Alberto Vianello" Vivere i doni con umile risolutezza"

Monastero Marango  Caorle (VE)
Letture: Pr 31,10-13.19-20.30-31; 1Ts 5,1-6; Mt 25,14-30 
I talenti sono essenzialmente dei doni. Infatti sono, nella parabola, il denaro che il padrone lascia ai suoi servi prima di partire. I servi non avrebbero mai potuto procurarseli, perché i servi non ne potevano disporre. Quindi i talenti non sono delle doti o delle capacità che uno ha e che gli permettono di affermare se stesso,
magari in antagonismo con gli altri. Tutto quello che siamo e facciamo è tutto e solo dono gratuito del Signore.
Il padrone dà i talenti ai servi in misura diversa: «secondo le capacità di ciascuno». Non vuol dire che fa differenze: rispetta e valorizza quello che uno è capace di fare. Non sarebbe stato più equanime si avesse dato a tutti lo stesso numero di talenti. E ciascuno è chiamato a realizzare secondo la propria misura, e non quella degli altri. I rabbini dicevano che, davanti al tribunale di Dio, non ci sarà chiesto se siamo stati Abramo o Mosé, ma se siamo stati noi stessi. Chissà se il servo dell’unico talento non lo abbia saputo far fruttare magari perché è rimasto a recriminare sull’aver ricevuto meno degli altri!?
In ogni modo, pochi o tanti, i talenti sono niente, a confronto con la ricompensa del Signore. Anche ai primi due che pure avevano ricevuto di più del terzo, infatti, dice: «Sei stato fedele nel poco, ti darò potere sul molto».

Il padrone non dice cosa devono fare con quel denaro. I primi due servi si impegnano come se fosse loro: cercano di farlo fruttare, anche con qualche rischio, come si fa con i propri soldi, tanto sudati e tanto preziosi per la vita della famiglia. Il terzo, invece, si mantiene ben distante dal dono del signore. Quando questi torna, gli dice: «Ecco ciò che è tuo». Il capitale di quel dono non l’ha mai considerato suo. I doni sono del Signore: suoi regali, che noi non potremmo procurarci e ai quali non possiamo corrispondere. Ma, una volta ricevuti, li dobbiamo trattare come se fossero nostri, mettendoci tutto noi stessi per farli propri, affinché portino frutto. I doni del Signore ci nobilitalo, ma perché noi ci nobilitiamo facendoli fruttare.
I talenti sono come la creazione: fatta da Dio e messa nelle mani dell’uomo, perché la lavori, per la gloria di Dio e per la propria dignità di essere stato fatti per questo.

Il padrone chiama i primi due servi «buoni e fedeli». Bontà e fede stanno insieme nel vivere autenticamente dei doni ricevuti dal Signore. E l’esempio del comportamento dei primi due, che rischiano i talenti pur sapendo che non sono loro, mi ricorda «l’umile risolutezza» di papa Giovanni, che ha avviato il cambiamento della Chiesa e del mondo.
Però, la ricompensa più grande non è tanto la lode ricevuta, quanto il poter «prendere parte alla gioia del tuo padrone». I doni alla nostra vita sono briciole, rispetto a tutto ciò che Dio ci donerà quando verrà nel suo Regno. E la beatitudine più grande sarà partecipare al banchetto della sua gioia.

La figura del terzo servo è l’emblema e la sintesi del modello di uomo che la attuale società consumistica vuole determinare: colui che rimane ancorato alle proprie sicurezze, che si guarda bene dallo spendersi per ciò che non è suo, che teme il giudizio degli altri, che preferisce delegare agli altri, che non si prende responsabilità, che non assume la vita come compito… Se avesse sperperato tutto come il figliol prodigo, almeno avrebbe incontrato, alla fine, la misericordia del Signore. Meglio usarli male quei talenti, ma usarli! Invece, così, si sente nel giusto, pur non avendo fatto nulla di giusto, ovvero non avendo permesso al capitale di fare la sua funzione: quella di fruttare moltiplicandosi con gli interessi.
Tutto nasce da un’idea sbagliata che si è fatto il suo padrone e quindi da un rapporto distorto con lui. In verità, non sappiamo ciò che veramente pensa del suo padrone. Perché, se davvero lo considerava così pretenzioso e duro come egli dice, a maggior ragione si sarebbe sentito spinto a capitalizzare il talento invece di sotterrarlo, come gli fa osservare il padrone. Forse, questo servo riflette sul padrone una sua durezza, per la quale vorrebbe ottenere un riconoscimento per ciò che non ha ottemperato. È lui quello che «miete dove non ha seminato e raccoglie dove non ha sparso», egli pretende di essere giusto davanti al suo padrone, pur non avendo capitalizzato il suo denaro.
Così il servo dell’unico talento, che non ha voluto e saputo far fruttare, condanna se stesso: si esclude dalla fiducia del suo Signore, non contribuisce a edificare il Regno con i doni che ha ricevuto, mette fine a qualsiasi relazione positiva con chi ha creduto in lui.
Dio, in Gesù Cristo, non vuole nulla da noi. Vuole solo che viviamo dei suoi doni, facendoli nostri e sentendoci responsabili del Regno a cui siamo chiamati, insieme agli altri, con i talenti ricevuti e moltiplicati, per partecipare alla gioia del Signore per i suoi figli.

Alberto Vianello

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