro salvifico con il Padre.
Nella liturgia di questa Domenica troviamo il racconto della moltiplicazione dei pani secondo Matteo; nessun episodio prodigioso del ministero di Gesù è narrato con tanta unanimità1 e con tanta ricchezza di elementi non solo narrativi ma soprattutto cristologici, liturgici ed ecclesiologici. La presenza di sei racconti evangelici attesta l’importanza attribuita dalle prime comunità cristiane al miracolo della moltiplicazione dei pani, l’unico a cui Gesù abbia direttamente associato i discepoli. Ricordando l’avvenimento, la Chiesa vede in esso l’annuncio concreto della redenzione, la profezia di ciò che dovrà compiersi attraverso la sua mediazione, quando sarà incaricata a sua volta di offrire la Parola e il Pane all’umanità. Dopo il discorso in parabole, che lasciava intuire il fallimento della predicazione di Gesù presso Israele, il nuovo Mose tenta un ultimo sforzo per far vedere al popolo eletto che Dio è sempre capace, come un tempo nel deserto, di saziare la sua fame sostanziale e di farlo diventare un popolo strutturato dalla fede. L’ordine dato da Gesù ai discepoli riassume in maniera molto significativa quella che sarà, in seguito, la loro funzione specifica in seno alla chiesa: «Date loro voi stessi da mangiare» (Mt 14,16). In un primo momento, essi hanno creduto di poter scaricare su altri il compito di nutrire le folle affamate. Invece no, tocca a loro farlo, anche se devono riconoscere la propria impotenza, con i cinque pani e i due pesci che costituiscono tutte le loro magre provviste. A questo punto si svolge una vera liturgia, di cui Gesù è il centro, e i discepoli gli indispensabili collaboratori: la presentazione delle offerte, l’azione di grazie sui doni e la loro distribuzione alle folle. Nel deserto del mondo, la Chiesa non mancherà mai del pane eucaristico moltiplicato attraverso il ministero dei Dodici.
Tutti mangiano a sazietà, e si raccolgono dodici ceste di pezzi avanzati. Potenza delle mani umane che prolungano fino a noi la tenerezza di Dio! Basta aver fame e credere, per essere raggiunti da quel primo gesto di compassione e di condivisione.
Tutto il racconto evangelico è dunque indice della grande risonanza che questa singolare manifestazione dell’Onnipotenza e della divina liberalità del Salvatore ebbe nella Chiesa primitiva.
Se nelle intenzioni di Matteo c’è il desiderio di raccontare un miracolo storico del suo Maestro, tuttavia il gesto di Gesù non è semplicemente un trucco per far saltare fuori pani e pesci per 5.000 uomini.
Già agli occhi dei testimoni di allora il gesto di Gesù è stato capito in un contesto religioso: esso rivela chi è Gesù che sta attuando il banchetto messianico promesso per gli ultimi tempi. Gesù si presenta come il vero pastore predetto da Ezechiele, che porta a compimento la promessa: «andrò in cerca, della pecora smarrita, pascerò quella ferita e curerò quella malata» (Ez 34,16).
Qui Gesù si prende cura della gente che lo segue e lo ascolta; infatti, nel brano di Matteo, questo prodigio va inteso primariamente come fatto miracoloso che Gesù compie a livello umano per soccorrere e soddisfare la fame della folla. Ma, posto nel contesto dell’ansiosa ricerca del Signore da parte della folla, e nell’ascolto della sua Parola, l’episodio acquista un significato più universale e a più alti livelli.
La prima lettura tratta dal libro della consolazione (Is 40-55), comunemente chiamato Secondo-Isaia, riporta un poema con cui rinnova l’invito all’ascolto, alla fiducia e alla conversione. I primi versetti di questo testo poetico (Is 55,1-3) contengono una fine elaborazione metaforica, in cui si passa con garbo e disinvoltura dall’immagine del cibo al significato della Parola. Per tale esplicita correlazione fra il mangiare materiale e il mangiare spirituale (cioè ascoltare e assimilare) questa pericope è stata per questo scelta dalla liturgia come opportuna preparazione al racconto evangelico.
Anche la preghiera del salmo responsoriale ci guida nella comprensione orante della pericope evangelica: «Apri la tua mano, Signore, e sazia ogni vivente».
Il Salmo 144 (145), già incontrato nella XIV domenica e ricorrente ancora nella XXV, è un canto alfabetico, antologia di altri salmi, composizione tipicamente liturgica: potremmo perciò definirlo «l’ABC della lode». Fra tutti i temi presenti, nella seconda strofa liturgica emerge e si impone il motivo che lo lega strettamente alle letture odierne: la fame dell’uomo, saziata dall’intervento di Dio.
Il salmista contempla la bontà di Dio verso tutte le sue creature e un aspetto di tale bontà è visto proprio nell’offerta del cibo: è infatti tipico atteggiamento religioso il ringraziamento per il nutrimento che l’uomo ricava dal creato e attribuisce all’opera provvidente di Dio. Tuttavia, inserita nei contesto di queste letture, tale affermazione assume un significato più profondo e diventa una presentazione metaforica della relazione d’amore fra Dio e l’uomo.
Cantato come preghiera durante la celebrazione eucaristica, questo salmo diventa allora il grande ringraziamento per il dono della Parola e del Pane, diventa l’inno di lode dei cristiani riuniti per «ascoltare e vivere», saziati e soddisfatti dal Pane offerto dalla misericordia dello Sposo, convinti e contenti dell’amore divino inseparabilmente unito alla loro vita, autentico cibo che sazia il loro desiderio.
L’evangelista Matteo ha segnato la conclusione del discorso parabolico con la formula consueta (Mt 13,53) e quindi passa poi a raccontare i due eventi che precedono la pericope proposta in questa Domenica: due episodi di ostinato rifiuto, la cocciuta ostilità dei nazareni (13,54-58) e l’uccisione di Giovanni Battista per ordine di Erode (14,1-12). Proprio di fronte a questa totale chiusura che sta diventando pericolosa, Gesù abbandona la costa affollata del lago. Per la seconda volta il destino del Battista segna l’avvio di una tappa nuova nella missione del Cristo: all’inizio, dopo l’arresto di Giovanni, Gesù aveva lasciato la Giudea e si era ritirato in Galilea (4,12); ora dopo la sua uccisione Gesù lascia anche la Galilea e si ritira in un luogo isolato e desertico (14,13).
Nella sequenza degli avvenimenti di Matteo, la prima moltiplicazione dei pani segue la visione retrospettiva della morte di Giovanni il Battista, verificatasi anch’essa nel contesto di un banchetto. La giustapposizione del banchetto di Erode accanto al banchetto di Gesù è forte. Al banchetto di Erode c’è orgoglio e arroganza, macchinazioni, e perfino l’assassinio. Si tiene in una corte regale. Al banchetto di Gesù ci sono guarigioni, fiducia e condivisione. Si tiene in un «luogo deserto», un eremos, come il deserto nel quale l’antico Israele è stato nutrito con la manna.
Il fondamento storico della moltiplicazione dei pani e dei pesci è da sempre stato oggetto di controversie. Da una parte essa è riportata in tutti e quattro gli Evangeli e ben due volte in due di essi (Matteo e Marco), superando così la prova dell’attestazione multipla. Dall’altra parte i racconti contengono alcuni elementi carichi di spunti simbolici:
1. l’ambientazione nel deserto,
2. lo schema presentato da Eliseo in 2 Re 4,42-44,
3. l’assimilazione del linguaggio a quello dell’Ultima Cena e dell’Eucaristia,
4. il numero (dodici) di ceste degli avanzi.
C’è un qualche avvenimento dietro la narrazione simbolica ma di che natura era?
Le spiegazioni razionalistiche appaiono imbarazzate e superficiali. Secondo una di queste spiegazioni, Gesù avrebbe esortato la folla a spartire tra loro il cibo che i singoli individui avevano portato con sé; poi questo «miracolo» della spartizione sarebbe stato interpretato come un’azione miracolosa compiuta da Gesù. D’altra parte, prendere il racconto come una esatta descrizione di ciò che è veramente accaduto può indurre il lettore a farsi sfuggire il ricco simbolismo presente nel testo. Questo è probabilmente uno dei casi in cui non potremo mai essere assolutamente certi sull’avvenimento che si cela dietro il testo, ed è controproducente spendere tempo e fatica per cercare di scoprirlo.
