mons. Gianfranco Poma" Quello che è di Cesare datelo a Cesare, ma a Dio quello che è di Dio"
XXIX Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (19/10/2014)
Vangelo: Mt 22,15-21
Dopo le tre parabole, ancora nel Tempio, Matteo presenta quattro controversie tra Gesù e i suoi avversari: è una disputa-scontro tra maestri, i dottori della Legge e Gesù, "maestro" la cui autorità è nuova, fondata sulla sua relazione personale con Dio. Gli avversari di Gesù affrontano questioni vive, sempre più importanti, usando i metodi tecnici della loro discussione rabbinica: si rivolgono a lui, chiamandolo "maestro". Ma la loro diventa sempre di più una provocazione: come può rispondere a problemi tanto delicati, lui che va oltre la Legge? In realtà, è lui
che fa prendere coscienza dell'insufficienza delle loro soluzioni costringendoli ad interrogativi sempre più radicale, ponendoli alla fine di fronte a ciò che mette in crisi tutto il loro sistema di vita e di pensierosu: la sua presenza tra loro, lì, nel Tempio, li costringe ad una presa di posizione radicalmente nuova.
Tutto questo è per noi, oggi: chi è per noi Gesù? Abbiamo il coraggio di credere l' "Amore" che ci ha fatto conoscere nelle parabole come fonte della sua "nuova autorità"? Oppure pensiamo ancora che sia la Legge, con i suoi dottori, la fonte dell'autorità che regge la vita?
Il racconto di Matteo (22,15-21) comincia dicendo che "i farisei se ne andarono e tennero consiglio per coglierlo in fallo nella sua parola": lucidamente sono coscienti, i farisei, della radicalità del loro scontro con Gesù, la cui "parola" manifesta la differenza della sua autorità. A loro importa minare l'autorevolezza della la sua parola, mostrarne l'insufficienza nella concretezza dei problemi.
Nell'atmosfera delicata della Giudea del tempo, bastava una parola per provocare la collera della folla o l'intervento brutale della forza romana. Ed è proprio su questo che si concentra la strategia degli oppositori di Gesù: sulla "parola" chiara, libera, di Gesù, che non può, secondo i loro calcoli, le loro strategie, non provocare una rivolta contro di lui, che lo elimini dalla scena. Tutto è ben studiato da parte dei farisei che mandano a Gesù i loro discepoli insieme con gli Erodiani: si tratta di gruppi che, per motivi diversi hanno trovato una modalità di convivenza pacifica con i Romani. Il ritratto che essi fanno del "maestro" Gesù è positivo: egli è fedele alla Legge, è "vero" e non è condizionato da nessuno perché "non guarda in volto all'uomo". "Verità" e "libertà" riconoscono in Gesù: ma ancora non hanno capito che egli non è condizionato dalle reazioni dell'uomo perché guarda il volto del Padre. Così, mentre essi si illudono di poter prenderlo in fallo ritenendo fragile la radice della sua libertà di giudizio, coinvolgendolo in una disputa che contrapponeva i diversi partiti del tempo: "E' lecito o no pagare il tributo a Cesare?", è lui che, partendo proprio da ciò che avevano pensato tenendo "un consiglio" ufficiale, li costringe a percorrere un cammino, che non è contro la Legge di cui essi sono maestri, ma che oltrepassandola, raggiunge la sua pienezza. Così la disputa se sia lecito o no pagare il tributo a Cesare, disputa teologica sull'autorità della Legge, alla quale sono legati i farisei, diventa anora una volta una disputa sull'autorità di Gesù, sulla radice della libertà non contraria alla Legge e riconosciuta dai farisei, nella quale egli si muove. a L'ipocrisia della loro condotta bollata Gesù è per il modo subdolo con cui si rapportano a lui, ma è ancora di più la doppiezza con cui si comportano coloro che fanno coincidere la fedeltà alla Legge con la fedeltà a Dio, dovendo poi cercare vie che giustificano il loro continuo sforare la Legge per la complessità della vita umana. La libertà di Gesù è fondata sulla relazione filiale con Dio: la Legge ne è una manifestazione autorevole, ma storica. Se viene identificata con Dio, rischia di far morire l'esperienza viva di Dio, rischia di far morire l'uomo che vive della relazione con Dio. Gesù si fa mostrare la moneta del tributo: i farisei l'avevano, lì, nel Tempio. Hanno già sforato la Legge. Adesso Gesù invita i suoi interlocutori a riscoprire il fascino della relazione viva con Dio: sulla moneta c'è l'immagine e l'iscrizione di Cesare. L'immagine di Cesare, del potere, è solo su una moneta, su una cosa: tutto è fragile. È con una cosa che si stabilisce la relazione di un potere fragile. Ma l'uomo è immagine di Dio: se l'uomo vive la sua relazione con Dio è libero, vive di tutto, dentro la storia, ma non è schiavo di niente. L'uomo non vive fuori del mondo, ma non ne è servo: l'uomo vive in relazione con Dio, immagine inesauribile dell'infinito, mai definitivamente scritta. Sperimentare l'infinito dentro le cose anche drammatiche del mondo è l'esperienza del Figlio di Dio, libero per amare, negli eventi concreti della storia, senza essere schiavi di nulla e di nessuno. "Le cose di Cesare, datele a Cesare, ma quelle di Dio datele a Dio": quanto più la relazione personale è viva, dinamica, non ipocrita, vera, tanto più realizza il senso dell'esistenza dell'uomo immagine libera dell'infinito di Dio.
