CIPRIANI SETTIMO SDB"Gesù "si trasfigurò davanti a loro"
1 marzo 2015 | 2a Domenica - T. Quaresima B | Appunti per la Lectio
Da una quantità di indizi sembra che il preciso motivo per cui Marco inserisce il racconto della trasfigurazione proprio al centro del suo Vangelo (9,2-10), quasi immediatamente dopo la famosa confessione di Pietro a Cesarea di Filippo (8,29) e in mezzo a due preannunci della passione del Signore (8,31-33; 9,30-32), sia il seguente: l'evangelista intende prevenire lo "scandalo" dei discepoli davanti alla morte del Signore, dando a loro come una garanzia ed un anticipo della futura "gloria" della risurrezione. La sofferenza,
l'umiliazione, lo scacco stesso della morte non sono per il Cristo che la "via" per arrivare al grande trionfo del giorno di Pasqua: senza il venerdì santo non ci sarebbe stata per Cristo la gioia esaltante del giorno della risurrezione!
In chiave liturgica, ritengo che l'intenzione della Chiesa, nel proporci per la seconda Domenica di Quaresima le presenti letture bibliche, coincida con la finalità di Marco; l'itinerario della Quaresima, pur nell'asperità del faticoso cammino attraverso il "deserto", pur nell'esercizio assiduo della rinuncia e del superamento di noi stessi, punta decisamente alla "gioia" e alla "luce" del rinnovamento e della "trasfigurazione" di Pasqua.
La Quaresima, perciò, non è fatta per se stessa ma per la Pasqua, e tende a superarsi per la carica di amore che la deve animare.
"Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio"
Così come il sacrificio di Isacco, richiesto da Dio ad Abramo (Gn 22,1-18), non aveva alcun significato in quanto soppressione della vita: al limite, si potrebbe addirittura considerare come un delitto! Infatti, molti esegeti interpretano l'episodio come una esplicita condanna della pratica abominevole, in uso presso i Cananei, di sacrificare agli dèi i loro figli primogeniti in particolari circostanze.
La richiesta di Dio ad Abramo aveva senso solamente in quanto verifica della fede del grande patriarca e della sua capacità di amare il Signore "più" di tutte le cose, "più" del suo stesso figlio. Perciò all'ultimo momento il dramma si risolve in positivo e l'angelo del Signore grida: "Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio" (v. 12). Quindi gli rinnova la promessa di una numerosa discendenza: "Perché tu hai fatto questo e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio, io ti benedirò con ogni benedizione e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare" (vv. 16-17).
È la capacità di "amore" che dà senso alla rinuncia e allo stesso sacrificio della vita.
Dio "non ha risparmiato il proprio Figlio"
È quanto ci viene ricordato anche dalla brevissima, ma stupenda seconda lettura, ripresa da san Paolo (Rm 8,31-34) e in cui c'è un esplicito riferimento al precedente episodio del sacrificio di Isacco. Qui, però, la prova dell'amore viene da Dio stesso che, nonostante tutto, rimane fedele all'uomo, essendoglisi ormai definitivamente legato con il dono di Cristo: "Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?" (vv. 31-32).
Quello che in Isacco era, e voleva essere, solo un "simbolo", in Cristo è diventato una realtà: nel caso di Cristo non c'è stato un ariete da immolare al suo posto! Dio perciò "non ha risparmiato il proprio Figlio", proprio perché, pur nell'atroce "sofferenza" che la morte di Cristo gli è costata, non aveva altro modo a sua disposizione per dimostrarci il "sommo" del suo amore: la teologia moderna sta riscoprendo il tema della "sofferenza" di Dio che, peraltro, se bene intesa, non diminuisce in alcun modo la sua grandezza e la sua trascendenza, ma la esalta.
Anche qui, però, l'amore si celebra oltre la "morte", perché è proprio nella potenza del Cristo "risorto", che "intercede" per noi presso il Padre, che noi abbiamo "fiducia": "Chi condannerà (gli eletti di Dio)? Cristo Gesù, che è morto, anzi, che è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi?" (v. 34). È sempre la stessa tematica: lo scopo ultimo di tutto, anche dell'agire di Dio, è la gioia, lo splendore, la vita, anche se per arrivarci bisognerà passare attraverso le "prove" dolorose dell'amore.
