Abbazia Santa Maria di Pulsano Lectio Divina"L’Esaltazione della Santa Croce"

14 settembre,
Giovanni 3,13-17; Nm 21,4b-9; Sal 77; Fil 2,6-11
Antifona d’Ingresso Cf Gal 6,14
Di null’altro mai ci glorieremo
se non della Croce di Gesù Cristo, nostro Signore:
egli è la nostra salvezza, vita e risurrezione;
per mezzo di lui siamo stati salvati e liberati.
L’antifona d’ingresso è Gal 6,14, adattato. L’evocazione acclamante dell’Apostolo, di cui l’unica gloria sua consiste nella Croce del Signore, è ora applicata ai fedeli (1 Cor 2,2; Fil 3,3.7.8), poiché solo nella Croce essi hanno salvezza, vita e resurrezione. Il testo diventa un’anamnesi: Cristo con la sua Croce già
salvò, già liberò. La Croce in apertura della celebrazione già s’innalza sui fedeli come il Trofeo umile e glorioso della Vittoria sulla morte, e oggi essi sono chiamati ad adorarla, Icona preziosa della Vita, da cui s’innalza a sua volta l’adorazione al Padre con il suo misterioso Disegno di salvezza.
Canto all’Evangelo
Alleluia, alleluia.
Noi ti adoriamo, o Cristo, e ti benediciamo
perché con la tua croce hai redento il mondo.
Alleluia.

L’alleluia all’Evangelo è una composizione innica. L’adorazione e benedizione vanno sempre al Signore, Redentore in forza della sua Croce.
La Croce divinizzante è l’unico strumento, da assumere, da accettare, da portare, da aiutare i fratelli a portare. Croce unico strumento e veicolo di ingresso nella Vita eterna, che è la stessa Vita della Trinità santa, consustanziale, indivisibile, beata e tranquilla. Il Dio per natura ha posto tra sé e gli uomini la Croce, il patibolo della morte, l’Altare della Vita, affinché gli uomini possano diventare «dèi per grazia» (i Padri).
È strano, ma acclamando la Croce preziosa come «Speranza unica»., tutto questo, e il resto da scoprire pregando la divina Parola, non sembra emergere del tutto, se la celebrazione non è preparata. Per non restare a livelli solo esterni, occorre operare affinché l’infinito implicito diventi per tutto il popolo cristiano l’infinito esplicito, vivibile quotidianamente. Così, portare la Croce «ogni giorno» (Lc 9,23) è anche crescere ogni giorno verso la Gloria.
La Chiesa Madre di Gerusalemme organizzò la venerazione per la santa e vivificante Croce del Signore nella prima metà del sec. 4°, intomo all’Anàstasis, il luogo della Resurrezione, sulla stessa incomparabile e benedetta roccia contigua del Golgota Calvario. Sempre con riferimento ai due straordinari monumenti, il Martyrìon, la basilica vera e propria, era tuttavia sede normale della celebrazione dei divini Misteri della Croce e della Resurrezione. Da Gerusalemme tale immane venerazione fu assunta dall’intera Chiesa Unica Santa, e con la memoria in tutti i suoi Riti venerabili. Già in antico, in diversi momenti dell’anno, come in Quaresima, al Venerdì santo, a maggio, a settembre, si svolgeva la venerazione della santa Croce, sotto vari titoli celebrativi. La data del 14 settembre, l’Esaltazione sul mondo della Croce salvifica, era stata disposta in modo singolare, con la scadenza di simbolica di 40 giorni. Infatti intorno al 28-29 giu­gno (dove fu collocata la festa degli apostoli Pietro e Paolo) si commemorava la trasfigurazione di Mose sul Monte Sinai (Es 34,29-35); 40 giorni dopo, al 6 agosto, la Trasfigurazione del Signore; e finalmente 40 giorni dopo, al 14 settembre, l’Esaltazione pancosmica della santa Croce.
