JUAN JOSE BARTOLOME sdb Lectio Divina : Mt 22,15-21

19 ottobre 2014 | 29a Domenica A - T. Ordinario | Omelia di approfondimento
Lectio Divina : Mt 22,15-21
La risposta di Gesù può sembrarci oggi felice e, contemporaneamente, evidente; la verità è che in poche parole, e con tanto buon senso, Gesù risolse una questione piuttosto spinosa. Coloro che gli avevano domandato sull'obbligo di dare il tributo, sapevano bene che stavano ordendo una trappola: se avrebbe risposto affermativamente, avrebbe meritato il disprezzo dei suoi uditori più patrioti e la condanna dei pii; tanto gli uni come altri non volevano riconoscere nessun sovrano sulla terra superiore a Dio. Se, al contrario, la sua
risposta sarebbe stata negativa, avrebbe potuto essere presentato davanti alle autorità come un pericoloso agitatore sociale. Gesù riconosce subito la malizia dei suoi interlocutori; ma attribuisce loro solo l'incoerenza: nel servirsi della moneta per compiere l'obbligo del tributo, stanno riconoscendo in realtà come autorità colui che sta obbligandoli a pagare i tributi.

In quel tempo, 15i farisei se ne andarono e giunsero ad un accordo per vedere come cogliere in fallo Gesù nei suoi discorsi. 16Gli inviarono alcuni discepoli, con alcuni erodiani, e gli dissero:
"Maestro, sappiamo che sei sincero e che insegni la via di Dio conforme alla verità. Tu non hai soggezione di nessuno, perché non guardi in faccia a nessuno. 17Dicci, dunque, il tuo parere: è lecito pagare l'imposta a Cesare o no?"
18Conoscendo la loro malizia, disse loro Gesù:
"Ipocriti, perché mi tentate? 19Mostratemi la moneta dell'imposta. "
Gli presentarono un denaro. 20Egli domandò loro:
"Di chi sono questa immagine e questa iscrizione?"
21Gli risposero:
"Di Cesare."
Allora replicò loro:
"Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio."
1. LEGGERE : capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice
Dietro un lungo e duro discorso, composto di tre parabole, con le quali Gesù giustificava la sua autorità nel Tempio (Mt 21,23), Matteo narra tre, degli incontri con i diversi gruppi del giudaismo ufficiale. Il clima è carico di avversione: farisei, erodiani e sadducei mettono alla prova Gesù con diverse questioni estreme e 'delicate.'
Il nostro testo presenta la prima, di origine nettamente politico ma senza dubbio con portata religiosa: la liceità di pagare il tributo a Cesare. La società ebrea era divisa sulla questione. Si richiama l'attenzione sul mettersi d'accordo per mettere nei guai Gesù, ci sono decisi sostenitori di pagare il tributo (erodiani) e chi consentiva a farlo per evitare maggiori fastidi (farisei). La semplice domanda è tutta una trappola: così è introdotta dall'evangelista e così è svelata dallo stesso Gesù. Non domandano per sapere che cosa fare, sanno bene quello che vogliono: che Gesù si condanni da sé stesso con la sua risposta. Negare l'obbligo di pagare il tributo - un tributo personale che ogni ebreo maggiorenne doveva soddisfare una volta all'anno -, imposto venticinque anni prima dagli invasori romani, era delitto di ribellione contro l'imperatore. Se dava per buono il pagamento della somma annuale - equivalente al salario di un giorno lavorativo -, si scontrava col sentimento nazionalista e religioso del paese che si riconosceva solo suddito del suo Signore e Dio. Il pagamento di imposte aveva dato già origine e darà più tardi ad insurrezioni popolari crudelmente represse dai romani.
