don Alberto Brignoli "Dio ha le mani bucate"
XV Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (13/07/2014)
Vangelo: Mt 13,1-23
Il mio dialetto bergamasco (ma credo lombardo, più in generale) ha un'espressione particolare per dire "risparmiare", ovvero "tegn a mà", "tenere a mano". L'ipotesi più accreditata riguardo alla sua etimologia (e non ho dubbi a ritenere che sia così) pare provenire proprio dall'ambiente agricolo, e in particolare dal rituale della semina. Quando si seminava a mano, spargendo il seme lungo i solchi percorsi a piedi dietro l'aratro, si prendeva una manciata di semi dalla bisaccia e si cominciava a
spargerli a destra e sinistra, avendo cura di gettarli dove andavano gettati e soprattutto di non sprecarli con eccessiva dovizia, perché non sempre il seme abbondava nei magazzini delle fattorie, per cui andava tenuto bene in pugno, gettato con oculatezza e di conseguenza "tenuto a mano", ovvero tenuto ben stretto in pugno e gettato laddove fosse veramente utile alla crescita del germoglio. L'arte del seminare "tenendo a mano" diviene poi "simbolo" dell'arte del risparmio, e viene applicata a molte situazioni, addirittura a quella del parlare inutilmente, per evitare il quale si invita a "tenere a mano il fiato" e a utilizzarlo solo per qualcosa di utile e necessario.
L'esatto contrario di ciò che fa il Dio Seminatore della parabola di oggi, che proprio sembra non conoscere il concetto del "tenere a mano"; o meglio, sa bene - come ogni esperto agricoltore - che il seme non va sprecato, eppure a prescindere da questo lo fa', in forma volontaria e deliberata. Dio "non tiene a mano" il seme, Dio è prodigo fino allo spreco, Dio non risparmia nulla di ciò che è in suo possesso, ma lo getta e lo disperde, incurante del risparmio. Perché fa così?
Se ci addentriamo nella parabola e cerchiamo di comprenderne il significato, ci rendiamo conto di come la nostra interpretazione sia sempre stata condizionata dalla spiegazione stessa della parola che l'evangelista Matteo mette in bocca a Gesù, ma che in realtà non è annunciata (come la parabola) alle folle, bensì spiegata privatamente ai discepoli, ovvero alla comunità radunata intorno a lui; si tratta più verosimilmente della comunità dell'evangelista Matteo, che diversi anni dopo aver ascoltato questa parabola si chiede come applicarla alla propria vita e come dare continuità ed efficacia al seme della Parola che il Maestro aveva gettato e che, a motivo dell'incoerenza di molti fratelli cristiani, sembrava non portare il frutto sperato e quindi gettava nella sfiducia e nello sconforto la comunità stessa. Ancor oggi, rileggendo la spiegazione, ci viene immediato applicare quanto ascoltato alla nostra vita, chiedendoci che tipo di terreno siamo e come rispondiamo alla Parola di Dio che viene seminata in noi.
Ma il senso originario della parabola è un altro. Gesù non è preoccupato di farci fare un esame di coscienza per chiederci che tipo di terreno siamo. Lo scopo per cui pronuncia questa e le altre parabole del capitolo 13 che leggeremo nelle prossime domeniche è quello di annunciarci il Regno di Dio e la sua potenza; e il contesto in cui lo fa è significativo, perché sia al capitolo precedente che al capitolo successivo a questo il Maestro trova molta opposizione al suo annuncio, da parte dei farisei prima e dei suoi compaesani poi. Gesù vuole dire ai suoi uditori che il Regno incontra sempre opposizione, non c'è da meravigliarsi di questo: ma la sua potenza è infinitamente più grande di tutto, e nonostante in alcune persone e in alcuni luoghi dia l'impressione di non dare frutto, nonostante rispetto ad altre situazioni eclatanti sia simile al "nulla" di un granello di senapa, nonostante accanto al bene presente nel mondo il male cresca come la zizzania accanto al buon grano, la Parola di Dio porta frutto, e lo fa con abbondanza.