La lettura attenta dell’Evangelo di Matteo ci mette in grado di notare due caratteristiche particolari in Mt 14,13-21:
1. il legame narrativo con il banchetto di Erode,
2. il tentativo di migliorare l’immagine dei discepoli di Gesù.
Contrapponendolo al banchetto di Erode Antipa con tutti i suoi comportamenti immorali che culminano nella morte di Giovanni il Battista, il banchetto presieduto da Gesù nel deserto risalta tanto più splendidamente. Attribuendo ai discepoli di Gesù un ruolo più positivo e facendoli obbedire di buon grado ai comandi di Gesù, Matteo porta avanti il suo progetto di voler migliorare il ritratto dei Dodici che ha trovato nella sua fonte, Marco.
Con tutto ciò, il tema centrale di Mt 14,13-21 rimane il banchetto presieduto da Gesù. Seguendo lo spunto di Marco, Matteo si premura di mettere il banchetto nel deserto in relazione con l’Ultima Cena e con l’Eucaristia praticata nella Chiesa. La storia è inoltre narrata in modo da metterla in relazione al cibo offerto da Dio a Israele nel deserto (erèmos) e alla miracolosa moltiplicazione dei pani di Eliseo per cento uomini. Altri sviluppi del tema del banchetto in Matteo (8,11-12; 22,1-10) portano il lettore oltre i confini del passato e dell’esperienza presente fino al banchetto che segnerà la pienezza del regno di Dio.
Esaminiamo il brano:
v. 13 «udito ciò»: Gesù ha udito della scellerata uccisione di Giovanni il Battista (14,1-12); non sono annotate reazioni, l’evangelista ce le lascia immaginare: orrore e sofferenza, ma anche ossequio al Disegno Divino.
Dove noi forse ci saremmo aspettati interventi liberatori violenti, troviamo invece un Gesù che parte su una barca e si ritira in disparte a meditare nel deserto.
«si ritirò in un luogo deserto»: in Mc (cfr. 6,31) questo bisogno è motivato dal desiderio di riposo avvertito dal maestro per se e per i suoi discepoli dopo un periodo di estenuante lavoro apostolico. Il “luogo deserto” è indicato da Luca nei pressi «di una città chiamata Betsàida» (Lc 9,10).
Il termine greco reso con «deserto» è eremos, che è affine al termine usato per il sostantivo «il deserto». Ma non dobbiamo immaginarci un vero deserto, poiché il luogo si trova in riva al Mare di Galilea e sul posto c’è dell’erba (v. 19). Tuttavia, la presenza del vocabolo eremos implica l’allusione alle peregrinazioni dell’antico Israele nel deserto e al cibo procuratogli da Dio con la manna.
Leggendo ancora la pericope evangelica secondo Matteo, il collegamento del racconto della moltiplicazione dei pani con l’episodio dell’uccisione di Giovanni ci spinge ad una sottolineatura ulteriore: l’evangelista infatti annota che, quando sa della fine del Battista, Gesù si allontana. È forse la reazione al forte dolore subito? È certamente una notizia tragica quella che ha colpito Gesù e che costituisce inoltre l’anticipo di quello che sta per capitare a lui. È dunque comprensibile che proprio in seguito a questa notizia Gesù si ritiri in un luogo desertico: evidentemente vuole stare un po’ solo. La folla però non accetta tanto facilmente questa separazione e, mossa da un certo entusiasmo, percorre a piedi la sponda del lago fino a giungere nella zona disabitata dell’attuale Golan, dove probabilmente si può collocare il presente episodio.
«lo seguì a piedi»: le folle camminano lungo la riva del lago e precedono i discepoli che fanno lo stesso tragitto in barca; ha luogo come una specie di esodo dai vari villaggi e un accorrere tumultuoso ed entusiastico.
Quando scende dalla barca, dopo aver attraversato il lago, convinto di raggiungere una zona desertica ed essere quindi isolato - perché quando si ha un dolore grande si ha voglia di stare soli - Gesù vede invece che c’è una grande folla di persone che hanno bisogno di lui. A tale vista, Gesù prova compassione, sente cioè, come dice il tipico verbo greco adoperato (esplanchnisthe), muoversi le “viscere materne” (in greco: splànchnà). La stessa espressione Matteo l’aveva adoperata nella cornice introduttiva al discorso missionario (9,36): come in quell’occasione tale sentimento aveva portato alla chiamata e alla missione dei Dodici per venire in aiuto alla folla stanca e sfinita, simile a pecore senza pastore, così in questo caso Gesù compie verso la grande folla due gesti di spontanea e gratuita generosità, guarisce i malati e nutre tutti i presenti.
v. 14 «sceso... vide... ebbe compassione... guarì»: Matteo tralascia il motivo della compassione di Gesù, che secondo Mc 6,34 è «perché erano come pecore senza pastore» (cf Nm 27,17; 1 Re 22,17; Ez 34,5-6).
Il primo atteggiamento di Gesù di fronte alla folla è quello della compassione (in gr. .): le viscere materne di un buon pastore, che non esige dalla pecora malata che cammini come una sana; Gesù infatti sana tutti e in questa circostanza non esige una dichiarazione di fede.
Del resto non era già fede l’averlo seguito nel deserto senza altra preoccupazione che l’ascolto della sua Parola? Commentando questo versetto San Girolamo ebbe a scrivere2: «Il Signore stava nel deserto e le folle lo seguivano, abbandonando le loro città, cioè le loro antiche abitudini e le varie loro credenze religiose. Il fatto che Gesù scende dalla barca, significa che le folle avevano certamente la volontà di andare da lui, ma non le forze necessarie per farlo; per questo il Salvatore scende dal luogo ove stava e va loro incontro, allo stesso modo che in un ‘altra parabola il padre corre incontro al figlio pentito (cfr. Lc 15,20). Vista la folla, ne ha compassione e cura i malati per dare alla fede sincera e piena subito il suo premio».
Questa guarigione collettiva, che fa degno preambolo alla narrazione prodigiosa, è ricordata con maggiori dettagli nella seconda relazione, dove si parla esplicitamente di «zoppi, storpi, ciechi, muti e molti altri infermi» (15,30).
La dichiarazione circa l’attività guaritrice di Gesù prende il posto dell’espressione di Mc 6,34: «e si mise a insegnare loro molte cose». Questo significa che, per Matteo, la folla segue Gesù più per la sua attività di guaritore che per ascoltare la sua dottrina.
Anche nel racconto giovanneo troviamo lo stesso motivo (cfr. Gv 6,2) usato proprio per mettere in evidenza l’onnipotenza e la benevola accondiscendenza di Gesù che sfocerà poi nella prodigiosa moltiplicazione.
v. 15 Il secondo gesto diventa ora il motivo dominante del racconto sia per la sua originalità sia per il grande valore simbolico che viene ad avere. Il versetto alleluiatico, riprendendo la formula profetica citata da Gesù, la pone quasi come titolo della pagina evangelica e la presenta come chiave di lettura: «Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4b). La citazione di Dt 8,3 viene integrata con una esplicitazione: ciò che esce dalla bocca di Dio è la Parola. Quindi l’attenzione è polarizzata sul tema sapienziale che propone la Parola di Dio come vero alimento, oggetto del desiderio di ogni persona saggia. Quindi il racconto del miracolo con cui Gesù nutre molte persone serve per richiamare la sua condizione di Parola di Dio fatta carne, capace di soddisfare la ricerca umana.
I vari richiami contenuti nella pericope ci consentono di interpretare il racconto della moltiplicazione ad almeno tre livelli:
1. nella Cena del Signore
2. nell’allusione alla manna
3. nella missione della Chiesa.
«Sul far della sera»: L’«ora» tarda è l’ora del pasto principale. Che il «luogo deserto» non sia un vero deserto è indicato dalla presenza di villaggi nella zona, nei quali la gente può trovare cibo da comprare.
Con la stessa espressione ha inizio il racconto dell’ultima Cena (26,20) che con l’episodio presente ha chiari contatti letterari e tematici.
Un livello di lettura è dunque alla luce della Cena del Signore. Del resto alcuni gesti hanno l’andatura solenne di un rito, del rito della Cena del Signore che si celebrava nella comunità cristiana, e come era stata celebrata nella cena pasquale di Gesù.
Ricordiamo che Gesù comanda di "sedersi sull’erba" (v. 19) o meglio di sdraiarsi3 sull’erba4 come nel pasto pasquale nel quale ci si sdraiava su lettuci; quindi Gesù prese i pani... pronunziò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli (v. 19).