Benché la questione sia posta a Gesù con molto rispetto ed una cortesia orientale manifesta, non smette di essere malintenzionata. Per quel motivo la risposta di Gesù è contundente nella sua semplicità: se permettono a Cesare di coniare moneta e fanno uso normale di essa, vuole dire che stanno riconoscendo la sua autorità. Che cosa può aggiungere a ciò un pagamento annuale? Senza entrare nel problema né dargli una soluzione che avrebbe causato complicazioni, Gesù si libera della cattiva volontà dei suoi rivali. Ma non solo. E qui sta la chiave per capire la posizione di Gesù: aggiungendo qualcosa che non era contemplato nella questione che gli fu posta che bisogna dare a Dio quello che è suo, cambiò radicalmente prospettiva: è facile restituire il suo al proprietario, ma come soddisfare il debito che si ha con Dio? Ci sono signori che si accontentano della 'sua' moneta; Dio viene 'pagato' con il tutto… Il meno, non è salario degno di Dio.

2 - MEDITARE : Applicare quello che dice il testo alla vita
In un ambiente politico, annichilito dall'occupazione romana, non mostrarsi patriota poteva essere impopolare. Gesù riconosce subito la malizia dei suoi interlocutori: servendosi della moneta per soddisfare i tributi, stanno riconoscendo, in realtà, un'autorità. La cosa importante non è obiettare un potere che non è duraturo e che, in realtà stanno mantenendo, bensì mantenersi soggetti al potere sovrano di Dio. Bisogna dare a Dio quanto gli appartiene. La risposta di Gesù ristabilisce, quasi impercettibilmente, la questione, passando dal problema politico a quello religioso: non è decisivo quanto dobbiamo a Cesare, bensì quello che dobbiamo a Dio; solo rendendoglielo, lo riconosciamo come datore.
La soluzione di Gesù può sembrare un sotterfugio per evitare una situazione delicata; in realtà, è coerente con la sua condotta e la sua predicazione: la libertà di Gesù rispetto ai problemi sociali non è frutto della sua indifferenza, bensì conseguenza della sua passione per Dio ed il suo Regno. A chi si sa debitore di Dio non gli pesano molto gli altri debiti che ha; essere cittadino del Regno non lo libera di essere suddito di Cesare; ma Dio ed il suo Regno vanno sempre in primo luogo, perché esigono tutto. La cosa importante non è obiettare un potere che non è duraturo che loro stessi stanno mantenendo con la loro obbedienza e, inoltre, col loro denaro, dato che confermano la sua autorità pagando il tributo. Decisivo per Gesù è, piuttosto, sapersi figli di Dio la cui sovranità né si sostenta con quanto gli diamo, né sparisce perché gliela neghiamo.
Membri di una società democratica, non riusciamo a capire bene il rischio che Gesù corse rispondendo ad una domanda tanto compromessa: nei suoi giorni, il paese si sentiva sommesso ingiustamente ad un'autorità straniera e, inoltre, pagana; coi tributi sostenevano guerre che non erano loro e si mantenevano leggi che Dio non aveva loro dato. Riconoscere l'autorità romana supponeva essere considerato come traditore del proprio paese e del proprio Dio. Gesù, invece, accetta senza discuterla l'autorità di Cesare, ma la considera parziale: bisogna dargli quanto è suo, tutto quello che gli appartiene, ma solo quello.
La soluzione di Gesù può sembrare un sotterfugio per evitare una situazione delicata; quanti avrebbero voluto tirarlo in questioni politiche, rimasero confusi. Gesù evitò di entrare nella questione che gli esponevano, ma approfittò della domanda per affermare i diritti di Dio senza negare quelli di Cesare. Si mostrava così coerente con la sua condotta e la sua predicazione: la libertà di Gesù rispetto ai problemi sociali non è frutto della sua indifferenza, bensì conseguenza della sua passione per Dio ed il suo Regno; a chi si sa debitore di Dio non gli pesano troppo gli altri debiti che ha, per gravi che siano; essere cittadino del Regno non libera nessuno dall'essere suddito di Cesare; ma Dio ed il suo Regno rimangono sempre in primo luogo.
