padre Gian Franco Scarpitta " Correzione sinonimo di carità"

XXIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (07/09/2014)
Vangelo: Mt 18,15-20
Gesù in molte pagine si mostra come il Riconciliatore. Non pochi suoi interventi tendono a ripristinare il rapporto infranto fra l'uomo e il Padre e lui stesso si fa Mediatore fra Dio e gli uomini e nella croce realizza la piena riconciliazione riscattando i nostri peccati. Ma collegata a questa vi è anche la riconciliazione, da lui operata, degli uomini fra di loro, evinta spesso dalla pedagogia del perdono, dell'amore verso i nemici e della necessità di far pace con i nostri avversari prima di depositare l'offerta al tempio. La riconciliazione fra uomo e uomo, la pacifica convivenza e il recupero della fraternità
infranta dalle divisioni e dai malintesi sono anzi un aspetto non trascurabile della carità insegnata e voluta dal Figlio di Dio e pertanto su questo tema non sarà mai abbastanza che ci soffermiamo. Chiarire gli equivoci, incontraci superando quello che ci ha divisi, mostrarsi disponibili al dialogo e all'accettazione reciproca con l'umiltà di riconoscere ciascuno i propri errori e le proprie manchevolezze è alla base di una retta convivenza e pertanto non è fuori luogo che la carità sia sinonimo di riconciliazione soprattutto nella correzione fraterna.
Si tratta di un aspetto spesso preso in poca considerazione, ma che di fatto sta alla base di una pacifica convivenza umana in un gruppo o in un sistema sociale: correggersi gli uni gli altri negli errori e nelle defezioni e accettare da parte nostra che altri ci correggano ammettendo umilmente i nostri sbagli raggiunge obiettivi di solidità nella fraternità. Del resto occorre anche considerare che in una Chiesa "santa ma peccatrice" nessuno è esente da errori e imperfezioni, per cui andrebbe svolta con maggiore frequenza l'autocritica e la correzione degli altri.
La liturgia è abbastanza lapidaria già nella Prima Lettura, nella quale Ezechiele ammonisce che ciascun uomo potrebbe essere responsabile del male che commettono altri, giacché mancare di richiamare alla rettitudine il fratello che sbaglia equivale a rendersi complice del suo peccato. Quando si omette di ammonire il reprobo affinché torni sulla retta strada, si contribuisce a fomentare in lui sempre più propensione all'errore, anche perché lo si illude di trovarsi nel giusto o eventualmente si fa in modo che resti convinto erroneamente di aver agito bene. E come può allora Dio non imputare anche noi una parte di colpa per l'errore che avrà commesso? Nella nostra società, sebbene una certa attitudine alla viltà ce lo faccia trascurare, siamo tutti responsabili delle ingiustizie e del male che viene commesso da coloro che chiamiamo "criminali" o delinquenti quando nulla facciamo per impedire la loro opera, ad esempio denunciandoli con coraggio a chi di dovere. Siamo tutti quanti responsabili di un crimine o di un misfatto allorquando mostriamo assoluta indifferenza o chiusura omertosa. Ma soprattutto ciascuno di noi non può non considerarsi complice degli errori altrui quando omette di ricorrere alla correzione fraterna, cioè a quell'atteggiamento di carità e di sincera disposizione con il quale, senza voler in alcun modo prevaricare su di lui, si richiama il fratello al giusto comportamento quando questi abbia sbagliato. Correggere fraternamente chi sbaglia è un sincero atto di amore nei suoi confronti mancando il quale si manca inesorabilmente verso lo stesso fratello e nei confronti della società intera perché la persistenza in un determinato errore non può che comportare disagio alla convivenza di tutti. E' moralmente doveroso pertanto richiamare quanti sono nell'errore senza tuttavia che ci si erga a loro giudici o a loro maestri, quasi che noi siamo solo in grado di insegnare: la correzione non va eseguita infatti con estrema irruenza o con atti umilianti nei confronti di chi sbaglia, ma deve essere semplicemente un atto di amore e di sollecitudine atto a rendere consapevole l'altro del proprio errore attraverso argomenti convincenti. Chi riceve la correzione deve infatti sentirsi a proprio agio e avvertire la certezza che il rimprovero subito non è che un atto di amore nei suoi confronti e la correzione fraterna non deve avere assolutamente fattezze di predominio o di superiorità.
Da parte di chi riceve la correzione dovrebbe certo esservi attitudine di umiltà e di obiettività nel riconoscere i propri sbagli per provi subito rimedio. Chi rifiuta la correzione misconosce anche l'amore di Dio e si chiude all'amore degli altri, mostrandosi ben lungi dall'essere idoneo alla vita comune. Chi nei suoi confronti e chi non è mai stato mai rimproverato non ha mai fatto esperienza di carità e non è capace di carità.
Nella pedagogia di Gesù intorno a questo aspetto importantissimo della vita di fraternità, si descrive l'attitudine di colui che corregge, l'attitudine ideale di chi viene corretto, la responsabilità del singolo fratello nell'eseguire la correzione fraterna e da ultimo il dovere che spetta in tal senso all'intera comunità. In secondo luogo, si considerano tutte le possibili reazioni dell'educando e il ricorso alla testimonianza di due o tre persone, già ravvisabile nella prescrizione del Deuteronomio.
La correzione non è solamente una responsabilità del singolo soggetto, ma richiama anche l'intero gruppo e la società intera, doverosa di recuperare con tutti i mezzi il fratello che sbaglia, anche ricorrendo secondo le necessità alle riprovazioni e alle punizioni appropriate. Ecco perché Gesù offre orientamenti concreti di emendazione del reo, che riguardano l'intervento di tutti e di ciascuno e che coinvolgano anche l'intera comunità. Se un fratello è in errore è infatti preoccupazione di tutti che egli si ravveda, e anche l'intervento della Chiesa per intero, quando necessario, può essere risolutivo. Ma Gesù prevede sapientemente anche che il fratello possa non mutare vita e persistere nell'errore: tutto dipende dal suo grado di giudizio, dalla virtù e dall'esercizio della sua libertà. Fallita quindi ogni possibilità di emendazione nei suoi confronti, dipenderà solamente da lui il suo destino di appartenenza alla comunità, sarà problema suo rispondere dei propri errori davanti a se stesso e davanti agli altri e poiché+ avrà fatto la sua scelta libera e consapevole da parte nostra non si potrà che "considerarlo un pubblicano" ostinato a rifiutare un nostro tentativo di emendamento e per ciò stesso un nostro atto di amore.
Dice la Lettera agli Ebrei: "È per la vostra correzione che voi soffrite! Dio vi tratta come figli; e qual è il figlio che non è corretto dal padre?.... Certo, ogni correzione, sul momento, non sembra causa di gioia, ma di tristezza; dopo però arreca un frutto di pace e di giustizia a quelli che per suo mezzo sono stati addestrati (Eb 12, 7. 10 - 12).
Chiudere gli occhi sugli errori degli altri per una pura forma di "rispetto" o peggio ancora omettere di correggere chi sbaglia per poi diffamarlo alle spalle con insinuazioni o pettegolezzi è indice di mancato amore nei confronti della sua persona e svilimento della sua stessa dignità. Del quale Dio non potrà non chiederci conto.

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