Sono ancora i gesti di un rito; non a caso l’evangelista Giovanni riporta il discorso del «pane vivo» proprio dopo la narrazione di questo miracolo.
Il motivo dei pesci non è sviluppato da Matteo, perché non si trova corrispondenza nelle celebrazioni della Chiesa primitiva.
«Il luogo è deserto»: questa osservazione dei discepoli, oltre ad essere una realistica constatazione è un tacito richiamo dell’evangelista al prodigio classico della manna che sostentò il popolo eletto nel deserto, il cui ricordo era vivo nella tradizione biblica e giudaica (cfr. Sal 78,18-32; Sap 16,20; 4 Esdra 1,18).
Ecco un secondo livello di lettura fatto alla luce dell’Antico Testamento, dove oltre all’allusione della manna (cfr. Es 16) viene richiamato il miracolo della moltiplicazione dei 20 pani d’orzo con i quali il profeta Eliseo sfamò cento persone (cfr. 2 Re 4,42-44).
La superiorità del prodigio evangelico è data dalla proporzione di un pane per mille persone, mentre nel racconto veterotestamentario si ha soltanto quella di uno per cinque.
«congeda»: () è un imperativo aoristo positivo che ordina di dare inizio a un’azione nuova. Il luogo desertico ha richiamato il tema dell’esodo e l’offerta prodigiosa di cibo si avvicina strettamente all’antico dono delia manna. In questo contesto di prova e tentazione i discepoli sanno solo constatare un bisogno e un’impotenza: sarebbero pronti a delegare ad altri la soluzione del bisogno, lasciando che ognuno provveda per sé; Gesù invece propone che siano loro stessi a provvedere. Pur testimoni delle guarigioni i discepoli non prevedono il miracolo della moltiplicazione dei pani; sono ancora deboli nella loro fede. Essi parlavano così «perché ignoravano che le folle erano in procinto di scoprire, dopo l’abrogazione della lettera della Legge e la cessazione dei profeti, cibi straordinari e nuovi. Quanto a Gesù, considera quel ch’egli risponde ai discepoli, quasi gridando, e in un linguaggio chiaro: «Voi credete proprio che se si allontana da me, questa folla numerosa, bisognosa di cibo, ne troverà nei villaggi, piuttosto che presso di me, e negli agglomerati umani, non tanto quelli delle città, bensì quelli delle campagne, piuttosto che rimanendo in mia compagnia. Ma io vi dichiaro che di ciò che voi credete che essi abbiano bisogno, essi non ne hanno alcun bisogno, poiché non è necessario per loro andarsene; però ciò di cui, a vostro parere, essi non necessitano affatto, cioè di me - visto che credete che io sono incapace di nutrirli - è di quello, contrariamente alla vostra aspettativa, che essi hanno bisogno. Dunque, dal momento che, attraverso il mio insegnamento, vi ho resi capaci di dare, a coloro che ne difettano, il nutrimento spirituale, sta a voi dar da mangiare alle folle che mi hanno accompagnato (cfr. Mt 14,16): infatti voi possedete, poiché lo avete ricevuto da me, il potere di dar da mangiare alle folle e, se ne aveste tenuto conto, avreste capito che io posso nutrirli molto di più, e non avreste detto: "Congeda le folle, perché possano andare ad acquistarsi di che mangiare " (Mt 14,15»). [cfr. Origene, In Matth. 11,1].
v. 16 «Date loro voi stessi da mangiare»: un altro imperativo aoristo positivo.
Ecco un esempio della sapienza e della infinita pazienza di Dio: «ammirate come li invita e li conduce discretamente alla fede. Non afferma subito: Io darò da mangiare, perché ciò non sarebbe parso loro ammissibile, ma: “Non c’è bisogno che se ne vadano, date voi da mangiare loro” (Mt 14,16). E neppure dice: io do loro, ma «date voi» (cfr. Giovanni Crisostomo, In Matth . 49,ls.).
v. 17 «Non abbiamo...»: I discepoli lo considerano ancora soltanto come uomo, e neppure a queste parole si elevano più in alto, ma continuano a parlare con Gesù come se fosse soltanto tale, contestandogli: “Noi non abbiamo che cinque pani e due pesci” (Mt 14,17). Marco, a questo punto, riferisce che i discepoli non compresero quanto Gesù aveva loro detto, in quanto il loro cuore era indurito (cfr. Mc 8,17).
«cinque pani»: I1 pane era il cibo principale, spesso l’unico. “Mangiare del pane”, in ebraico, significa infatti “fare un pasto”. Il pane dei poveri era d’orzo, quello dei ricchi era di grano: lo si macinava con piccole mole di pietra, si impastava la farina con il lievito per farla “lievitare” (a meno che non si trattasse del pane azzimo per uso rituale) e lo si metteva a cuocere sulla brace. Data la forma schiacciata e sottile, il pane si spezzava, non si poteva tagliare.
Anche Gesù «prese il pane, lo spezzò...» (Mt 26,26). Avere pane in abbondanza è desiderio ancestrale di tutti, ma specialmente delle popolazioni più esposte ai rischi della carestia. Moltiplicare il pane era ritenuto una benedizione dei tempi messianici: i profeti l’avevano fatto in casi particolari, e quando Gesù moltiplicò i pani per una folla numerosa molti pensarono che doveva essere lui il profeta atteso (Gv 6,14-15).
Nei cinque pani e due pesci non si scorge nessun chiaro significato simbolico da attribuire ai numeri cinque e due. La presenza dei due pesci è sempre stata un rompicapo per quelli che sono alla ricerca del simbolismo. È stata interpretata in vari modi: come prova che i pesci facevano parte delle prime celebrazioni eucaristiche cristiane, come un sostituto delle quaglie con le quali Israele è stato nutrito nel deserto (Nm 11,31; Sap 19,12), o come parte del banchetto messianico (4 Esdra 6,52; 2 Baruc 29,4).
v. 18 «Portatemeli qua»: l’imperativo presente con cui è tradotto è dovuto solo alla preferenza di questo verbo perché rende il comando più delicato verso la persona cui ci si rivolge.
v. 19 «alzati gli occhi al cielo, recitò la benedizione»: Gesù svolge il ruolo del capofamiglia in un tipico pasto ebraico. La benedizione doveva essere la tradizionale benedizione ebraica prima dei pasti: «Benedetto sei tu, o Signore nostro Dio, re dell’universo, che fai scaturire il pane dalla terra».
La benedizione è seguita dallo spezzare il pane e dalla distribuzione dei pezzi. Il linguaggio usato qui prelude all’Ultima Cena (Mt 26,26).
«spezzò i pani»: Notare che, a differenza di Mc 6,41, qui non si fa nessun accenno alla distribuzione dei pesci, che pure sono stati appena nominati. La distribuzione da parte dei discepoli, secondo alcuni fa parte dell’anticipazione eucaristica presente nel racconto. Matteo rende esplicita la partecipazione dei discepoli nella distribuzione dei pani.
Il racconto matteano guarda indietro all’episodio di Eliseo, ma è anche formulato in modo da guardare in avanti all’Ultima Cena di Gesù e alla celebrazione cristiana dell’Eucaristia. D’altra parte i cristiani matteani molto probabilmente conoscevano bene il contenuto di Mt 26,26 grazie alle loro celebrazioni eucaristiche e perciò erano al corrente della dimensione eucaristica dell’episodio della moltiplicazione dei pani.
Lo sguardo in avanti del racconto matteano della moltiplicazione dei pani non si ferma all’Ultima Cena e all’Eucaristia, ma si spinge oltre alludendo al regno di Dio, nella pietà ebraica e cristiana raffigurato come un banchetto. Un ben noto esempio anticotestamentario di questo motivo è Is 25,6: «Il Signore degli eserciti preparerà su questo monte un banchetto di grasse vivande, per tutti i popoli, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati».
Questo motivo sembra anche essere stato il presupposto sul quale erano basati i pasti rituali della comunità di Qumran (vedi 1QS 6,4-5; lQSa 2,17-22); questi pasti erano intesi come anticipazioni del banchetto celeste nel regno di Dio. Il detto del banchetto in Mt 8,11-12 («molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli») e la parabola del banchetto in Mt 22,1-10 («Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio...») sono evidenti esempi matteani di questo motivo.
