CIPRIANI SETTIMO SDB "In questi ultimi giorni Dio ha parlato a noi per mezzo del Figlio"

25 dicembre 2014| Natale di Gesù - Anno B | Appunti per la Lectio
Se la Liturgia delle due Messe precedenti (durante la notte e all'aurora) è tutta piena di commozione e di stupore per il mistero della nascita del Figlio di Dio, quella della terza Messa, oltre che di gioia, è carica di lirismo e di contemplazione teologica, la più ardita che si sia mai potuta fare: basti pensare ai due "prologhi" della lettera agli Ebrei e del quarto Vangelo, che ci vengono proposti come seconda e terza lettura!

Anche la colletta coglie in profondità il senso teologico di quanto è avvenuto oggi. Non è soltanto il Figlio di Dio che si è fatto uomo (e già questo è motivo di gioia immensa!), ma è l'uomo che, nel Figlio di Maria, è ormai assunto a vivere la vita stessa di Dio: "O Dio, che in modo mirabile ci hai creati a tua immagine, e in modo più mirabile ci hai rinnovati e redenti, fa' che possiamo condividere la vita divina del tuo Figlio, che oggi ha voluto assumere la nostra natura umana".
La redenzione, che oggi incomincia il suo fatidico itinerario, ci ha riportati a dignità più grande di quella che Dio già ci aveva concesso "creandoci" a sua immagine. In Gesù, "impronta della sostanza" del Padre, come ci dirà la lettera agli Ebrei (1,3), l'uomo riacquista anche più nitidamente la sua "rassomiglianza" con Dio.

"E il Verbo si fece carne"
In fin dei conti, è proprio questo messaggio del meraviglioso "prologo" del Vangelo di Giovanni, sul quale avremmo infinite cose da dire e che ora vogliamo leggere soprattutto in chiave natalizia, senza perderci in sottili dettagli esegetici.
E in chiave natalizia mi sembra che il punto culminante di tutto il brano sia rappresentato dal v. 14: "E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità".
"Farsi carne" non è semplicemente "farsi uomo", diventare uno di noi. Infatti il termine sarx (= carne), corrispondente all'ebraico basàr, non designa tanto l'uomo in genere, quanto l'uomo nella sua condizione di debolezza, di friabilità, di morte, di limite, perfino di peccabilità. Non si poteva perciò esprimere in maniera più forte il realismo dell'Incarnazione e il volontario abbassamento di Cristo: Paolo parlerà addirittura di "svuotamento" o di "spogliamento", che il Figlio di Dio ha fatto di se stesso quando è diventato nostro fratello.
L'Incarnazione, inoltre, non è stata un gesto momentaneo, ma ha realizzato una permanenza di "abitazione" in mezzo a noi. Invece di "venne ad abitare" meglio sarebbe, secondo il testo greco, tradurre "pose la sua tenda (eskénosen) in mezzo a noi", per esprimere sia l'esperienza "peregrinante" di Gesù come gli Ebrei nel deserto, sia la presenza di Jahvè che, nella "tenda" dell'alleanza, convive con il suo popolo. Ormai, in Gesù, Dio si è talmente "avvicinato" all'uomo da diventare uno di noi.

"In principio era il Verbo"
Tutto questo tanto più ci sorprende, se adesso rileggiamo la prima parte del prologo, dove si parla della preesistenza del Verbo presso il Padre e della sua potenza creatrice: "In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste" (Gv 1,1-3).
In formule, via via ampliantisi circolarmente, san Giovanni ci dice che Gesù di Nazaret, che gli uomini hanno incrociato nelle loro strade, portava con sé un enorme mistero: era il Figlio stesso di Dio, di cui come "Parola" fedele (= Verbo) esprimeva e portava tutta la realtà, che da sempre esiste presso il Padre e con lui è l'autore stesso della creazione. Così che nel prodigio dell'Incarnazione egli diventa parte della sua stessa opera: egli, in un certo senso, diventa "fattura" di se stesso! Colui che trascende il tempo e lo spazio, si imprigiona nel tempo e nello spazio.

