Don Paolo Zamengo SDB"Una famiglia "

 Lc 2, 22-40 "Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe "
Il Natale è un mistero di progressiva incarnazione. L’ingresso in una concreta famiglia ci dice che Gesù vuole di entrare in tutte le pieghe dell’avventura umana: la povertà e la precarietà, la persecuzione e l’esilio, la morte e
la sepoltura. Dio ha provato sulla propria pelle il mestiere difficile dell’essere uomo. La normale famiglia di Nazareth non è un’astrazione o un vago riferimento spirituale ma un modello concreto cui attingere una lezione di vita.

I genitori di Gesù, custodi di se stessi e del proprio figlio, emergono con autorevolezza, pronti a indicare la rotta, a prendere decisioni, a stabilire i tempi del partire, dell’andare e del fermarsi. Il valore umano dell’amore e della responsabilità hanno sempre, per loro,  sorgente e riferimento in Dio. Questa famiglia è sintonizzata su Dio.

Dopo quaranta giorni dalla nascita, i due sposi, con il loro piccolo, si recano al tempio. Si tratta di un gesto tradizionale, prescritto dalla legge.  E, tuttavia, il rito che compiono fa capire con quale atteggiamento Maria e Giuseppe guardano al loro bambino.

Non è una loro proprietà, come invece è sancito dal diritto romano. Su di lui non hanno un potere assoluto e tanto meno quello di accoglierlo o di rifiutarlo. Ogni figlio è un dono da accogliere con gioia e gratitudine, un dono affidato alle loro cure, un dono di Dio perché solo a lui appartiene la nostra esistenza. I due giovani colombi offerti sono il riconoscimento di tutto questo.
Quel figlio, tuttavia, è dono in modo del tutto particolare: è il dono di Dio all’umanità. Non realizzerà i loro sogni o speranze ma il progetto di Dio. Ai genitori spetta solo il compito di crescerlo e di prepararlo alla vita, non lasciandogli mancare nulla di ciò che è indispensabile. Così lo colmeranno di affetto, lo nutriranno, gli insegneranno a muovere i primi passi, gli trasmetteranno la fede dei padri, gli insegneranno un lavoro...
Quello che accade nel tempio aiuta Maria e Giuseppe ad andare oltre il rito previsto: lì, nella casa di Dio, Gesù incontra il suo popolo, coloro che lo attendono con tutto il cuore. Lì è riconosciuto dal vecchio Simeone come un dono per tutti: salvezza e luce offerta ad ogni uomo.
Compiuto il rito, la famiglia torna a casa e si immerge nel tessuto quotidiano di un villaggio: la missione di Maria e Giuseppe si compie nello scorrere dei giorni, mentre Gesù cresce in sapienza e grazia. Nei loro atteggiamenti e nel loro impegno, nella loro gratitudine e nel loro amore ogni papà e ogni mamma sono invitati a riconoscersi per fare, della propria famiglia, un frammento di Nazareth, per affrontare con la stessa fiducia le prove e le gioie.
Passarono anni di vita nascosta, lontana da ogni rumore, in piena periferia della storia, a marciare tra asini, vento caldo e ordinarietà. Questa esperienza ci fa domandare la ragione di trent’anni spesi apparentemente nel niente. Il Figlio di Dio, mandato dal Padre, vive nascosto al mondo.  Solo Maria e Giuseppe conoscono il suo mistero. In questi anni di nascondimento, alla loro ombra, c’è tutto il valore e la grandezza della vita quotidiana di ciascuno di noi. Trent’anni su trentatré!

Non è stato tempo perduto. Infatti, proprio la realtà quotidiana e ordinaria è lo spazio pubblico dove si manifesta il dono della vita cristiana. A volte coltiviamo l’idea che per essere impegnati nella missione si debba essere per forza di frontiera e in visibilità. Ma conta di più vivere nella vita quotidiana, fratelli di tutti, convinti che la parola di Dio, accolta e vissuta, corre e convince.

Ma ritorniamo nel tempio. Abramo, Sara, Simeone e Anna sono persone anziane. Uno dei miti del nostro tempo è quello dell’eterna giovinezza, dell’essere sempre in forma, di poter mascherare i segni del tempo. Questa ossessione in fondo nasce prevalentemente dalla paura: di non essere accettati, di perdere delle occasioni. Paura dei limiti della vita, della morte. Il cercare di mantenersi giovani è in fondo lo sforzo di fermare il tempo e di voler permanere in un’epoca della vita umana che viene continuamente evocata, lodata, ricordata con nostalgia. “Ai miei tempi...”.
Gli anziani che incontriamo, oggi, in questa festa di famiglia, sono di tutt’altro genere. Abramo, Sara, Simeone e Anna ci insegnano la pazienza e la speranza. La pazienza di maturare, di attendere, di desiderare, di impegnarsi. La speranza nel dolore della sterilità e nelle fatiche della vecchiaia. La speranza nella solitudine della vedovanza (Anna) e nella fiducia della preghiera, nell’andare alla presenza del Signore nel tempio, più che dall’estetista... La speranza nei doni di Dio: un figlio e il Messia.
Sono anziani che sembrano guardare e pensare solo al futuro, non al passato: un figlio che nascerà, un Messia che verrà. Sono persone educate dal tempo a dare tempo alle promesse di Dio, a riconoscere in ciò che accade, il passaggio del Signore. Sono persone che sanno abbandonare e abbandonarsi nella fiducia, non nella rassegnazione, nella paura o nel risentimento. Nelle loro parole quanta umiltà e speranza!
Poiché gli estremi si toccano, gli anziani sono come i bambini: preziosi e fragili, ricchi di vita e bisognosi di cura, segni di speranza e testimoni di speranza. Il cuore di Abramo, Sara, Simeone e Anna è un cuore bambino, dove la fede ha posto un sensore crepuscolare che attende di riconoscere la luce di Dio.

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