«li diede ai discepoli e questi alla folla»: questo particolare rivela l’intento ecclesiologico del racconto che mette l’accento sul ruolo dei discepoli (in questo episodio e nella vita della futura Chiesa) quali intermediari tra Gesù e la folla. Nella redazione di Matteo dunque le parole di Gesù («Date loro voi stessi da mangiare») e la procedura da lui seguita presentano inconfondibilmente un colorito ecclesiale. Egli diede i pani ai discepoli e i discepoli li distribuirono alla folla; i discepoli cioè sono mediatori fra Gesù e il popolo, sia in via ascendente (portano a Gesù la realtà bisognosa del popolo) sia in via discendente (distribuiscono alla folla il dono del Cristo, per saziarne la fame), Nei gesti dei discepoli dunque viene presentato il concreto modo della vita della Chiesa, in cui qualcuno si fa portatore del dono divino per gli altri.
I discepoli presentati in forma molto attiva ci danno lo spunto per il terzo livello di lettura, alla luce della missione della Chiesa. L’evangelista Matteo vede continuato quel loro compito nei ministri della Chiesa che distribuiscono ai credenti il pane della Parola e dell’Eucarestia.
Il modello biblico per la moltiplicazione dei pani fatta da Gesù è offerto da 2 Re 4,42-44. Il profeta Eliseo ordina al suo servo di mettere venti pani d’orzo e un sacco di grano davanti a cento uomini. Il servo dapprima protesta, ma poi esegue l’ordine del profeta. Tutti mangiano e ne rimangono perfino degli avanzi:
«Da Baal-Salisa venne un individuo che offrì primizie all’uomo di Dio, venti pani d’orzo e farro che aveva nella bisaccia. Eliseo disse: «Dallo da mangiare alla gente». Ma colui che serviva disse: «Come posso mettere questo davanti a cento persone?». Quegli replicò: «Dallo da mangiare alla gente. Poiché così dice il Signore: "Ne mangeranno e ne avanzerà anche"». Lo pose davanti a quelli, che mangiarono, e ne avanzò, secondo la parola del Signore».
Notiamo alcuni evidenti paralleli tra 2 Re 4,42-44 e Mt 14,13-21:
1. la modica quantità di cibo disponibile,
2. lo scetticismo e le proteste del servo e dei discepoli di Gesù,
3. l’abbondanza di cibo offerta a un gran numero di commensali,
4. la sorprendente quantità di cibo avanzato.
I commensali del racconto matteano sono ovviamente molto più numerosi di quelli del testo anticotestamentario, il che sta ad indicare una certa superiorità da parte di Gesù.
v. 20 «mangiarono e furono saziati»: la sovrabbondanza è una caratteristica dei beni messianici promessi al popolo eletto (cfr. Dt 6,11; Is 49,10; 65,10; Sal 132,15). Questa potrebbe essere anche un’allusione a Dt 8,10 («Mangerai dunque a sazietà e benedirai il Signore Dio tuo»), anche se il termine usato da Mt/Mc per «sazietà» non corrisponde a quello dei Settanta.
«dodici ceste»: Il termine greco kophinos indica un grosso e pesante cesto fatto di vimini. Giovenale (Satire 3.14; 6.542) usa il termine in latino per indicare i cesti usati dai Giudei per trasportare il cibo. Al numero «dodici» viene generalmente riconosciuta una valenza simbolica associata alle dodici tribù d’Israele.
Anche in questo particolare è chiaro l’interesse ecclesiologico di Matteo che presenta i «dodici» Apostoli, ciascuno dei quali ha in serbo un proprio cesto col pane avanzato (non sono le briciole o i pezzi sbocconcellati, ma pani interi) della mensa di Cristo, che a suo tempo sarà disponibile per il sostentamento della Chiesa.
Antifona alla Comunione Sap 16,20
Ci hai mandato, Signore, un pane dal cielo,
un pane che porta in sé ogni dolcezza
e soddisfa ogni desiderio.
La Chiesa ancora continua questa “moltiplicazione” prodigiosa nel mondo tra le nazioni. Questo è l’unico miracolo che sa ancora e sempre fare nella Potenza dello Spirito Santo che in essa dimora. L’Antifona alla comunione (Sap 16,20bc) rilegge l’evento verificatosi nell’esodo, di cui fa anamnesi grata. Allora il Signore fece discendere la manna dal cielo (Sal 77,24; 104,40; e Gv 6,31, che ne offre il commento), come dono al suo popolo Israele (Es 16,13-14; Num 11,7). Questo pane, la manna, allora si adattava al gusto di ciascuno, era ricolmo d’ogni dolcezza (Es 16,31; Num 11,8; 21,5), portava ogni sazietà. Questa anticipazione si verifica anche «oggi qui» per i fedeli, sotto la forma dell’adempimento, nel Convito dell’altare, della Parola e dei santi Segni, che forma l’unità della Chiesa. È la Grazia divina che discende dal cielo, moltiplicata dalle mani dei discepoli del Signore, e che procura la Vita eterna. Il mandato del Signore di «raccogliere e spezzare» e distribuire prosegue, sempre attuato.
v. 21 «cinquemila senza contare le donne e i bambini »: Il numero ha il facile significato di una grande moltitudine, mentre l’esclusione delle donne e dei bambini dal computo dei partecipanti al banchetto preparato prodigiosamente da Gesù nel deserto rispecchia lo stesso criterio di censimento del popolo eletto considerato come un esercito accampato nel deserto (cfr. Es 18,25; Nm 31,14).
Marco fa l’esplicita menzione dei gruppi di cento e cinquanta (6,40). Anche nei testi di Qumràn si parla dell’esercito dei «figli della luce» divisi in vari gruppi, da cui sono esplicitamente escluse le donne con i bambini.
L’episodio della moltiplicazione dei pani ci offre il modo di legare l’esperienza umana della condivisione allo sfondo biblico e alle speranze future del popolo di Dio.
Questo legame offre la base teologica (seria!...) per poter afferrare i molteplici aspetti del mistero dell’Eucaristia. La Santa Scrittura proviene dalla Vita divina stessa come dalla Fonte di infinita ed inesauribile supereffluenza e vuole portare gli uomini a vivere la pienezza divinizzante. La condizione è accettare il Signore Gesù Cristo che lo Spirito Santo del Padre rende presente con il Cibo divino. Vera indicibile Parousìa, la Presenza perenne, ma solo se accettata!
Fuori da “speculazioni spiritualiste” ci sostiene anche il pensiero dei Padri, facilmente constatabile, dove la comunione eucaristica, anche molto pia, non è intesa come grazia, in un certo senso fine a se stessa, ordinata alla generica santificazione personale del fedele ma come violenta, totalizzante, trasformante salita, consapevole perchè già annunziata dalla Parola, all’unione nuziale consumante con Lui, il Signore, lo Sposo dell’amore nuziale unitivo e consumante.
Con tutte le sue Realtà divine portate dalla sua Parola, consegnataci sin dall’origine Gesù, il Signore, il Risorto, vuole, da noi suoi fedeli, essere amato e conosciuto nel Padre con lo Spirito Santo.
II Colletta
O Dio, che nella compassione del tuo Figlio
verso i poveri e i sofferenti
manifesti la tua bontà paterna,
fa’ che il pane moltiplicato dalla tua provvidenza
sia spezzato nella carità,
e la comunione ai tuoi santi misteri
ci apra al dialogo e al servizio
verso tutti gli uomini.
Per il nostro Signore Gesù Cristo...
lunedì 28 luglio 2014
Abbazia Santa Maria di Pulsano
Mt 14,13-21; Is 55,1-3; Sal 144; Rm 8,35.37-39
Antifona d’Ingresso Sal 69,2.6cd
O Dio, vieni a salvarmi.
Signore, vieni presto, in mio aiuto.
Sei tu il mio soccorso, la mia salvezza:
Signore, non tardare.
All’inizio di questa celebrazione l’Orante dell’antifona d’ingresso (tratta dal Sal 69,2.6cd, SI) aiuta a pregare degnamente, chiedendo con due epiclesi parallele che il Signore si appresti ad intervenire in soccorso, anzi che si affretti ad aiutare (v. 2; cfr v. 6; 30,3; 68,18; Mt 8,5). Le necessità dei suoi fedeli anzi sono così urgenti, che l’Orante reitera l’epiclesi per la Presenza, chiedendo al Signore, l’unico Soccorso e l’unico Liberatore, che non tardi, se non vuole che si perisca (v. 6cd). Questo celebre testo è posto anche all’inizio dell’officiatura delle sante Ore.