Il significato "teologico" della trasfigurazione
Il racconto della trasfigurazione, fattoci da Marco (9,2-10), è come un'irruzione di luce, un'anticipazione della gloria futura nel "presente" di Cristo, che ormai già si sta avviando alla morte di croce, e nel "presente" dei suoi apostoli e dei discepoli di tutti i tempi che sono invitati a prendere insieme a lui la "croce" di ogni giorno. Si legga appunto quanto Gesù dice immediatamente prima: "E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell'uomo doveva molto soffrire, ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni risuscitare... Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua..." (8,31.34).
Un'"anticipazione" della "gloria" futura, abbiamo detto, offerta come "pegno" e come "garanzia" di ciò che avverrà, perché i credenti la desiderino e l'accelerino, se possibile; perché alla luce di quella diano senso ai giorni bui dell'esistenza, ma non per "saltare" questo tempo "intermedio" di prova e di sofferenza, come è tentato di fare Pietro il quale, inebriato dalla gioia e dall'entusiasmo, esclama: "Maestro, è bello per noi stare qui; facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia" (v. 3).
Le "tende" rimandano certamente alla festa delle "capanne", o dei "tabernacoli", che durava una settimana e, in certo senso, voleva come anticipare il giubilo e la gioia del "riposo" escatologico. Questo tempo del "riposo", però, non è ancor giunto; perciò la richiesta di Pietro viene giudicata molto severamente da Marco, il quale così commenta: "Non sapeva infatti che cosa dire, poiché erano stati presi dallo spavento" (v. 6). Non si costruisce il regno di Dio, tentando di "evadere" dal tragico "quotidiano"!
"Lo sguardo rivolto su Gesù trasfigurato è solo un appello a credere nel crocifisso con il porsi alla sua sequela, è un incoraggiamento a non venire meno nelle prove e nelle persecuzioni. Non è ancora il tempo di costruire la tenda in cielo, bensì quello di affrontare la lotta sulla terra. Ogni tribolazione risulterà superata obbedendo al Figlio che Dio ama, il quale ci ha preceduti nella gloria divina passando attraverso l'esperienza della passione e della morte".
Ma adesso che abbiamo potuto intravedere la "dinamica" interiore a cui obbedisce questo brano narrativo di Marco, cerchiamo di afferrarne meglio il contenuto "teologico" generale.
In realtà, è soprattutto un messaggio "teologico" quello che l'evangelista vuol trasmetterci nel descriverci l'episodio della trasfigurazione. Siamo certamente di fronte a un fatto storico, anche se misterioso: la tradizione sinottica lo afferma concordemente; perfino la seconda lettera di Pietro (1,16-18) vi fa riferimento. Anche la precisazione storica iniziale con cui si apre il racconto ("dopo sei giorni"), così come il dato geografico ("sopra un alto monte": tradizionalmente il Tabor, alto 562 m sul livello del mare) confermano che ci muoviamo su un terreno sicuro.
"Le sue vesti divennero bianchissime"
Quale sia stata, però, l'entità vera dell'episodio ci sfugge: gli evangelisti stessi non concordano in tutto fra di loro e si aiutano più che altro con immagini che, nella tradizione biblica, indicano l'irruzione e la presenza del divino. Così, ad esempio, le vesti "bianche" e splendenti sono un contrassegno del mondo divino e un simbolo di gioia e di vittoria: l'angelo della risurrezione in Marco (16,5) sarà vestito di vesti candide. La "nube" è un simbolo caratteristico della misteriosa "presenza" di Dio nella tradizione dell'Esodo (16,10; 24,18; 40,35).
Con tutti questi elementi descrittivi l'evangelista vuol dirci dunque che Gesù concesse a tre dei suoi apostoli (quei medesimi che saranno presenti nell'orto del Getsemani: 14,33) un'esperienza di sé del tutto eccezionale, "indicibile" per quelli stessi che ne furono i protagonisti.
Quando Marco scrive che le vesti di Gesù (Matteo parla della sua "faccia": 17,2) "divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche" (v. 3), ci fa quasi toccare con mano l'"inesprimibile", ma si ferma lì. E del resto, non poteva fare diversamente!
"Questi è il Figlio mio prediletto: ascoltatelo!"
Però ci sono due elementi essenziali in tutta questa scena grandiosa che ci aiutano a penetrarne più a fondo il significato teologico: l'apparizione congiunta di Elia e di Mosè, che "discorrevano con Gesù" (v. 4), e la voce che tuona di mezzo alla nube: "Questi è il Figlio mio prediletto: ascoltatelo!" (v. 7).
