Clarisse S. Agata"Fratelli"



Fratelli
Questa Parola consegnata alla Chiesa subito dopo i primi due annunci della passione di Gesù
illuminati dalla teofania del Tabor, è la chiamata a vivere secondo l’amore rivelato dalla Croce gloriosa del
Signore. Tutto il capitolo 18 del Vangelo di Matteo descrive il progetto che Gesù lascia ai suoi: quello di essere
una comunità che apre in mezzo ai fratelli la via nuova e
inaudita di un amore più grande, che è il perdono
senza condizioni di Dio stesso! Il perdono infatti è quel dono “eccedente” che prima di tutto si riceve in
modo gratuito e immeritato da parte di Dio. Questo è il solo orizzonte entro il quale vivere la “correzione
fraterna” (il Vangelo di oggi) e diventa possibile perdonare “fino a settanta volte sette”, cioè sempre (come ci
narra il brano immediatamente successivo al Vangelo di oggi: cfr. Mt 18,22.23-35).
Il Vangelo, quindi, ci colloca innanzi tutto nel “luogo” dal quale guardare l’esperienza del limite e del
peccato, il mio come quello del fratello (“Se il tuo fratello commetterà una colpa…”). E quel “luogo” è la croce del
Figlio, là dove “mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” e dove “abbiamo ricevuto la riconciliazione”
(cfr. Rm 5,6-11), il perdono definitivo di Dio. È Gesù il perdono di Dio per ogni “fratello che commette una
colpa”, cioè per tutti, nessuno escluso!Se l’uomo (ogni uomo, perché “tutto hanno peccato” Rm 5,12) giunge a consegnare alla croce il Figlio di
Dio, Dio lo continua ad amare dentro e oltre la consumazione del suo peccato: “Padre, perdona loro” (Lc 23,34).
Il Giusto giustifica gli ingiusti. L’Innocente è con l’uomo che fa il male (“io sono in mezzo a loro”, come è
visibile sul Golgota dove Gesù è in mezzo ai due malfattori) perché il mal-fattore sia con Lui nel paradiso, nel
giardino, nel luogo della massima intimità con Dio.
Perciò il Vangelo di oggi ci sta parlando di relazioni: il nostro Dio ama “essere con noi” (come Gesù
assicurerà anche in Mt 28,20: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”) e fa della comunità degli
uomini “il luogo” della sua presenza, il “luogo” dove Lui continua ad “essere con noi”, il “luogo” della sua
Teofania.
In questo orizzonte dobbiamo quindi collocare la nostra personale esperienza di peccato e quella del
fratello. La Chiesa è una comunità di fratelli perdonati. È un corpo chiamato a vivere nell’unità: quella voluta
ed edificata per sempre da Dio stesso (cfr. Gv 17). Questa consapevolezza ci permetterà di rapportarci non
tanto con il peccato del fratello, ma con il fratello peccatore. Non possiamo mai identificare il peccato con il
peccatore. Perché se il peccato deve essere riconosciuto tale e respinto come causa di rottura dell’unità della
comunione del corpo, il peccatore rimane fratello sempre.
Quindi l’evangelista Matteo ci descrive la prassi per “correggere” il fratello solo come cammino per
“restituire” il fratello al corpo dal quale si è separato e del quale rimane membro. Il peccatore viene messo di
fronte alla responsabilità di essere parte di un corpo più grande, di una comunità di fratelli che sono stati
riconciliati in Cristo: in questo orizzonte potrà aprirsi o chiudersi al riconoscimento della sua colpa e
intraprendere cammini di ritorno e di conversione per la vita (cfr. Ez 33,11). Solo in questo “luogo” nel quale
il fratello può ri-conoscere di essere stato infinitamente amato e perdonato da Dio, sarà possibile riconoscere
nella parola del fratello che lo richiama il segno di quell’Amore dal quale si è allontanato.
Allora anche la durezza con la quale si tratterà il fratello che non avrà ascoltato né il fratello che lo
corregge, né due o tre fratelli, né la comunità, sarà semplicemente un accettare la sua scelta di rimanere escluso
dal corpo della comunità (come accade per i pubblicani e i pagani che, secondo la mentalità giudaica, scelgono
di essere o “cattivi ebrei” o “non-ebrei” e quindi si pongono fuori dall’appartenenza al popolo).
Il dramma della separazione avviene quando il fratello “non ascolterà”, cioè si indurirà così tanto nella
sua colpa da identificarsi con essa; al punto di arrivare a non credere più di essere parte di quel corpo che è la
comunità. Il fratello che non ascolta vive il dramma della fede (perché “la fede viene dall’ascolto” Rm 10,17), di
un mancato affidamento alla parola dei fratelli come parola che il Signore stesso invia a noi per la nostra
vita, per rimanere in Lui, nel Suo corpo.
Tuttavia rimane vero che di fronte al fratello peccatore il vero potere che il Signore conferisce alla sua
chiesa è quello di perdonare, di “sciogliere” piuttosto che quello di “legare”, quello stesso potere conferito a
Pietro (cfr. Mt 16,19) e agli apostoli nel giorno della resurrezione (cfr. Gv 20,23). Infatti anche quando il
fratello si indurirà nella sua colpa, ai fratelli rimane ancora una via per rimanere in relazione con lui: la
preghiera per lui (“se due di voi sulla terra si metteranno d'accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei
cieli gliela concederà”). È bellissima questa vocazione della chiesa: là dove il fratello vive la separazione e non avrà
ascoltato “due o tre testimoni”, “due o tre” fratelli si accorderanno, uniranno le loro voci per lui (“dove sono due o
tre riuniti nel mio nome…”). Nella preghiera i fratelli ritroveranno colui che ha commesso una colpa e
potranno ricostruire quell’unità del corpo della comunità che è teofania del Signore stesso: “…io sono in
mezzo a loro”.
“La vita comune è luogo del perdono.
Nel perdono io dico al fratello che ha compiuto un atto di separazione
dal corpo di cui entrambi siamo membri:
‘io non voglio ridurti all’atto che hai compiuto.
Credo che tu sei molto più grande della tua azione’.
Con il perdono facciamo un’apertura di credito grande verso il fratello
e vogliamo che la relazione con lui
continui pur attraverso la ferita che è stata inflitta.
Il perdono è portare il peso del fratello
e riconoscere che siamo a nostra volta portati”.
(Luciano Manicardi, monaco di Bos

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