Canto all’Evangelo Mt 4,4b
Alleluia, alleluia.
Non di solo pane vivrà l’uomo,
ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio.
Alleluia.
Nell’alleluia all’Evangelo la citazione di Mt 4,4b. (tratta da Dt 8,3 e usata già nella all’Evangelo della Domenica I di Quaresima) dà tono a tutta la celebrazione di oggi. Letta nel contesto dell’Evangelo di oggi, ne dà l’orientamento, accentuando il senso forte della Parola Pane, «il Corpo di Cristo che si mangia ascoltando» (i Padri), il Cibo divino sempre indispensabile, ma tanto più nella tensione spirituale di quanti cercano e sperimentano la tenerezza e la misericordia di Dio.
Il Signore dopo aver annunciato il Regno compie le opere del Regno e prepara così non solo israele ma anche noi all’incontro salvifico con il Padre.
Nella liturgia di questa Domenica troviamo il racconto della moltiplicazione dei pani secondo Matteo; nessun episodio prodigioso del ministero di Gesù è narrato con tanta unanimità1 e con tanta ricchezza di elementi non solo narrativi ma soprattutto cristologici, liturgici ed ecclesiologici. La presenza di sei racconti evangelici attesta l’importanza attribuita dalle prime comunità cristiane al miracolo della moltiplicazione dei pani, l’unico a cui Gesù abbia direttamente associato i discepoli. Ricordando l’avvenimento, la Chiesa vede in esso l’annuncio concreto della redenzione, la profezia di ciò che dovrà compiersi attraverso la sua mediazione, quando sarà incaricata a sua volta di offrire la Parola e il Pane all’umanità. Dopo il discorso in parabole, che lasciava intuire il fallimento della predicazione di Gesù presso Israele, il nuovo Mose tenta un ultimo sforzo per far vedere al popolo eletto che Dio è sempre capace, come un tempo nel deserto, di saziare la sua fame sostanziale e di farlo diventare un popolo strutturato dalla fede. L’ordine dato da Gesù ai discepoli riassume in maniera molto significativa quella che sarà, in seguito, la loro funzione specifica in seno alla chiesa: «Date loro voi stessi da mangiare» (Mt 14,16). In un primo momento, essi hanno creduto di poter scaricare su altri il compito di nutrire le folle affamate. Invece no, tocca a loro farlo, anche se devono riconoscere la propria impotenza, con i cinque pani e i due pesci che costituiscono tutte le loro magre provviste. A questo punto si svolge una vera liturgia, di cui Gesù è il centro, e i discepoli gli indispensabili collaboratori: la presentazione delle offerte, l’azione di grazie sui doni e la loro distribuzione alle folle. Nel deserto del mondo, la Chiesa non mancherà mai del pane eucaristico moltiplicato attraverso il ministero dei Dodici.
Tutti mangiano a sazietà, e si raccolgono dodici ceste di pezzi avanzati. Potenza delle mani umane che prolungano fino a noi la tenerezza di Dio! Basta aver fame e credere, per essere raggiunti da quel primo gesto di compassione e di condivisione.
Tutto il racconto evangelico è dunque indice della grande risonanza che questa singolare manifestazione dell’Onnipotenza e della divina liberalità del Salvatore ebbe nella Chiesa primitiva.
Se nelle intenzioni di Matteo c’è il desiderio di raccontare un miracolo storico del suo Maestro, tuttavia il gesto di Gesù non è semplicemente un trucco per far saltare fuori pani e pesci per 5.000 uomini.
Già agli occhi dei testimoni di allora il gesto di Gesù è stato capito in un contesto religioso: esso rivela chi è Gesù che sta attuando il banchetto messianico promesso per gli ultimi tempi. Gesù si presenta come il vero pastore predetto da Ezechiele, che porta a compimento la promessa: «andrò in cerca, della pecora smarrita, pascerò quella ferita e curerò quella malata» (Ez 34,16).
Qui Gesù si prende cura della gente che lo segue e lo ascolta; infatti, nel brano di Matteo, questo prodigio va inteso primariamente come fatto miracoloso che Gesù compie a livello umano per soccorrere e soddisfare la fame della folla. Ma, posto nel contesto dell’ansiosa ricerca del Signore da parte della folla, e nell’ascolto della sua Parola, l’episodio acquista un significato più universale e a più alti livelli.
La prima lettura tratta dal libro della consolazione (Is 40-55), comunemente chiamato Secondo-Isaia, riporta un poema con cui rinnova l’invito all’ascolto, alla fiducia e alla conversione. I primi versetti di questo testo poetico (Is 55,1-3) contengono una fine elaborazione metaforica, in cui si passa con garbo e disinvoltura dall’immagine del cibo al significato della Parola. Per tale esplicita correlazione fra il mangiare materiale e il mangiare spirituale (cioè ascoltare e assimilare) questa pericope è stata per questo scelta dalla liturgia come opportuna preparazione al racconto evangelico.
Anche la preghiera del salmo responsoriale ci guida nella comprensione orante della pericope evangelica: «Apri la tua mano, Signore, e sazia ogni vivente».
Il Salmo 144 (145), già incontrato nella XIV domenica e ricorrente ancora nella XXV, è un canto alfabetico, antologia di altri salmi, composizione tipicamente liturgica: potremmo perciò definirlo «l’ABC della lode». Fra tutti i temi presenti, nella seconda strofa liturgica emerge e si impone il motivo che lo lega strettamente alle letture odierne: la fame dell’uomo, saziata dall’intervento di Dio.
Il salmista contempla la bontà di Dio verso tutte le sue creature e un aspetto di tale bontà è visto proprio nell’offerta del cibo: è infatti tipico atteggiamento religioso il ringraziamento per il nutrimento che l’uomo ricava dal creato e attribuisce all’opera provvidente di Dio. Tuttavia, inserita nei contesto di queste letture, tale affermazione assume un significato più profondo e diventa una presentazione metaforica della relazione d’amore fra Dio e l’uomo.
Cantato come preghiera durante la celebrazione eucaristica, questo salmo diventa allora il grande ringraziamento per il dono della Parola e del Pane, diventa l’inno di lode dei cristiani riuniti per «ascoltare e vivere», saziati e soddisfatti dal Pane offerto dalla misericordia dello Sposo, convinti e contenti dell’amore divino inseparabilmente unito alla loro vita, autentico cibo che sazia il loro desiderio.
L’evangelista Matteo ha segnato la conclusione del discorso parabolico con la formula consueta (Mt 13,53) e quindi passa poi a raccontare i due eventi che precedono la pericope proposta in questa Domenica: due episodi di ostinato rifiuto, la cocciuta ostilità dei nazareni (13,54-58) e l’uccisione di Giovanni Battista per ordine di Erode (14,1-12). Proprio di fronte a questa totale chiusura che sta diventando pericolosa, Gesù abbandona la costa affollata del lago. Per la seconda volta il destino del Battista segna l’avvio di una tappa nuova nella missione del Cristo: all’inizio, dopo l’arresto di Giovanni, Gesù aveva lasciato la Giudea e si era ritirato in Galilea (4,12); ora dopo la sua uccisione Gesù lascia anche la Galilea e si ritira in un luogo isolato e desertico (14,13).
Nella sequenza degli avvenimenti di Matteo, la prima moltiplicazione dei pani segue la visione retrospettiva della morte di Giovanni il Battista, verificatasi anch’essa nel contesto di un banchetto. La giustapposizione del banchetto di Erode accanto al banchetto di Gesù è forte. Al banchetto di Erode c’è orgoglio e arroganza, macchinazioni, e perfino l’assassinio. Si tiene in una corte regale. Al banchetto di Gesù ci sono guarigioni, fiducia e condivisione. Si tiene in un «luogo deserto», un eremos, come il deserto nel quale l’antico Israele è stato nutrito con la manna.
Il fondamento storico della moltiplicazione dei pani e dei pesci è da sempre stato oggetto di controversie. Da una parte essa è riportata in tutti e quattro gli Evangeli e ben due volte in due di essi (Matteo e Marco), superando così la prova dell’attestazione multipla. Dall’altra parte i racconti contengono alcuni elementi carichi di spunti simbolici:
1. l’ambientazione nel deserto,
2. lo schema presentato da Eliseo in 2 Re 4,42-44,
3. l’assimilazione del linguaggio a quello dell’Ultima Cena e dell’Eucaristia,
4. il numero (dodici) di ceste degli avanzi.