"E noi vedemmo la sua gloria"
Incarnandosi, perciò, Gesù non è stato promosso ma si è umiliato. Eppure abbiamo sentito che l'evangelista considera tutto questo come un'espressione di "gloria": "E noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità" (v. 14).
In genere gli esegeti vedono in questo verso un riferimento a certi momenti di manifestazione gloriosa di Gesù, come la sua trasfigurazione, o i suoi "miracoli", che Giovanni chiama anche "segni" (2,11; 4,54; 6,30; ecc.). In realtà, abbiamo l'impressione che Giovanni veda la "gloria" di Dio in Cristo proprio in questo suo farsi uomo, in questo suo discendere nell'abisso della nostra miseria: è qui che si rivela la grandiosità dell'amore di Dio, che si esalta proprio nell'umiliazione che egli fa di se stesso.
Qualcosa di simile a quello che il quarto evangelo insegna della crocifissione che, prima e più della stessa risurrezione, è espressione della "glorificazione" del Figlio: "È giunta l'ora che sia glorificato il Figlio dell'uomo. In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto" (Gv 12,23-24). La "gloria" di Cristo consiste in questo suo farsi "chicco di grano" che "muore", proprio perché solo così apporterà il "frutto" della salvezza a tutti gli uomini.

"Egli era nel mondo, eppure il mondo non lo riconobbe"
Ma proprio perché la "gloria" di Cristo si manifesta in una forma così paradossale e, in fin dei conti, anche ambigua, c'è la possibilità di rimanere scandalizzati davanti a lui e di respingere il "dono" di Dio. È quello che tragicamente si è verificato e che Giovanni mette in evidenza non solo nel prologo ma lungo tutto il suo Vangelo, che è la narrazione di un autentico scontro "drammatico" fra luce e tenebre, vita e morte, amore e odio.
"In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l'hanno accolta... Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe. Venne fra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto" (vv. 4-5.10-11). Il paradosso è che "il mondo" non respinge un estraneo, ma colui che "l'ha fatto"! Peggio ancora: sono quelli della sua stessa famiglia, la "sua gente", che non lo ricevono. Il riferimento, in queste ultime parole ("i suoi", in greco oi ìdioi), è evidentemente ai Giudei del tempo di Gesù, che non lo accolsero né quando venne alla luce a Betlemme di Giudea, né durante la sua vita pubblica, che anzi lo fecero appendere al legno della croce.
In realtà, non è facile "accogliere" Gesù nella pienezza di significato di questo termine: si tratta, infatti, di farne esperienza fino al punto di lasciarsi da lui trasfigurare in quello che è lui, cioè in "figli di Dio". E questo è un processo che può avvenire solo in forza della "fede", per cui mentre vediamo davanti a noi un semplice fanciullo, o un puro essere umano, in realtà lo accettiamo come il Figlio di Dio che si è abbassato fino a noi per salvarci e farci partecipi della sua "pienezza".

"A quanti l'hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio"
È quanto ci dice con espressioni altissime Giovanni verso la fine del prologo: "A quanti però l'hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati" (vv. 12-13). Il processo generativo, per cui diventiamo figli di Dio, non avviene per la via naturale, a cui alludono i vari elementi qui ricordati ("sangue", "volere di carne", ecc.), ma solo per la potenza dello Spirito, che è stato all'origine della nascita stessa di Cristo.
La "fede", intesa come radicale disponibilità a Dio e al suo disegno di amore, ci permette di entrare in comunione con lui, di accettare la salvezza che egli ci offre in Cristo, "rinascendo" anche noi con lui a vita nuova. È il dono che Cristo ci fa nel suo Natale: qualcosa della sua "pienezza" si travasa anche in noi che così gli diventiamo veramente "fratelli": "Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia. Perché la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo" (vv. 16-17).
Nella festa del Natale perciò noi celebriamo non soltanto la nascita di Gesù, ma anche la rinascita di ciascuno di noi nello spirito dell'adozione "filiale", come insegnerà anche più insistentemente san Paolo.
È questa la grande "rivelazione" che ci ha fatto Gesù venendo in mezzo a noi: "Dio nessuno l'ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato" (v. 18). In lui non abbiamo conosciuto soltanto il volto del Padre, ma abbiamo riconosciuto anche il "nostro" volto, perché ci ha assimilati in tutto a se stesso, fino a farci vivere la sua stessa vita.