Nei due grandi personaggi dell'Antico Testamento c'è da vedere come una continuità nel disegno salvifico di Dio che, attraverso le varie tappe della storia della salvezza, punta su Cristo: è lui l'inviato definitivo di Dio, atteso per gli ultimi tempi. Non è un nuovo Elia, o un nuovo Mosè, ma Qualcuno molto più grande, a cui essi fanno soltanto da battistrada come era nella tradizione biblica per il primo e nella tradizione giudaica per il secondo. I due rappresentanti dell'Antico Testamento dicono dunque che i tempi ultimi sono venuti con Cristo, anzi si stanno già realizzando in quel preciso momento.
La voce che risuona dalla nube: "Questi è il Figlio mio prediletto: ascoltatelo!" (v. 7), ci rivela la misteriosa "identità" di Cristo in un momento in cui la sua strada prende ormai decisamente l'avvio verso la croce. A differenza della quasi identica proclamazione che avvenne nell'occasione del battesimo, in cui la voce era rivolta direttamente a Gesù ("...tu sei il Figlio mio prediletto...": 1,11), qui essa è rivolta agli apostoli: "Ascoltatelo!".
È dunque un invito agli apostoli a penetrare il "mistero" ed accoglierne il messaggio salvifico. Quello che avverrà tra non molto a Gesù sul Calvario non è un'accusa o una obiezione contro la sua divinità, ma la dimostrazione più luminosa della sua origine da Dio: soltanto uno che ha il "cuore" di Dio può amare come Cristo ci ha amati!
A questo punto avvertiamo forse più chiaramente come la "trasfigurazione" del Signore è un momento di luce che permette anche a tutti noi, discepoli del Signore, di penetrare meglio non solo nel suo "mistero" di dolore e di gioia, di umiliazione e di gloria, ma anche nel "mistero" della nostra vita. Accettandolo come il "Figlio prediletto" del Padre, che si manifesta come tale soprattutto nel dramma della croce, e "ascoltando" il suo messaggio di salvezza, "si trasfigurerà" anche tutta la nostra esistenza. Il che è il significato di fondo di tutta la Quaresima.
CIPRIANI SETTIMO
Da una quantità di indizi sembra che il preciso motivo per cui Marco inserisce il racconto della trasfigurazione proprio al centro del suo Vangelo (9,2-10), quasi immediatamente dopo la famosa confessione di Pietro a Cesarea di Filippo (8,29) e in mezzo a due preannunci della passione del Signore (8,31-33; 9,30-32), sia il seguente: l'evangelista intende prevenire lo "scandalo" dei discepoli davanti alla morte del Signore, dando a loro come una garanzia ed un anticipo della futura "gloria" della risurrezione. La sofferenza,
l'umiliazione, lo scacco stesso della morte non sono per il Cristo che la "via" per arrivare al grande trionfo del giorno di Pasqua: senza il venerdì santo non ci sarebbe stata per Cristo la gioia esaltante del giorno della risurrezione!
In chiave liturgica, ritengo che l'intenzione della Chiesa, nel proporci per la seconda Domenica di Quaresima le presenti letture bibliche, coincida con la finalità di Marco; l'itinerario della Quaresima, pur nell'asperità del faticoso cammino attraverso il "deserto", pur nell'esercizio assiduo della rinuncia e del superamento di noi stessi, punta decisamente alla "gioia" e alla "luce" del rinnovamento e della "trasfigurazione" di Pasqua.
La Quaresima, perciò, non è fatta per se stessa ma per la Pasqua, e tende a superarsi per la carica di amore che la deve animare.
"Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio"
Così come il sacrificio di Isacco, richiesto da Dio ad Abramo (Gn 22,1-18), non aveva alcun significato in quanto soppressione della vita: al limite, si potrebbe addirittura considerare come un delitto! Infatti, molti esegeti interpretano l'episodio come una esplicita condanna della pratica abominevole, in uso presso i Cananei, di sacrificare agli dèi i loro figli primogeniti in particolari circostanze.