C’è un qualche avvenimento dietro la narrazione simbolica ma di che natura era?
Le spiegazioni razionalistiche appaiono imbarazzate e superficiali. Secondo una di queste spiegazioni, Gesù avrebbe esortato la folla a spartire tra loro il cibo che i singoli individui avevano portato con sé; poi questo «miracolo» della spartizione sarebbe stato interpretato come un’azione miracolosa compiuta da Gesù. D’altra parte, prendere il racconto come una esatta descrizione di ciò che è veramente accaduto può indurre il lettore a farsi sfuggire il ricco simbolismo presente nel testo. Questo è probabilmente uno dei casi in cui non potremo mai essere assolutamente certi sull’avvenimento che si cela dietro il testo, ed è controproducente spendere tempo e fatica per cercare di scoprirlo.
La lettura attenta dell’Evangelo di Matteo ci mette in grado di notare due caratteristiche particolari in Mt 14,13-21:
1. il legame narrativo con il banchetto di Erode,
2. il tentativo di migliorare l’immagine dei discepoli di Gesù.
Contrapponendolo al banchetto di Erode Antipa con tutti i suoi comportamenti immorali che culminano nella morte di Giovanni il Battista, il banchetto presieduto da Gesù nel deserto risalta tanto più splendidamente. Attribuendo ai discepoli di Gesù un ruolo più positivo e facendoli obbedire di buon grado ai comandi di Gesù, Matteo porta avanti il suo progetto di voler migliorare il ritratto dei Dodici che ha trovato nella sua fonte, Marco.
Con tutto ciò, il tema centrale di Mt 14,13-21 rimane il banchetto presieduto da Gesù. Seguendo lo spunto di Marco, Matteo si premura di mettere il banchetto nel deserto in relazione con l’Ultima Cena e con l’Eucaristia praticata nella Chiesa. La storia è inoltre narrata in modo da metterla in relazione al cibo offerto da Dio a Israele nel deserto (erèmos) e alla miracolosa moltiplicazione dei pani di Eliseo per cento uomini. Altri sviluppi del tema del banchetto in Matteo (8,11-12; 22,1-10) portano il lettore oltre i confini del passato e dell’esperienza presente fino al banchetto che segnerà la pienezza del regno di Dio.
Esaminiamo il brano:
v. 13 «udito ciò»: Gesù ha udito della scellerata uccisione di Giovanni il Battista (14,1-12); non sono annotate reazioni, l’evangelista ce le lascia immaginare: orrore e sofferenza, ma anche ossequio al Disegno Divino.
Dove noi forse ci saremmo aspettati interventi liberatori violenti, troviamo invece un Gesù che parte su una barca e si ritira in disparte a meditare nel deserto.
«si ritirò in un luogo deserto»: in Mc (cfr. 6,31) questo bisogno è motivato dal desiderio di riposo avvertito dal maestro per se e per i suoi discepoli dopo un periodo di estenuante lavoro apostolico. Il “luogo deserto” è indicato da Luca nei pressi «di una città chiamata Betsàida» (Lc 9,10).
Il termine greco reso con «deserto» è eremos, che è affine al termine usato per il sostantivo «il deserto». Ma non dobbiamo immaginarci un vero deserto, poiché il luogo si trova in riva al Mare di Galilea e sul posto c’è dell’erba (v. 19). Tuttavia, la presenza del vocabolo eremos implica l’allusione alle peregrinazioni dell’antico Israele nel deserto e al cibo procuratogli da Dio con la manna.
Leggendo ancora la pericope evangelica secondo Matteo, il collegamento del racconto della moltiplicazione dei pani con l’episodio dell’uccisione di Giovanni ci spinge ad una sottolineatura ulteriore: l’evangelista infatti annota che, quando sa della fine del Battista, Gesù si allontana. È forse la reazione al forte dolore subito? È certamente una notizia tragica quella che ha colpito Gesù e che costituisce inoltre l’anticipo di quello che sta per capitare a lui. È dunque comprensibile che proprio in seguito a questa notizia Gesù si ritiri in un luogo desertico: evidentemente vuole stare un po’ solo. La folla però non accetta tanto facilmente questa separazione e, mossa da un certo entusiasmo, percorre a piedi la sponda del lago fino a giungere nella zona disabitata dell’attuale Golan, dove probabilmente si può collocare il presente episodio.
«lo seguì a piedi»: le folle camminano lungo la riva del lago e precedono i discepoli che fanno lo stesso tragitto in barca; ha luogo come una specie di esodo dai vari villaggi e un accorrere tumultuoso ed entusiastico.
Quando scende dalla barca, dopo aver attraversato il lago, convinto di raggiungere una zona desertica ed essere quindi isolato - perché quando si ha un dolore grande si ha voglia di stare soli - Gesù vede invece che c’è una grande folla di persone che hanno bisogno di lui. A tale vista, Gesù prova compassione, sente cioè, come dice il tipico verbo greco adoperato (esplanchnisthe), muoversi le “viscere materne” (in greco: splànchnà). La stessa espressione Matteo l’aveva adoperata nella cornice introduttiva al discorso missionario (9,36): come in quell’occasione tale sentimento aveva portato alla chiamata e alla missione dei Dodici per venire in aiuto alla folla stanca e sfinita, simile a pecore senza pastore, così in questo caso Gesù compie verso la grande folla due gesti di spontanea e gratuita generosità, guarisce i malati e nutre tutti i presenti.
v. 14 «sceso... vide... ebbe compassione... guarì»: Matteo tralascia il motivo della compassione di Gesù, che secondo Mc 6,34 è «perché erano come pecore senza pastore» (cf Nm 27,17; 1 Re 22,17; Ez 34,5-6).
Il primo atteggiamento di Gesù di fronte alla folla è quello della compassione (in gr. .): le viscere materne di un buon pastore, che non esige dalla pecora malata che cammini come una sana; Gesù infatti sana tutti e in questa circostanza non esige una dichiarazione di fede.
Del resto non era già fede l’averlo seguito nel deserto senza altra preoccupazione che l’ascolto della sua Parola? Commentando questo versetto San Girolamo ebbe a scrivere2: «Il Signore stava nel deserto e le folle lo seguivano, abbandonando le loro città, cioè le loro antiche abitudini e le varie loro credenze religiose. Il fatto che Gesù scende dalla barca, significa che le folle avevano certamente la volontà di andare da lui, ma non le forze necessarie per farlo; per questo il Salvatore scende dal luogo ove stava e va loro incontro, allo stesso modo che in un ‘altra parabola il padre corre incontro al figlio pentito (cfr. Lc 15,20). Vista la folla, ne ha compassione e cura i malati per dare alla fede sincera e piena subito il suo premio».
Questa guarigione collettiva, che fa degno preambolo alla narrazione prodigiosa, è ricordata con maggiori dettagli nella seconda relazione, dove si parla esplicitamente di «zoppi, storpi, ciechi, muti e molti altri infermi» (15,30).
La dichiarazione circa l’attività guaritrice di Gesù prende il posto dell’espressione di Mc 6,34: «e si mise a insegnare loro molte cose». Questo significa che, per Matteo, la folla segue Gesù più per la sua attività di guaritore che per ascoltare la sua dottrina.
Anche nel racconto giovanneo troviamo lo stesso motivo (cfr. Gv 6,2) usato proprio per mettere in evidenza l’onnipotenza e la benevola accondiscendenza di Gesù che sfocerà poi nella prodigiosa moltiplicazione.
v. 15 Il secondo gesto diventa ora il motivo dominante del racconto sia per la sua originalità sia per il grande valore simbolico che viene ad avere. Il versetto alleluiatico, riprendendo la formula profetica citata da Gesù, la pone quasi come titolo della pagina evangelica e la presenta come chiave di lettura: «Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4b). La citazione di Dt 8,3 viene integrata con una esplicitazione: ciò che esce dalla bocca di Dio è la Parola. Quindi l’attenzione è polarizzata sul tema sapienziale che propone la Parola di Dio come vero alimento, oggetto del desiderio di ogni persona saggia. Quindi il racconto del miracolo con cui Gesù nutre molte persone serve per richiamare la sua condizione di Parola di Dio fatta carne, capace di soddisfare la ricerca umana.