"Dio, che aveva già parlato per mezzo dei profeti..."
Anche il prologo della lettera agli Ebrei ci dice che in Cristo è avvenuta la rivelazione ultima e definitiva: "Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo" (Eb 1,1-2).
A differenza della prospettiva giovannea, che tendeva a far vedere l'inabissamento del Verbo, la lettera agli Ebrei vuol farne vedere la grandezza, nonostante l'umiliazione. Perciò ne sottolinea tutti gli elementi di trascendenza. Viene dopo tutti i profeti, perché lui soltanto è la "parola" definitiva; è il "Figlio", e in quanto tale ha il dominio e "l'eredità" di tutto, anche perché è il "creatore" dell'universo (v. 2).

"Questo Figlio, che è irradiazione della sua gloria..."
Riprendendo alcune espressioni che si ritrovano nell'Antico Testamento per descrivere la "sapienza", l'autore della lettera continua: "Questo Figlio, che è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza e sostiene tutto con la potenza della sua parola, dopo aver compiuto la purificazione dei peccati, si è assiso alla destra della maestà nell'alto dei cieli, ed è diventato tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato" (vv. 3-4).
Le immagini dell'"irradiazione", che ha origine dalla stessa sorgente di luce, e dell'"impronta" che viene riprodotta fedelmente sulla cera, premendo il sigillo, stanno a dire l'identità di natura tra il Padre e il Figlio, e nello stesso tempo la distinzione delle persone. Proprio per questo, pur essendosi abbassato alla nostra condizione umana per "purificare i nostri peccati" (v. 3), ha diritto di assidersi "alla destra della maestà" di Dio, infinitamente al di sopra degli "angeli" (v. 4).
In fin dei conti, anche se per vie diverse, l'autore della lettera agli Ebrei e san Giovanni convergono nel dirci che l'Incarnazione, pur rappresentando il gesto estremo di umiliazione del Figlio di Dio, è nello stesso tempo la "gloria" più vera e più autentica che Dio poteva procurare a se stesso.

"Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunzi!"
Si capisce allora anche la gioia prorompente della prima lettura, che nel suo significato più immediato si riferisce al grande annunzio della liberazione degli Ebrei dalla schiavitù babilonese e della restaurazione di Gerusalemme. Si immagina poeticamente che un messaggero venga a darne in anticipo la lieta notizia: "Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunzi che annunzia la pace, messaggero di bene che annunzia la salvezza, che dice a Sion: "Regna il tuo Dio"... Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme..." (Is 52,7.9).
Il "regno", di cui hanno parlato a lungo i profeti e i salmisti, è finalmente arrivato con Gesù di Nazaret, che nasce però in maniera tutt'altro che regale. Ma proprio in questa "regalità" velata si manifesta la "potenza" di Dio, che ormai estende la sua salvezza fino agli estremi confini della terra, ben al di là della Gerusalemme terrena: "Il Signore ha snudato il suo santo braccio davanti a tutti i popoli; tutti i confini della terra vedranno la salvezza del nostro Dio" (Is 52,10).
Il Natale è davvero la festa dei "paradossi": nella umiliazione del suo Figlio Dio rivela la sua "gloria", nella debolezza la sua "potenza". La fede ci aiuta a scoprire in tutto questo lo stile di Dio, che ama più "proporsi" nella semplicità che "imporsi" nella forza agli uomini.

  Da CIPRIANI S.

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