La richiesta di Dio ad Abramo aveva senso solamente in quanto verifica della fede del grande patriarca e della sua capacità di amare il Signore "più" di tutte le cose, "più" del suo stesso figlio. Perciò all'ultimo momento il dramma si risolve in positivo e l'angelo del Signore grida: "Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio" (v. 12). Quindi gli rinnova la promessa di una numerosa discendenza: "Perché tu hai fatto questo e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio, io ti benedirò con ogni benedizione e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare" (vv. 16-17).
È la capacità di "amore" che dà senso alla rinuncia e allo stesso sacrificio della vita.
Dio "non ha risparmiato il proprio Figlio"
È quanto ci viene ricordato anche dalla brevissima, ma stupenda seconda lettura, ripresa da san Paolo (Rm 8,31-34) e in cui c'è un esplicito riferimento al precedente episodio del sacrificio di Isacco. Qui, però, la prova dell'amore viene da Dio stesso che, nonostante tutto, rimane fedele all'uomo, essendoglisi ormai definitivamente legato con il dono di Cristo: "Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?" (vv. 31-32).
Quello che in Isacco era, e voleva essere, solo un "simbolo", in Cristo è diventato una realtà: nel caso di Cristo non c'è stato un ariete da immolare al suo posto! Dio perciò "non ha risparmiato il proprio Figlio", proprio perché, pur nell'atroce "sofferenza" che la morte di Cristo gli è costata, non aveva altro modo a sua disposizione per dimostrarci il "sommo" del suo amore: la teologia moderna sta riscoprendo il tema della "sofferenza" di Dio che, peraltro, se bene intesa, non diminuisce in alcun modo la sua grandezza e la sua trascendenza, ma la esalta.
Anche qui, però, l'amore si celebra oltre la "morte", perché è proprio nella potenza del Cristo "risorto", che "intercede" per noi presso il Padre, che noi abbiamo "fiducia": "Chi condannerà (gli eletti di Dio)? Cristo Gesù, che è morto, anzi, che è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi?" (v. 34). È sempre la stessa tematica: lo scopo ultimo di tutto, anche dell'agire di Dio, è la gioia, lo splendore, la vita, anche se per arrivarci bisognerà passare attraverso le "prove" dolorose dell'amore.
Il significato "teologico" della trasfigurazione
Il racconto della trasfigurazione, fattoci da Marco (9,2-10), è come un'irruzione di luce, un'anticipazione della gloria futura nel "presente" di Cristo, che ormai già si sta avviando alla morte di croce, e nel "presente" dei suoi apostoli e dei discepoli di tutti i tempi che sono invitati a prendere insieme a lui la "croce" di ogni giorno. Si legga appunto quanto Gesù dice immediatamente prima: "E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell'uomo doveva molto soffrire, ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni risuscitare... Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua..." (8,31.34).
Un'"anticipazione" della "gloria" futura, abbiamo detto, offerta come "pegno" e come "garanzia" di ciò che avverrà, perché i credenti la desiderino e l'accelerino, se possibile; perché alla luce di quella diano senso ai giorni bui dell'esistenza, ma non per "saltare" questo tempo "intermedio" di prova e di sofferenza, come è tentato di fare Pietro il quale, inebriato dalla gioia e dall'entusiasmo, esclama: "Maestro, è bello per noi stare qui; facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia" (v. 3).
Le "tende" rimandano certamente alla festa delle "capanne", o dei "tabernacoli", che durava una settimana e, in certo senso, voleva come anticipare il giubilo e la gioia del "riposo" escatologico. Questo tempo del "riposo", però, non è ancor giunto; perciò la richiesta di Pietro viene giudicata molto severamente da Marco, il quale così commenta: "Non sapeva infatti che cosa dire, poiché erano stati presi dallo spavento" (v. 6). Non si costruisce il regno di Dio, tentando di "evadere" dal tragico "quotidiano"!
"Lo sguardo rivolto su Gesù trasfigurato è solo un appello a credere nel crocifisso con il porsi alla sua sequela, è un incoraggiamento a non venire meno nelle prove e nelle persecuzioni. Non è ancora il tempo di costruire la tenda in cielo, bensì quello di affrontare la lotta sulla terra. Ogni tribolazione risulterà superata obbedendo al Figlio che Dio ama, il quale ci ha preceduti nella gloria divina passando attraverso l'esperienza della passione e della morte".
Ma adesso che abbiamo potuto intravedere la "dinamica" interiore a cui obbedisce questo brano narrativo di Marco, cerchiamo di afferrarne meglio il contenuto "teologico" generale.