I vari richiami contenuti nella pericope ci consentono di interpretare il racconto della moltiplicazione ad almeno tre livelli:
1. nella Cena del Signore
2. nell’allusione alla manna
3. nella missione della Chiesa.
«Sul far della sera»: L’«ora» tarda è l’ora del pasto principale. Che il «luogo deserto» non sia un vero deserto è indicato dalla presenza di villaggi nella zona, nei quali la gente può trovare cibo da comprare.
Con la stessa espressione ha inizio il racconto dell’ultima Cena (26,20) che con l’episodio presente ha chiari contatti letterari e tematici.
Un livello di lettura è dunque alla luce della Cena del Signore. Del resto alcuni gesti hanno l’andatura solenne di un rito, del rito della Cena del Signore che si celebrava nella comunità cristiana, e come era stata celebrata nella cena pasquale di Gesù.
Ricordiamo che Gesù comanda di "sedersi sull’erba" (v. 19) o meglio di sdraiarsi3 sull’erba4 come nel pasto pasquale nel quale ci si sdraiava su lettuci; quindi Gesù prese i pani... pronunziò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli (v. 19).
Sono ancora i gesti di un rito; non a caso l’evangelista Giovanni riporta il discorso del «pane vivo» proprio dopo la narrazione di questo miracolo.
Il motivo dei pesci non è sviluppato da Matteo, perché non si trova corrispondenza nelle celebrazioni della Chiesa primitiva.
«Il luogo è deserto»: questa osservazione dei discepoli, oltre ad essere una realistica constatazione è un tacito richiamo dell’evangelista al prodigio classico della manna che sostentò il popolo eletto nel deserto, il cui ricordo era vivo nella tradizione biblica e giudaica (cfr. Sal 78,18-32; Sap 16,20; 4 Esdra 1,18).
Ecco un secondo livello di lettura fatto alla luce dell’Antico Testamento, dove oltre all’allusione della manna (cfr. Es 16) viene richiamato il miracolo della moltiplicazione dei 20 pani d’orzo con i quali il profeta Eliseo sfamò cento persone (cfr. 2 Re 4,42-44).
La superiorità del prodigio evangelico è data dalla proporzione di un pane per mille persone, mentre nel racconto veterotestamentario si ha soltanto quella di uno per cinque.
«congeda»: () è un imperativo aoristo positivo che ordina di dare inizio a un’azione nuova. Il luogo desertico ha richiamato il tema dell’esodo e l’offerta prodigiosa di cibo si avvicina strettamente all’antico dono delia manna. In questo contesto di prova e tentazione i discepoli sanno solo constatare un bisogno e un’impotenza: sarebbero pronti a delegare ad altri la soluzione del bisogno, lasciando che ognuno provveda per sé; Gesù invece propone che siano loro stessi a provvedere. Pur testimoni delle guarigioni i discepoli non prevedono il miracolo della moltiplicazione dei pani; sono ancora deboli nella loro fede. Essi parlavano così «perché ignoravano che le folle erano in procinto di scoprire, dopo l’abrogazione della lettera della Legge e la cessazione dei profeti, cibi straordinari e nuovi. Quanto a Gesù, considera quel ch’egli risponde ai discepoli, quasi gridando, e in un linguaggio chiaro: «Voi credete proprio che se si allontana da me, questa folla numerosa, bisognosa di cibo, ne troverà nei villaggi, piuttosto che presso di me, e negli agglomerati umani, non tanto quelli delle città, bensì quelli delle campagne, piuttosto che rimanendo in mia compagnia. Ma io vi dichiaro che di ciò che voi credete che essi abbiano bisogno, essi non ne hanno alcun bisogno, poiché non è necessario per loro andarsene; però ciò di cui, a vostro parere, essi non necessitano affatto, cioè di me - visto che credete che io sono incapace di nutrirli - è di quello, contrariamente alla vostra aspettativa, che essi hanno bisogno. Dunque, dal momento che, attraverso il mio insegnamento, vi ho resi capaci di dare, a coloro che ne difettano, il nutrimento spirituale, sta a voi dar da mangiare alle folle che mi hanno accompagnato (cfr. Mt 14,16): infatti voi possedete, poiché lo avete ricevuto da me, il potere di dar da mangiare alle folle e, se ne aveste tenuto conto, avreste capito che io posso nutrirli molto di più, e non avreste detto: "Congeda le folle, perché possano andare ad acquistarsi di che mangiare " (Mt 14,15»). [cfr. Origene, In Matth. 11,1].
v. 16 «Date loro voi stessi da mangiare»: un altro imperativo aoristo positivo.
Ecco un esempio della sapienza e della infinita pazienza di Dio: «ammirate come li invita e li conduce discretamente alla fede. Non afferma subito: Io darò da mangiare, perché ciò non sarebbe parso loro ammissibile, ma: “Non c’è bisogno che se ne vadano, date voi da mangiare loro” (Mt 14,16). E neppure dice: io do loro, ma «date voi» (cfr. Giovanni Crisostomo, In Matth . 49,ls.).
v. 17 «Non abbiamo...»: I discepoli lo considerano ancora soltanto come uomo, e neppure a queste parole si elevano più in alto, ma continuano a parlare con Gesù come se fosse soltanto tale, contestandogli: “Noi non abbiamo che cinque pani e due pesci” (Mt 14,17). Marco, a questo punto, riferisce che i discepoli non compresero quanto Gesù aveva loro detto, in quanto il loro cuore era indurito (cfr. Mc 8,17).
«cinque pani»: I1 pane era il cibo principale, spesso l’unico. “Mangiare del pane”, in ebraico, significa infatti “fare un pasto”. Il pane dei poveri era d’orzo, quello dei ricchi era di grano: lo si macinava con piccole mole di pietra, si impastava la farina con il lievito per farla “lievitare” (a meno che non si trattasse del pane azzimo per uso rituale) e lo si metteva a cuocere sulla brace. Data la forma schiacciata e sottile, il pane si spezzava, non si poteva tagliare.
Anche Gesù «prese il pane, lo spezzò...» (Mt 26,26). Avere pane in abbondanza è desiderio ancestrale di tutti, ma specialmente delle popolazioni più esposte ai rischi della carestia. Moltiplicare il pane era ritenuto una benedizione dei tempi messianici: i profeti l’avevano fatto in casi particolari, e quando Gesù moltiplicò i pani per una folla numerosa molti pensarono che doveva essere lui il profeta atteso (Gv 6,14-15).
Nei cinque pani e due pesci non si scorge nessun chiaro significato simbolico da attribuire ai numeri cinque e due. La presenza dei due pesci è sempre stata un rompicapo per quelli che sono alla ricerca del simbolismo. È stata interpretata in vari modi: come prova che i pesci facevano parte delle prime celebrazioni eucaristiche cristiane, come un sostituto delle quaglie con le quali Israele è stato nutrito nel deserto (Nm 11,31; Sap 19,12), o come parte del banchetto messianico (4 Esdra 6,52; 2 Baruc 29,4).
v. 18 «Portatemeli qua»: l’imperativo presente con cui è tradotto è dovuto solo alla preferenza di questo verbo perché rende il comando più delicato verso la persona cui ci si rivolge.
v. 19 «alzati gli occhi al cielo, recitò la benedizione»: Gesù svolge il ruolo del capofamiglia in un tipico pasto ebraico. La benedizione doveva essere la tradizionale benedizione ebraica prima dei pasti: «Benedetto sei tu, o Signore nostro Dio, re dell’universo, che fai scaturire il pane dalla terra».
La benedizione è seguita dallo spezzare il pane e dalla distribuzione dei pezzi. Il linguaggio usato qui prelude all’Ultima Cena (Mt 26,26).
«spezzò i pani»: Notare che, a differenza di Mc 6,41, qui non si fa nessun accenno alla distribuzione dei pesci, che pure sono stati appena nominati. La distribuzione da parte dei discepoli, secondo alcuni fa parte dell’anticipazione eucaristica presente nel racconto. Matteo rende esplicita la partecipazione dei discepoli nella distribuzione dei pani.
Il racconto matteano guarda indietro all’episodio di Eliseo, ma è anche formulato in modo da guardare in avanti all’Ultima Cena di Gesù e alla celebrazione cristiana dell’Eucaristia. D’altra parte i cristiani matteani molto probabilmente conoscevano bene il contenuto di Mt 26,26 grazie alle loro celebrazioni eucaristiche e perciò erano al corrente della dimensione eucaristica dell’episodio della moltiplicazione dei pani.