La Croce è il Segno supremo, indelebile che manifesta il Signore risorto nello Spirito Santo. Segno lasciato alla memoria e venerazione di tutti i fedeli. Segno del Disegno di Bontà che il Padre ha adempiuto per l’umana redenzione. Scala sicura verso la divinizzazione nello Spirito Santo. Così la Croce, quasi personificata, è acclamata, invocata, glorificata.
Nella pratica celebrativa l’Occidente non conosce il fasto dell’Oriente svolto ancora oggi con immutabile fedeltà, su questo ha influito in modo determinante il fatto che il 14 settembre non sia festa anche civile, come tante altre. Perché ormai si fa festa solo se c’è di mezzo la sospensione del lavoro. Un assurdo che la Chiesa antica non conosceva, come le Chiese orientali pur soffocate dalla morsa feroce dell’islamismo, non conoscono, e anzi respingono.
La Santa Croce segna realmente per tutti la protezione universale. Nei secoli, città intere o quartieri, località, chiese, cappelle, oratori, monasteri, ordini religiosi, nomi di persone sono stati intitolati alla Santa Croce; in Oriente essa si tatua sulla fronte, sul petto, sulla mano, esponendosi così anche a pericolosi riconoscimenti e identificazioni. Sotto l’aspetto visivo, il simbolo della Croce risalta sia al centro della chiesa, sia troneggia nel catino dell’abside, come visione del trionfo salvifico e anamnesi permanente dei Misteri celebrati, ad esempio nel cuore di rappresentazioni stilizzate del nuovo giardino dell’Eden, la Chiesa, a cui i fedeli sono chiamati perché destinati, e che già fà festa nella loro gioiosa attesa (vedi la chiesa di S. Clemente a Roma). La Chiesa antica infatti venerava dall’inizio la Croce santa quale vera "icona" del Mistero totale, il «Segno del Figlio dell’uomo» (Mt 24,30 e 27). Essa era oggetto di culto, salutata da luci, da fiori, da canti, incensata e baciata, portata in processione; con essa si benediceva, e si benedice (croce manuale) il popolo festante.
Il suo simbolismo era sentito come inesauribile, e i testi riportati sopra ne danno qualche idea. Così molti oggetti per la loro forma erano ricondotti a prefigurazioni della Croce. La Croce era posta su monti e vie e crocicchi, su chiese e su case, scolpita in pietra o fusa in metallo, come oggetto portatile era d’oro, d’argento, di bronzo, di legno, di cuoio; era dipinta, affrescata, smaltata, incisa, trapunta, ricamata. Spesso era arricchita da gemme preziose, che indicavano le feste liturgiche. Poteva essere la teca da contenere il «vero legno della Santa Croce», o anche reliquie dei Martiri gloriosi. Era portata sulla persona come oggetto benedetto e benedicente.
In tutto l’Oriente il 14 settembre è giorno solenne, preparato da solenne digiuno, anzi, questo è l’unico giorno dell’anno in cui si digiuna anche se cade di Domenica. Tale festa sorgeva quale «festa della Luce», poiché a Gerusalemme la grande croce che troneggiava visibile sul Calvario era illuminata permanentemente, segno del Ritorno del Signore (ancora Mt 24,30 e 27) che con essa aveva redento gli uomini. Vedi il mosaico dell’abside di Santa Pudenziana a Roma. E ovviamente la teologia che si ricava dalle officiature era ricca e complessa.
Il significato della festa rimanda tra le altre a tre principali considerazioni.
1. Anzitutto, ovviamente, alla Croce per così dire storica, allo Strumento dal quale, come cantano la Chiesa e le Chiese, Cristo donò agli uomini la Vita immortale, e quindi all’evento redentore.
2. In secondo luogo, alla Croce quale «icona del Mistero» globale, quando dopo la Resurrezione il Signore glorificato lascia ai suoi fedeli questo supremo Segno, che ormai, senza il corpo del Signore, è di gioia, di fede, di festa, e che di necessità deve essere rappresentato sgombro, in forma ricca, nobile, simbolica, con gemme e colori, in trionfo.
