Commento al Vangelo: Mt 16,21-27 a cura delle Clarisse di via Vitellia

XXII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (31/08/2014)
Vangelo: Mt 16,21-27
COMMENTO ALLE LETTURE
Una lotta abita il cuore dell'uomo, lotta che affonda le sue radici nel dramma del peccato originale, che ci trascina al conflitto con Dio e con le sue esigenze; però è lotta, perché d'altra parte sentiamo profondamente il fascino della bellezza di una vita spesa con Lui e per Lui.

"Ha sete di te, Signore, l'anima mia": è il grido che si leva dall'intimo di noi stessi, da quella "terra arida, assetata, senz'acqua" che è la nostra stessa carne. Per dirla con S. Agostino: "Ci hai fatti per te, o Signore, e il nostro cuore non ha pace finché non riposa in te" (Confess. 1, 1, 1). In Dio è il nostro riposo, la nostra pace, la gioia della nostra carne e del nostro spirito: "il mio cuore e la mia carne esultano nel Dio vivente" (Sl 84,3b). "Il suo amore vale più della vita", per questo le labbra gioiose lo lodano e lo esaltano...
Insomma, un tripudio di bellezza e di ineffabile dolcezza, per cui verrebbe spontaneo dire con tutto lo slancio del cuore quello che Pietro disse sul Tabor: "Signore è bello per noi essere qui" (Mt 17,4).
Ma allora da dove la ribellione di Geremia, sedotto dal Signore con la violenza di una passione a cui Dio stesso non sa resistere? Da dove lo smarrimento di Pietro, che non esita a rimproverare lo stesso Signore, spaventato di fronte ad una prospettiva di vita e di missione in cui si sente suo malgrado coinvolto? Due uomini di questa statura spirituale perché hanno tanta paura? Perché in fondo la ribellione altro non è che paura...
"Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua ".
Questo è il punto. Su ogni cammino cristiano autentico si staglia inesorabilmente l'ombra della croce. E la parola della croce è stoltezza, scandalo (cf. 1Cor 1,18ss.); la parola della croce spaventa, turba, provoca.
E' interessante notare che scandalo è la parola della croce per Pietro, quando invece scandalo è la reazione di Pietro per Gesù: " La parola della croce è stoltezza per quelli che si perdono... potenza di Dio per quelli che si salvano" (1Cor 1,18). Dunque una prospettiva completamente diversa, un approccio diametralmente opposto. E in gioco è la nostra salvezza, quindi non una cosa da poco: S. Paolo ci dice che si salvano coloro che riescono a vedere nella croce la potenza di Dio che si manifesta. In questo senso la croce è la nostra salvezza, come non ci stanchiamo di ripetere nella liturgia. Ma quanto ne siamo veramente convinti? Quanto invece di fronte all'ipotesi della croce ci viene spontaneo difenderci, ribellarci, come Geremia, come Pietro? Forse non c'è familiare la reazione di Geremia: "basta, io di Dio non voglio più sentir parlare..."?; o quella di Pietro: "Non so se Gesù si è reso conto di dove stiamo finendo, forse è meglio che lo avvisi, che prenda in mano io la situazione..."?
Reazioni umane, comprensibili, con cui Dio stesso volentieri si mette in dialogo, per far risuonare di nuovo la sua chiamata: "Nel mio cuore c'era come un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo"; di fronte a cui Gesù prende il tempo necessario per cercare di spiegare, di aiutare a comprendere. Perché - dicevo - la posta in gioco è alta, è la nostra salvezza!
"Chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita, la salverà". Questo è il punto: come lavoriamo per la salvezza della nostra anima? Il fine è chiaro e su questo non ci sono dubbi, ma forse non è altrettanto chiara la via per giungervi, quella via tracciata con evidenza da Gesù nel suo mistero pasquale, che in ogni Messa celebriamo con convinzione e profonda partecipazione, ma che poi fatica a passare nella vita. La via infatti è una via di Kenosi, di progressiva spogliazione dai nostri progetti personali, dalle nostre attese illusorie di successo e fama (cf. Fil 2,5ss). Il beato Egidio di Assisi, tra i primi e fedelissimi seguaci di san Francesco, con la sua tipica semplicità amava dire: "La via di andare in su è andare in giù". E questo, ammettiamolo, ci fa problema, perché non è secondo la logica del mondo, di quel mondo di cui tanto è imbevuta anche la nostra vita cristiana e religiosa, tanto che il Santo Padre Francesco ha parlato e parla spesso di "mondanità spirituale".
Il vero profeta lavora in perdita, non si interessa del risultato, che sa affidare alle mani di Dio. Sa che il successo non è da valutarsi in base ai frutti immediati, perché i frutti richiedono un tempo di maturazione a volte anche lungo, e spesso capita che "uno semina e l'altro miete" (Gv 4,37). Il vero successo sta piuttosto nella capacità del profeta di rimanere fedele alla propria missione anche di fronte a quello che agli occhi del mondo appare come un fallimento, perché non è importante guadagnare il mondo intero, ma salvare la propria anima nell'obbedienza di fede alla missione che ci viene affidata.
A questo punto è chiarissima la parola di S. Paolo che ci accompagna nella liturgia di oggi, facendo da cerniera tra prima lettura e vangelo: offerta del nostro corpo come sacrificio spirituale, nell'attenzione a rifuggire dalla mentalità del mondo per conformarsi al pensiero di Dio! Dunque concretezza nel dono di sé, un dono fatto di opere sante, come risposta alla misericordia di un Dio che per noi ha dato tutto se stesso, concretamente; e insieme attenzione alla modalità del dono, che deve essere pura gratuità, per non cadere nei lacci della mentalità del mondo, nella logica imperante del do ut des.
Infine tutto questo... senza perdere tempo, "perché il Figlio dell'uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni".

Commenti

Post più popolari