Vangelo: Mt 22,15-21
Dopo le tre parabole, ancora nel Tempio, Matteo presenta quattro controversie tra Gesù e i suoi avversari: è una disputa-scontro tra maestri, i dottori della Legge e Gesù, "maestro" la cui autorità è nuova, fondata sulla sua relazione personale con Dio. Gli avversari di Gesù affrontano questioni vive, sempre più importanti, usando i metodi tecnici della loro discussione rabbinica: si rivolgono a lui, chiamandolo "maestro". Ma la loro diventa sempre di più una provocazione: come può rispondere a problemi tanto delicati, lui che va oltre la Legge? In realtà, è lui
che fa prendere coscienza dell'insufficienza delle loro soluzioni costringendoli ad interrogativi sempre più radicale, ponendoli alla fine di fronte a ciò che mette in crisi tutto il loro sistema di vita e di pensierosu: la sua presenza tra loro, lì, nel Tempio, li costringe ad una presa di posizione radicalmente nuova.
Tutto questo è per noi, oggi: chi è per noi Gesù? Abbiamo il coraggio di credere l' "Amore" che ci ha fatto conoscere nelle parabole come fonte della sua "nuova autorità"? Oppure pensiamo ancora che sia la Legge, con i suoi dottori, la fonte dell'autorità che regge la vita?
Il racconto di Matteo (22,15-21) comincia dicendo che "i farisei se ne andarono e tennero consiglio per coglierlo in fallo nella sua parola": lucidamente sono coscienti, i farisei, della radicalità del loro scontro con Gesù, la cui "parola" manifesta la differenza della sua autorità. A loro importa minare l'autorevolezza della la sua parola, mostrarne l'insufficienza nella concretezza dei problemi.
Nell'atmosfera delicata della Giudea del tempo, bastava una parola per provocare la collera della folla o l'intervento brutale della forza romana. Ed è proprio su questo che si concentra la strategia degli oppositori di Gesù: sulla "parola" chiara, libera, di Gesù, che non può, secondo i loro calcoli, le loro strategie, non provocare una rivolta contro di lui, che lo elimini dalla scena. Tutto è ben studiato da parte dei farisei che mandano a Gesù i loro discepoli insieme con gli Erodiani: si tratta di gruppi che, per motivi diversi hanno trovato una modalità di convivenza pacifica con i Romani. Il ritratto che essi fanno del "maestro" Gesù è positivo: egli è fedele alla Legge, è "vero" e non è condizionato da nessuno perché "non guarda in volto all'uomo". "Verità" e "libertà" riconoscono in Gesù: ma ancora non hanno capito che egli non è condizionato dalle reazioni dell'uomo perché guarda il volto del Padre. Così, mentre essi si illudono di poter prenderlo in fallo ritenendo fragile la radice della sua libertà di giudizio, coinvolgendolo in una disputa che contrapponeva i diversi partiti del tempo: "E' lecito o no pagare il tributo a Cesare?", è lui che, partendo proprio da ciò che avevano pensato tenendo "un consiglio" ufficiale, li costringe a percorrere un cammino, che non è contro la Legge di cui essi sono maestri, ma che oltrepassandola, raggiunge la sua pienezza. Così la disputa se sia lecito o no pagare il tributo a Cesare, disputa teologica sull'autorità della Legge, alla quale sono legati i farisei, diventa anora una volta una disputa sull'autorità di Gesù, sulla radice della libertà non contraria alla Legge e riconosciuta dai farisei, nella quale egli si muove. a L'ipocrisia della loro condotta bollata Gesù è per il modo subdolo con cui si rapportano a lui, ma è ancora di più la doppiezza con cui si comportano coloro che fanno coincidere la fedeltà alla Legge con la fedeltà a Dio, dovendo poi cercare vie che giustificano il loro continuo sforare la Legge per la complessità della vita umana. La libertà di Gesù è fondata sulla relazione filiale con Dio: la Legge ne è una manifestazione autorevole, ma storica. Se viene identificata con Dio, rischia di far morire l'esperienza viva di Dio, rischia di far morire l'uomo che vive della relazione con Dio. Gesù si fa mostrare la moneta del tributo: i farisei l'avevano, lì, nel Tempio. Hanno già sforato la Legge. Adesso Gesù invita i suoi interlocutori a riscoprire il fascino della relazione viva con Dio: sulla moneta c'è l'immagine e l'iscrizione di Cesare. L'immagine di Cesare, del potere, è solo su una moneta, su una cosa: tutto è fragile. È con una cosa che si stabilisce la relazione di un potere fragile. Ma l'uomo è immagine di Dio: se l'uomo vive la sua relazione con Dio è libero, vive di tutto, dentro la storia, ma non è schiavo di niente. L'uomo non vive fuori del mondo, ma non ne è servo: l'uomo vive in relazione con Dio, immagine inesauribile dell'infinito, mai definitivamente scritta. Sperimentare l'infinito dentro le cose anche drammatiche del mondo è l'esperienza del Figlio di Dio, libero per amare, negli eventi concreti della storia, senza essere schiavi di nulla e di nessuno. "Le cose di Cesare, datele a Cesare, ma quelle di Dio datele a Dio": quanto più la relazione personale è viva, dinamica, non ipocrita, vera, tanto più realizza il senso dell'esistenza dell'uomo immagine libera dell'infinito di Dio.
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