Nella sua semplicità, la soluzione di Gesù lascia senza obiezioni i suoi rivali: gli avevano posto una questione 'politica', ed egli restituì loro una 'domanda religiosa.' Essi si informarono sul tipo di relazione che Gesù proponeva verso le autorità politiche, e Gesù si preoccupa perché si mettano a pensare sulla relazione che devono avere con Dio. Dare a Dio quello che suo è proporre un compito che rimarrà mai soddisfatto, mentre restituire a Cesare quello che gli appartiene suppone, semplicemente, compiere un debito contratto. Non è da temere un'autorità con la quale si può stare in pace: solo con Dio dal quale abbiamo ricevuto tutto, siamo indebitati. Per quanto gli restituiamo, non gli daremo mai abbastanza, perché riceviamo tutto da Lui.
A Dio gli dobbiamo quanto ci ha concesso: non c'è modo di liberarci di Lui, né quando lo ringraziamo per i suoi doni, perché non facciamo altro che riconoscerli come venuti dalla sua bontà, né quando ci rifiutiamo di saldare il nostro debito di gratitudine. Mentre i doveri sociali sono stati precisati in leggi ed il suo inadempimento rimane penalizzato, il debito che manteniamo con Dio è, come Egli, insobbarcabile. Ma il primato di Dio, ed il nostro perpetuo indebitamento con Lui, lungi dal toglierci la libertà, ce la concede di forma più efficace. Nessuno può schiavizzare il cristiano che è servo fedele del suo Dio. Nessuno può sperare, molto meno esigere, fedeltà assoluta se non da chi si è impegnato ad essere assolutamente fedele e, inoltre, può compiere il suo impegno.
Chi accetta il primato assoluto di Dio nella sua vita, non troverà normalmente molta difficoltà a riconoscere altre servitù; e tributare altre autorità non gli risulterà eccessivamente penoso. Il credente che riesce a mantenere la priorità di Dio e dei suoi diritti, potrà sottomettersi ad altre autorità, senza compromettere la sua obbedienza radicale a Dio e senza perdere la sua libertà interiore. Basta che sappia che quello che è e di quanto dispone lo deve a Dio; chi vive riconoscendosi proprietà di Dio non si sente alienato, quando gli restituisce il dovuto; e vivrà sentendosi ben amato, purché si sappia nelle mani del suo Dio.
Dovrebbe farci pensare l'apparente indifferenza di Gesù di fronte alla questione dei tributi, quella spinosa domanda che gli fu posta: sono rari quelli che pagano imposte di buon grado, molto meno se il potere politico è in mani straniere; quando, come Gesù, si vive invaghiti di Dio e prevalgono i suoi diritti, tutto quello che Egli non è e non appartiene a Lui, non importa tanto. Se, come Gesù, vedessimo i nostri doveri, anche i civili, alla luce dei diritti di Dio, riusciremmo a sentirci sovranamente liberi, senza dovere rifiutarci di rendere il tributo a chi ha il potere di esigerlo.
La libertà che dà il riconoscimento assoluto della sovranità di Dio non è evasione delle nostre proprie responsabilità sociali: nella nostra comunità civile ci sono diritti da rispettare, doveri da compiere, tributi da pagare; non sono migliori o più 'intelligenti' i cristiani che evadono più imposte o esigono maggiore salario; rispondere ai diritti di Dio non può portarci a disinteressarci dei doveri che abbiamo con la nostra società: la promozione di una società più umana, la collaborazione leale con le autorità, l'impegno personale per la giustizia è un dovere che il credente soddisfa, sapendo che non può negare a Cesare senza negarlo al suo Dio. Precisamente perché ci siamo impegnati a dare a Dio tutto quello che è suo, dobbiamo dare agli altri qualcosa di quanto Dio ci ha dato: l'attestazione del suo primato nelle nostre vite e su tutte le altre cose è lo sforzo giornaliero per essere utili alla nostra società.
I Cristiani non serviamo Cesare perché temiamo la sua autorità. Né ci sentiamo oppressi compiendo le sue leggi. Serviamo Dio, perché amiamo la sua autorità e lo ringraziamo dei suoi doni, compiendo la sua volontà. Solo nel caso in cui il nostro servizio a Dio sia in pericolo, discutiamo il servizio a Cesare. Finché non è così, diamo ad uno e all'altro quello che dobbiamo loro: la nostra lealtà e collaborazione puntuale alle autorità ed il nostro completo riconoscimento e culto totale a Dio.


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