3. In terzo luogo alla Croce quale Segno indelebile del Mistero impresso nei fedeli dallo Spirito Santo nella divina e vivificante Iniziazione. A causa del quale sui fedeli è invocato perennemente il Nome divino unico del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo per l’eternità beata.
È a causa di questo che tutti i fedeli debbono accettare per intero il «discorso della Croce» (1 Cor 1,18 - 2,16), di lasciarsi fare discepoli del Signore nella fedeltà, di rinnegare se stessi, di accettare la "propria" croce ma "quotidianamente’’ (Lc 9,23), e finalmente di seguire nella potenza dello Spirito Santo il Signore dovunque Egli vada (Mc 8,34).
La Croce del Signore infatti non è mai stata, né è restata, una semplice e innocua decorazione, un monile tra gli altri, ma vale come stigmate di Fuoco nel cuore del fedele, il quale così recupera la sua vera identità cristiana, di essere l’icona "preziosa", pagata al prezzo del Sangue della Croce, di essere l’icona di Dio, l’icona filiale del Padre di Gesù Cristo, insieme con tanti altri figli. E Gesù Cristo con la Croce e con la Resurrezione è diventato «il Primogenito di molti fratelli» (Rom 8,29), e ha riaperto per sempre l’accesso beatifico alla Casa del Padre.
I Padri e le Liturgie delle Chiese nei secoli trassero una ricca tipologia sulla Croce dall’A.T., sotto il vocabolo albero - legno, rileggendo sempre a partire da Gen 3, l’albero della vita o della morte, fino alla visione di Ap 21-22, dove appare l’Albero fruttifero finale unico, l’Albero della Vita, quello che unisce il Cielo alla terra, e unisce tra essi i 4 angoli della terra degli uomini tra loro divisi dal peccato.
Il testo dell’evangelo è proclamato anche per la Domenica IV di Quaresima, Ciclo B. Il contesto naturale di questa breve pericope, molto significante, è l’incontro notturno di Nicodemo con il Signore. A Nicodemo il Signore rivela che occorre rinascere, o «nascere dall’Alto» per la potenza dello Spirito battesimale. Queste sono realtà divine, dure da credere non solo per lo stupito Nicodemo ma ancora per noi oggi, scettici anche sulle realtà terrene.
Egli «ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, affinché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita» (v. 16 dell’evangelo).
Dio quindi è amore, noi lo ripetiamo spesso; ma occorre non fraintenderlo. Dio infatti è un amore «diverso» da tutto ciò che noi chiamiamo «amore»; a noi esso resterà sempre «incomprensibile», perché mai noi riusciremo a comprendere il senso di una fedeltà non ricambiata, il senso di un amore deciso a rischiare tutto, anche la vita, per la persona amata. Eppure, così è l’amore di Dio per noi.
Verrebbe da commentare: ci avesse amati un pò meno! Ci sentiremmo più tranquilli, meno colpevoli; i nostri peccati non ci peserebbero tanto. Troveremmo almeno una parziale giustificazione per le nostre infedeltà.
Il Dio che mette paura non è il Giudice severo; è, piuttosto, il Dio che ama in quella maniera «inesorabile». Dio non ci rimprovera sventolandoci davanti agli occhi un articolo della Legge: Dio ci accusa inchiodandoci a una storia di amore.
Il brano che la liturgia della festa ci propone è la conclusione del discorso di Gesù con Nicodemo, un fariseo, un capo dei Giudei.