Si tratta di capirne il perché. La spiegazione non sta nell'esortazione a essere un buon terreno, ma nell'atteggiamento del seminatore, ovvero la prodigalità al momento della semina. La forza della Parola di Dio sta proprio nella sua abbondanza, nella sua seminagione senza risparmio, nella sua diffusione ad ogni costo, nella sua lotta al calcolo e al "tenere a mano". Se la Parola è efficace, non è grazie alla bontà del terreno che la riceve (anche nel migliore dei terreni, a volte dà il cento, a volte il trenta per cento), ma grazie a un Dio che non fa calcoli, e semina sempre, ovunque, in ogni momento, anche e soprattutto laddove trova contrasto, opposizione, indifferenza, apatia. Perché per un po' di seme che finisce sulla strada, ce n'è altrettanto che finisce sul terreno buono; per un cristiano che si perde, ce n'è almeno un altro che si ritrova; per un uomo che vuole a fare a meno di Dio, ce n'è sempre un altro che crede in lui. Ma soprattutto, il seme gettato dà frutto indipendentemente dalla fiducia che noi gli accordiamo, perché la sua potenza è infinitamente più grande della nostra predisposizione ad accoglierlo e a dargli spazio.
Spesso incontro genitori che se la prendono con se stessi e con Dio perché gli insegnamenti cristiani e valoriali che hanno trasmesso ai loro figli sono svaniti nel nulla a causa di una vita buttata via, lontana da Dio e dagli ideali più grandi. Io dico sempre loro che non è così, e che Dio sa bene quello che fa. Quel seme "gettato via", sprecato, buttato al vento e non certo "tenuto a mano", in realtà è capace di dare frutto molto di più di quanto crediamo. E allora, ciò che si è seminato, se seminato con convinzione, con fatica, con sudore e con abbondanza, senza giocare al risparmio, non andrà mai perduto: potrà sembrare latente, soffocato, apatico, svogliato, ma alla fine dà frutto, in tutti, anche in coloro che a noi davano l'impressione di non poter produrre nulla.
Ma per fare questo occorre essere come il Dio Seminatore: gettare, seminare, sprecare, darsi da fare, non giocare mai al ribasso. Perché Dio con l'uomo non bada a spese e non "tiene a mano", ha proprio le mani bucate: bucate sul legno della Croce, il più clamoroso degli sprechi di Dio per l'umanità.
Vangelo: Mt 13,1-23
Il mio dialetto bergamasco (ma credo lombardo, più in generale) ha un'espressione particolare per dire "risparmiare", ovvero "tegn a mà", "tenere a mano". L'ipotesi più accreditata riguardo alla sua etimologia (e non ho dubbi a ritenere che sia così) pare provenire proprio dall'ambiente agricolo, e in particolare dal rituale della semina. Quando si seminava a mano, spargendo il seme lungo i solchi percorsi a piedi dietro l'aratro, si prendeva una manciata di semi dalla bisaccia e si cominciava a
spargerli a destra e sinistra, avendo cura di gettarli dove andavano gettati e soprattutto di non sprecarli con eccessiva dovizia, perché non sempre il seme abbondava nei magazzini delle fattorie, per cui andava tenuto bene in pugno, gettato con oculatezza e di conseguenza "tenuto a mano", ovvero tenuto ben stretto in pugno e gettato laddove fosse veramente utile alla crescita del germoglio. L'arte del seminare "tenendo a mano" diviene poi "simbolo" dell'arte del risparmio, e viene applicata a molte situazioni, addirittura a quella del parlare inutilmente, per evitare il quale si invita a "tenere a mano il fiato" e a utilizzarlo solo per qualcosa di utile e necessario.
L'esatto contrario di ciò che fa il Dio Seminatore della parabola di oggi, che proprio sembra non conoscere il concetto del "tenere a mano"; o meglio, sa bene - come ogni esperto agricoltore - che il seme non va sprecato, eppure a prescindere da questo lo fa', in forma volontaria e deliberata. Dio "non tiene a mano" il seme, Dio è prodigo fino allo spreco, Dio non risparmia nulla di ciò che è in suo possesso, ma lo getta e lo disperde, incurante del risparmio. Perché fa così?