In realtà, è soprattutto un messaggio "teologico" quello che l'evangelista vuol trasmetterci nel descriverci l'episodio della trasfigurazione. Siamo certamente di fronte a un fatto storico, anche se misterioso: la tradizione sinottica lo afferma concordemente; perfino la seconda lettera di Pietro (1,16-18) vi fa riferimento. Anche la precisazione storica iniziale con cui si apre il racconto ("dopo sei giorni"), così come il dato geografico ("sopra un alto monte": tradizionalmente il Tabor, alto 562 m sul livello del mare) confermano che ci muoviamo su un terreno sicuro.
"Le sue vesti divennero bianchissime"
Quale sia stata, però, l'entità vera dell'episodio ci sfugge: gli evangelisti stessi non concordano in tutto fra di loro e si aiutano più che altro con immagini che, nella tradizione biblica, indicano l'irruzione e la presenza del divino. Così, ad esempio, le vesti "bianche" e splendenti sono un contrassegno del mondo divino e un simbolo di gioia e di vittoria: l'angelo della risurrezione in Marco (16,5) sarà vestito di vesti candide. La "nube" è un simbolo caratteristico della misteriosa "presenza" di Dio nella tradizione dell'Esodo (16,10; 24,18; 40,35).
Con tutti questi elementi descrittivi l'evangelista vuol dirci dunque che Gesù concesse a tre dei suoi apostoli (quei medesimi che saranno presenti nell'orto del Getsemani: 14,33) un'esperienza di sé del tutto eccezionale, "indicibile" per quelli stessi che ne furono i protagonisti.
Quando Marco scrive che le vesti di Gesù (Matteo parla della sua "faccia": 17,2) "divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche" (v. 3), ci fa quasi toccare con mano l'"inesprimibile", ma si ferma lì. E del resto, non poteva fare diversamente!
"Questi è il Figlio mio prediletto: ascoltatelo!"
Però ci sono due elementi essenziali in tutta questa scena grandiosa che ci aiutano a penetrarne più a fondo il significato teologico: l'apparizione congiunta di Elia e di Mosè, che "discorrevano con Gesù" (v. 4), e la voce che tuona di mezzo alla nube: "Questi è il Figlio mio prediletto: ascoltatelo!" (v. 7).
Nei due grandi personaggi dell'Antico Testamento c'è da vedere come una continuità nel disegno salvifico di Dio che, attraverso le varie tappe della storia della salvezza, punta su Cristo: è lui l'inviato definitivo di Dio, atteso per gli ultimi tempi. Non è un nuovo Elia, o un nuovo Mosè, ma Qualcuno molto più grande, a cui essi fanno soltanto da battistrada come era nella tradizione biblica per il primo e nella tradizione giudaica per il secondo. I due rappresentanti dell'Antico Testamento dicono dunque che i tempi ultimi sono venuti con Cristo, anzi si stanno già realizzando in quel preciso momento.
La voce che risuona dalla nube: "Questi è il Figlio mio prediletto: ascoltatelo!" (v. 7), ci rivela la misteriosa "identità" di Cristo in un momento in cui la sua strada prende ormai decisamente l'avvio verso la croce. A differenza della quasi identica proclamazione che avvenne nell'occasione del battesimo, in cui la voce era rivolta direttamente a Gesù ("...tu sei il Figlio mio prediletto...": 1,11), qui essa è rivolta agli apostoli: "Ascoltatelo!".
È dunque un invito agli apostoli a penetrare il "mistero" ed accoglierne il messaggio salvifico. Quello che avverrà tra non molto a Gesù sul Calvario non è un'accusa o una obiezione contro la sua divinità, ma la dimostrazione più luminosa della sua origine da Dio: soltanto uno che ha il "cuore" di Dio può amare come Cristo ci ha amati!
A questo punto avvertiamo forse più chiaramente come la "trasfigurazione" del Signore è un momento di luce che permette anche a tutti noi, discepoli del Signore, di penetrare meglio non solo nel suo "mistero" di dolore e di gioia, di umiliazione e di gloria, ma anche nel "mistero" della nostra vita. Accettandolo come il "Figlio prediletto" del Padre, che si manifesta come tale soprattutto nel dramma della croce, e "ascoltando" il suo messaggio di salvezza, "si trasfigurerà" anche tutta la nostra esistenza. Il che è il significato di fondo di tutta la Quaresima.
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