L’intero episodio (2,23-3,21), per gli elementi letterari che contiene, in particolare la locuzione "in verità, in verità ti dico" che ricorre ai vv. 3.5.11, i parallelismi [cfr. "testimoniamo" di 3,11 con 2,25 e si noti che il verbo "martyréin" nel dialogo con Nicodemo si incontra solo qui; il parallelismo antitetico di «sappiamo che sei venuto da Dio» (3,2) con «noi parliamo di ciò che sappiamo» (3,11)] e le parole tematiche (ad esempio in 3,3-10 il verbo nascere ricorre otto volte, il termine spirito cinque volte; in 3,11-21 il termine credere s’incontra sette volte, i sostantivi mondo e luce cinque volte e i vocaboli giudicare-giudizio quattro volte), è divisibile in quattro sezioni.
Abbiamo un’introduzione (2,23-3,2) e tre rivelazioni di Gesù aperte dalla locuzione "in verità, in verità ti dico", delle quali le prime due (3,3-10, che formano un dialogo vero e proprio) sono seguite dall’ incomprensione dell’interlocutore, mentre la terza si risolve in un monologo (3,11-21).
Dietro lo schema si scopre un movimento e quindi un significato: il discorso inizia con un detto enigmatico di Gesù, e il seguito lo precisa, lo chiarisce prendendo occasione dalla domanda-incomprensione di Nicodemo. È una tecnica frequente nei discorsi dell’evangelista Giovanni:
a. una tecnica letteraria, che serve a far progredire il discorso;
b. ma è anche molto di più, è rivelatrice di una situazione: l’uomo è incapace di capire, la sua comprensione resta carnale (cfr. parole che rivestono un doppio significato (dall’alto-di nuovo; nascere in senso spirituale-essere generato fisicamente; ecc.).

Esaminiamo il brana

v. 13 - Lo schema cristologico giovanneo di discesa-ascesa (innalzamento alla croce ed alla gloria) appare in questi vv. nella forma più perfetta.
Mentre per la discesa dal cielo si può far ricorso alla discesa dal cielo della sapienza (Baruc 3,29-30) e alla discesa della parola di Dio (Is 55,10-11), per l’ascesa al cielo invece non si trova nessun vero parallelo. Ciò dipende dal fatto che questo secondo elemento dello schema (messo qui per primo) proviene dall’esperienza nuova della risurrezione-ascenzione (Ef 4,9; At 1,9-11; cf, anche Gv 6,62 e 20,17).
vv.14-15 - I vv. si riferiscono ad un episodio riportato in Nm 21,6-9.
La base del confronto sta nel fatto che in entrambi i casi la salvezza si attua mediante «innalzamento». Il termine ha un duplice significato e allude sia all’innalzamento di Gesù sulla croce (cfr. 8,28) sia alla sua Risurrezione e Ascensione al Padre (cfr. v. 13).
Questo riferimento all’AT, e soprattutto la visione della croce come innalzamento (e quindi glorificazione), è molto interessante per capire nel IV Evangelo la concezione della passione (vista come rivelazione).
È il tema centrale della fede di ogni cristiano: non solo credere in Gesù sulla Croce come dono, ma credere che la croce è gloria, è vittoria. Qui sta il punto.
«in lui abbia la vita eterna»: il "guardare" opera la salvezza; si deve realizzare la profezia di Zc 12,10. Guardare = credere in lui, essere in comunione con lui; lo sguardo va spostato dal nostro peccato a Colui che lo toglie via. È la visione della purezza, non quella del peccato che ci eleva. Noi ci allontaniamo dal peccato, quando ci allontaniamo da noi stessi e ci lasciamo attrarre dalla sublimità di quell’amore,
«serpente»: è considerato un animale ambiguo: era visto come simbolo della fecondità e della vita (a causa della similitudine fallica) ma anche della morte e del male (a causa della sua velenosità e del ribrezzo che genera). Il racconto della Genesi al c. 3, col serpente che induce l’uomo a peccare, e quello del deserto a cui si è fatto cenno rappresentano i due estremi del simbolo. Anche se il serpente di bronzo correrà il rischio di diventare un idolo [il re Ezechia dovrà, nell’VIII sec. a.C. fare a pezzi una simile raffigurazione a cui gli Israeliti bruciavano incenso (2 re 18,4)], esso rimarrà nella Bibbia soprattutto come un segno della salvezza e dell’amore divino. Si legga a proposito quello che è scritto in Sap 16,5-7.