Lo sguardo in avanti del racconto matteano della moltiplicazione dei pani non si ferma all’Ultima Cena e all’Eucaristia, ma si spinge oltre alludendo al regno di Dio, nella pietà ebraica e cristiana raffigurato come un banchetto. Un ben noto esempio anticotestamentario di questo motivo è Is 25,6: «Il Signore degli eserciti preparerà su questo monte un banchetto di grasse vivande, per tutti i popoli, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati».
Questo motivo sembra anche essere stato il presupposto sul quale erano basati i pasti rituali della comunità di Qumran (vedi 1QS 6,4-5; lQSa 2,17-22); questi pasti erano intesi come anticipazioni del banchetto celeste nel regno di Dio. Il detto del banchetto in Mt 8,11-12 («molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli») e la parabola del banchetto in Mt 22,1-10 («Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio...») sono evidenti esempi matteani di questo motivo.
«li diede ai discepoli e questi alla folla»: questo particolare rivela l’intento ecclesiologico del racconto che mette l’accento sul ruolo dei discepoli (in questo episodio e nella vita della futura Chiesa) quali intermediari tra Gesù e la folla. Nella redazione di Matteo dunque le parole di Gesù («Date loro voi stessi da mangiare») e la procedura da lui seguita presentano inconfondibilmente un colorito ecclesiale. Egli diede i pani ai discepoli e i discepoli li distribuirono alla folla; i discepoli cioè sono mediatori fra Gesù e il popolo, sia in via ascendente (portano a Gesù la realtà bisognosa del popolo) sia in via discendente (distribuiscono alla folla il dono del Cristo, per saziarne la fame), Nei gesti dei discepoli dunque viene presentato il concreto modo della vita della Chiesa, in cui qualcuno si fa portatore del dono divino per gli altri.
I discepoli presentati in forma molto attiva ci danno lo spunto per il terzo livello di lettura, alla luce della missione della Chiesa. L’evangelista Matteo vede continuato quel loro compito nei ministri della Chiesa che distribuiscono ai credenti il pane della Parola e dell’Eucarestia.
Il modello biblico per la moltiplicazione dei pani fatta da Gesù è offerto da 2 Re 4,42-44. Il profeta Eliseo ordina al suo servo di mettere venti pani d’orzo e un sacco di grano davanti a cento uomini. Il servo dapprima protesta, ma poi esegue l’ordine del profeta. Tutti mangiano e ne rimangono perfino degli avanzi:
«Da Baal-Salisa venne un individuo che offrì primizie all’uomo di Dio, venti pani d’orzo e farro che aveva nella bisaccia. Eliseo disse: «Dallo da mangiare alla gente». Ma colui che serviva disse: «Come posso mettere questo davanti a cento persone?». Quegli replicò: «Dallo da mangiare alla gente. Poiché così dice il Signore: "Ne mangeranno e ne avanzerà anche"». Lo pose davanti a quelli, che mangiarono, e ne avanzò, secondo la parola del Signore».
Notiamo alcuni evidenti paralleli tra 2 Re 4,42-44 e Mt 14,13-21:
1. la modica quantità di cibo disponibile,
2. lo scetticismo e le proteste del servo e dei discepoli di Gesù,
3. l’abbondanza di cibo offerta a un gran numero di commensali,
4. la sorprendente quantità di cibo avanzato.
I commensali del racconto matteano sono ovviamente molto più numerosi di quelli del testo anticotestamentario, il che sta ad indicare una certa superiorità da parte di Gesù.
v. 20 «mangiarono e furono saziati»: la sovrabbondanza è una caratteristica dei beni messianici promessi al popolo eletto (cfr. Dt 6,11; Is 49,10; 65,10; Sal 132,15). Questa potrebbe essere anche un’allusione a Dt 8,10 («Mangerai dunque a sazietà e benedirai il Signore Dio tuo»), anche se il termine usato da Mt/Mc per «sazietà» non corrisponde a quello dei Settanta.
«dodici ceste»: Il termine greco kophinos indica un grosso e pesante cesto fatto di vimini. Giovenale (Satire 3.14; 6.542) usa il termine in latino per indicare i cesti usati dai Giudei per trasportare il cibo. Al numero «dodici» viene generalmente riconosciuta una valenza simbolica associata alle dodici tribù d’Israele.
Anche in questo particolare è chiaro l’interesse ecclesiologico di Matteo che presenta i «dodici» Apostoli, ciascuno dei quali ha in serbo un proprio cesto col pane avanzato (non sono le briciole o i pezzi sbocconcellati, ma pani interi) della mensa di Cristo, che a suo tempo sarà disponibile per il sostentamento della Chiesa.
Antifona alla Comunione Sap 16,20
Ci hai mandato, Signore, un pane dal cielo,
un pane che porta in sé ogni dolcezza
e soddisfa ogni desiderio.
La Chiesa ancora continua questa “moltiplicazione” prodigiosa nel mondo tra le nazioni. Questo è l’unico miracolo che sa ancora e sempre fare nella Potenza dello Spirito Santo che in essa dimora. L’Antifona alla comunione (Sap 16,20bc) rilegge l’evento verificatosi nell’esodo, di cui fa anamnesi grata. Allora il Signore fece discendere la manna dal cielo (Sal 77,24; 104,40; e Gv 6,31, che ne offre il commento), come dono al suo popolo Israele (Es 16,13-14; Num 11,7). Questo pane, la manna, allora si adattava al gusto di ciascuno, era ricolmo d’ogni dolcezza (Es 16,31; Num 11,8; 21,5), portava ogni sazietà. Questa anticipazione si verifica anche «oggi qui» per i fedeli, sotto la forma dell’adempimento, nel Convito dell’altare, della Parola e dei santi Segni, che forma l’unità della Chiesa. È la Grazia divina che discende dal cielo, moltiplicata dalle mani dei discepoli del Signore, e che procura la Vita eterna. Il mandato del Signore di «raccogliere e spezzare» e distribuire prosegue, sempre attuato.
v. 21 «cinquemila senza contare le donne e i bambini »: Il numero ha il facile significato di una grande moltitudine, mentre l’esclusione delle donne e dei bambini dal computo dei partecipanti al banchetto preparato prodigiosamente da Gesù nel deserto rispecchia lo stesso criterio di censimento del popolo eletto considerato come un esercito accampato nel deserto (cfr. Es 18,25; Nm 31,14).
Marco fa l’esplicita menzione dei gruppi di cento e cinquanta (6,40). Anche nei testi di Qumràn si parla dell’esercito dei «figli della luce» divisi in vari gruppi, da cui sono esplicitamente escluse le donne con i bambini.
L’episodio della moltiplicazione dei pani ci offre il modo di legare l’esperienza umana della condivisione allo sfondo biblico e alle speranze future del popolo di Dio.
Questo legame offre la base teologica (seria!...) per poter afferrare i molteplici aspetti del mistero dell’Eucaristia. La Santa Scrittura proviene dalla Vita divina stessa come dalla Fonte di infinita ed inesauribile supereffluenza e vuole portare gli uomini a vivere la pienezza divinizzante. La condizione è accettare il Signore Gesù Cristo che lo Spirito Santo del Padre rende presente con il Cibo divino. Vera indicibile Parousìa, la Presenza perenne, ma solo se accettata!
Fuori da “speculazioni spiritualiste” ci sostiene anche il pensiero dei Padri, facilmente constatabile, dove la comunione eucaristica, anche molto pia, non è intesa come grazia, in un certo senso fine a se stessa, ordinata alla generica santificazione personale del fedele ma come violenta, totalizzante, trasformante salita, consapevole perchè già annunziata dalla Parola, all’unione nuziale consumante con Lui, il Signore, lo Sposo dell’amore nuziale unitivo e consumante.
Con tutte le sue Realtà divine portate dalla sua Parola, consegnataci sin dall’origine Gesù, il Signore, il Risorto, vuole, da noi suoi fedeli, essere amato e conosciuto nel Padre con lo Spirito Santo.
II Colletta
O Dio, che nella compassione del tuo Figlio
verso i poveri e i sofferenti
manifesti la tua bontà paterna,
fa’ che il pane moltiplicato dalla tua provvidenza
sia spezzato nella carità,
e la comunione ai tuoi santi misteri
ci apra al dialogo e al servizio
verso tutti gli uomini.
Per il nostro Signore Gesù Cristo...
lunedì 28 luglio 2014
Abbazia Santa Maria di Pulsano
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