Se ci addentriamo nella parabola e cerchiamo di comprenderne il significato, ci rendiamo conto di come la nostra interpretazione sia sempre stata condizionata dalla spiegazione stessa della parola che l'evangelista Matteo mette in bocca a Gesù, ma che in realtà non è annunciata (come la parabola) alle folle, bensì spiegata privatamente ai discepoli, ovvero alla comunità radunata intorno a lui; si tratta più verosimilmente della comunità dell'evangelista Matteo, che diversi anni dopo aver ascoltato questa parabola si chiede come applicarla alla propria vita e come dare continuità ed efficacia al seme della Parola che il Maestro aveva gettato e che, a motivo dell'incoerenza di molti fratelli cristiani, sembrava non portare il frutto sperato e quindi gettava nella sfiducia e nello sconforto la comunità stessa. Ancor oggi, rileggendo la spiegazione, ci viene immediato applicare quanto ascoltato alla nostra vita, chiedendoci che tipo di terreno siamo e come rispondiamo alla Parola di Dio che viene seminata in noi.
Ma il senso originario della parabola è un altro. Gesù non è preoccupato di farci fare un esame di coscienza per chiederci che tipo di terreno siamo. Lo scopo per cui pronuncia questa e le altre parabole del capitolo 13 che leggeremo nelle prossime domeniche è quello di annunciarci il Regno di Dio e la sua potenza; e il contesto in cui lo fa è significativo, perché sia al capitolo precedente che al capitolo successivo a questo il Maestro trova molta opposizione al suo annuncio, da parte dei farisei prima e dei suoi compaesani poi. Gesù vuole dire ai suoi uditori che il Regno incontra sempre opposizione, non c'è da meravigliarsi di questo: ma la sua potenza è infinitamente più grande di tutto, e nonostante in alcune persone e in alcuni luoghi dia l'impressione di non dare frutto, nonostante rispetto ad altre situazioni eclatanti sia simile al "nulla" di un granello di senapa, nonostante accanto al bene presente nel mondo il male cresca come la zizzania accanto al buon grano, la Parola di Dio porta frutto, e lo fa con abbondanza.
Si tratta di capirne il perché. La spiegazione non sta nell'esortazione a essere un buon terreno, ma nell'atteggiamento del seminatore, ovvero la prodigalità al momento della semina. La forza della Parola di Dio sta proprio nella sua abbondanza, nella sua seminagione senza risparmio, nella sua diffusione ad ogni costo, nella sua lotta al calcolo e al "tenere a mano". Se la Parola è efficace, non è grazie alla bontà del terreno che la riceve (anche nel migliore dei terreni, a volte dà il cento, a volte il trenta per cento), ma grazie a un Dio che non fa calcoli, e semina sempre, ovunque, in ogni momento, anche e soprattutto laddove trova contrasto, opposizione, indifferenza, apatia. Perché per un po' di seme che finisce sulla strada, ce n'è altrettanto che finisce sul terreno buono; per un cristiano che si perde, ce n'è almeno un altro che si ritrova; per un uomo che vuole a fare a meno di Dio, ce n'è sempre un altro che crede in lui. Ma soprattutto, il seme gettato dà frutto indipendentemente dalla fiducia che noi gli accordiamo, perché la sua potenza è infinitamente più grande della nostra predisposizione ad accoglierlo e a dargli spazio.
Spesso incontro genitori che se la prendono con se stessi e con Dio perché gli insegnamenti cristiani e valoriali che hanno trasmesso ai loro figli sono svaniti nel nulla a causa di una vita buttata via, lontana da Dio e dagli ideali più grandi. Io dico sempre loro che non è così, e che Dio sa bene quello che fa. Quel seme "gettato via", sprecato, buttato al vento e non certo "tenuto a mano", in realtà è capace di dare frutto molto di più di quanto crediamo. E allora, ciò che si è seminato, se seminato con convinzione, con fatica, con sudore e con abbondanza, senza giocare al risparmio, non andrà mai perduto: potrà sembrare latente, soffocato, apatico, svogliato, ma alla fine dà frutto, in tutti, anche in coloro che a noi davano l'impressione di non poter produrre nulla.
Ma per fare questo occorre essere come il Dio Seminatore: gettare, seminare, sprecare, darsi da fare, non giocare mai al ribasso. Perché Dio con l'uomo non bada a spese e non "tiene a mano", ha proprio le mani bucate: bucate sul legno della Croce, il più clamoroso degli sprechi di Dio per l'umanità.
Commenti
Posta un commento