Gesù continua su questa linea e annunzia a Nicodemo che la sua elevazione avrà lo stesso significato. Si opera, così, un confronto caro al 4° evangelo: i segni dell’antica alleanza (il tempio, l’esodo, il serpente, la manna, l’acqua, il mare e così via) sono attuati in pienezza nell’azione salvatrice del Cristo,
v. 16 – Nell’incarnazione e nella Passione egli ha dato il Figlio suo unigenito per donare la vita eterna a chiunque crede in lui, e perciò non perisca (in senso escatologico). Sullo sfondo ricordiamo la figura di Isacco (Gen 22,2.8.12.16),.
vv. 17-18 - Questi due vv. sviluppano il v. 16. Il giudizio di Dio non va concepito come una divisione fra gli uomini che si salvano e quelli che si perdono.
La missione di Gesù è una missione solo di salvezza; Dio ha mandato il Figlio per salvare il mondo, non per giudicarlo. Ma ciò non toglie che la presenza del dono determini una crisi: il dono del Padre può essere accolto o rifiutato. Nel giudizio l’evangelista Giovanni vede non tanto un evento futuro, rimandato alla fine, quanto una realtà attuale, già presente e operante dentro la storia e l’uomo (v. 18).
La fede opera un giudizio, ed è l’uomo stesso che si giudica.
v. 19 - Il giudizio di Dio sul piano storico è espresso in termini di luce-tenebre (cfr. Gv 1,5.9-11) interpretati come termini di confronto per una decisione radicale. La luce è Gesù e la sua rivelazione; le tenebre sono il distacco da Dio e la chiusura dell’uomo in sé,
Il testo di Giovanni, letto con attenzione, offre alcune preziose precisazioni, il IV evangelista definisce gli increduli: coloro che “amano” la tenebra; è il medesimo verbo (agapàn) che definisce, il dono di Dio per l’uomo (v. 16): indica preferenza, attaccamento, scelta consapevole.
Non è solo questione di fare il male (questo può accadere anche per debolezza, come un incidente che non rivela un orientamento di fondo), ma di amare il male!
v. 20 – L’evangelista Giovanni è convinto altresì che chi opera il male finisce necessariamente per odiare la luce; non vuole che le sue opere cattive vengano smascherate (cfr. evangelo scorso, Dom. XXIII Tempo Ord. A: la prassi per salvare il fratello che ha peccato, quando si ostina nel male, è portare il peccato alla luce.).
L’agire condiziona il comprendere: libertà interiore, amore alla verità e alla giustizia, retta vita sono condizioni necessarie e indispensabili per «vedere». L’agire corretto non è solo un fatto di coerenza; è la condizione indispensabile per creare un luogo in cui il mistero dì Dio possa svelarsi in tutta la sua forza di persuasione, un luogo in cui sia possibile intuire la verità, l’origine del Cristo e il suo dono di salvezza.
v. 21 - «Chi opera la verità»: è un’espressione tipicamente semitica, usata solo da Giovanni nel NT (cfr. 1 Gv 1,6). Nell’ AT significa «essere fedeli» ; nella comunità di Qumran indicava un impegno totale di vita, come appunto in Giovanni.
Per l’evangelista infatti la verità non è una nozione da apprendere, e neppure semplicemente una realtà, seppure divina, da conoscere: è il piano salvifico di Dio da accogliere e da costruire.

Colletta
O Padre,
che hai voluto salvare gli uomini
con la Croce del Cristo tuo Figlio,
concedi a noi
che abbiamo conosciuto in terra
il suo mistero di amore,
di godere in cielo i frutti della sua redenzione.
Per il nostro Signore...




Lunedì 9 settembre 2014
Abbazia Santa Maria di Pulsano

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