don Luca Garbinetto " Il Re medico dell'anima e del corpo"


XXXIV Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) - Cristo Re (23/11/2014)
Sono numerosi i testi profetici che annunciano la venuta del Messia come la realizzazione di ‘nuovi cieli e nuova terra' (Is 65, 17), in cui i diseredati e gli emarginati troveranno consolazione e sollievo. La venuta definitiva di Dio per portare a compimento il suo Regno corrisponderà con l'instaurazione di un mondo di relazioni nuove, in cui tutti godranno con abbondanza delle delizie della Sua presenza.

Per Isaia, questa visione escatologica comporta, come per ricaduta, la necessità di un impegno etico autentico e credibile, affinché fin d'ora chi si professa religioso contribuisca ad anticipare la realizzazione di tale promessa. Le scelte morali dell'uomo, dunque, vanno misurate a partire da questa prospettiva di bene e di futuro, chiamandoci così ad agire adesso sul piano delle relazioni umane, perché queste siano il più possibile secondo il cuore di Dio. Ecco perché per il profeta il vero digiuno, cioè il più arduo e significativo dei gesti religiosi, piuttosto che trasformarsi in una pratica autoreferenziale e individualista di mortificazione, deve configurarsi come una continua ed efficace azione di misericordia. ‘Sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi... dividere il pane con l'affamato, introdurre in casa i miseri, senza tetto, vestire uno che è nudo...' (cfr. Is 58, 6-7): ecco i gesti veramente religiosi, che fanno di chi li compie una luce che sorge ‘come l'aurora' (Is 58,8a).
È l'anticipo dell'alba definitiva, dell'incontro con la luce folgorante del Re dell'Universo, Buon pastore attento al proprio gregge, giusto e misericordioso. È l'annuncio del giudizio finale, che in realtà si compie fin d'ora e che sta nelle nostre mani, nella possibilità che abbiamo di scegliere se entrare o meno nella logica delle relazioni nuove, decentrate verso il debole e il bisognoso.
Perché, allora, operare come misericordiosi? Nel Vangelo di Matteo, Gesù promette la beatitudine, la felicità, a coloro che sono misericordiosi (cfr. Mt 5, 7). Ci si guadagna parecchio, insomma! L'importante è non concentrarsi troppo sulla misura della nostra felicità, perdendone di vista la fonte e il motivo: la carità verso i fratelli più piccoli. Lì è il punto di svolta: con-vertire gli occhi e il cuore agli altri, spostare l'attenzione da noi a loro, spendere le migliori nostre energie nel proiettarci verso il prossimo anziché nel focalizzarci sul nostro ombelico.
Appare curioso, infatti, ma decisivo, notare che i ‘benedetti del Padre mio' (25, 34) hanno vissuto tutta la vita senza rendersi conto del tanto bene che stavano facendo: ‘Quando mai...' abbiamo fatto questo? (cfr. 25, 37-39). Come può accadere ciò?
La continuazione del testo di Isaia 58 ci aiuta a comprendere. Chi sceglie il ‘digiuno che vuole il Signore' avrà infatti una ricompensa inattesa: ‘la tua ferita si rimarginerà presto' (Is 58, 8b). E sarà solo allora che camminerà davanti a lui la giustizia. Dunque, giustizia è guarigione! Dunque, il vero malato non è tanto colui che il giusto è andato a visitare, bensì lo stesso giusto, l'uomo religioso, ogni uomo! Sono io il povero!
Ci fa tanto bene, nella festa di Cristo Re dell'Universo, riconoscere per un momento quanto siamo tutti malati, feriti profondamente, bisognosi di sanazione. La fragilità degli affamati e assetati, dei nudi e dei carcerati, dei malati e degli stranieri - quanta fragilità in questi tempi nell'incontro tra popoli! - non è nient'altro che la manifestazione, l'epifania della nostra profonda fragilità. Le ferite del corpo e dell'agire non sono nient'altro che icona della ferita dell'anima, che ci attanaglia tutti. Siamo feriti dal peccato dell'orgoglio, dell'individualismo, dell'egoismo. La ferita è dolorosa: spurga in rivoli di violenza e di disperazione.
Oggi il nostro Re ci suggerisce la cura, ci dona la medicina: è il nostro fratello più piccolo! Il bisognoso, l'emarginato, proprio colui che ‘non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, né splendore per poterci piacere' (Is 53, 2b) è appello potente affinché intraprendiamo l'itinerario della guarigione. Il fratello che sta alla nostra porta e bussa, infatti, attendendo silenziosamente ma insistentemente, come vedova dolorosa, che qualcuno gli apra, è la presenza del Signore che non si stanca di venire a noi perché noi possiamo accogliere la sua medicina. Egli ci salva dalla nostra superbia perché ci permette di aprirci, ci sollecita ad uscire da noi stessi, ci obbliga ad attraversare la feritoia del nostro dolore sporgendoci verso l'altro per un incontro.
Possiamo dunque pensare il giorno del nostro incontro definitivo con il Re dell'Universo, e il giorno della sua ultima venuta nel mondo, non tanto come il processo di un tribunale che mira alla sentenza senz'appello, quanto piuttosto come un ultimo struggente appello a lasciarci guarire. Gesù, il Figlio di Dio, che ha vissuto e vive la sua regalità lavando i piedi ai propri amici, verrà per toccare ancora una volta le nostre ferite e sanarle, laddove noi non avremo ancora avuto il coraggio di lasciarci sfiorare dai poveri, che sono la Sua presenza fra noi. Gesù, Medico delle anime e dei corpi, verrà per una diagnosi di misericordia, desideroso soltanto che tutti noi, riconoscendoci malati e prigionieri del nostro peccato, ci saremo lasciati visitare da Lui, per introdurci nel Regno in cui ‘non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate' (Ap 21, 4b) e la ferita è rimarginata.

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