Ermete TESSORE SDB" IL MODELLO E' ABRAMO"
1marzo 2015 | 2a Domenica - T. Quaresima B | Omelia
La liturgia della prima domenica di Quaresima ci aveva invitato ad addentrarci nel silenzio (deserto) della nostra coscienza, per poter testare, attraverso le prove (tentazioni), lo spessore qualitativo della nostra fede. L'abbiamo fatto?
Ci siamo spinti fino al nucleo più intimo di noi
stessi, dove non possiamo barare né con Dio né con noi, mettendo sotto le lenti della nostra intelligenza e della nostra volontà le autentiche intenzioni che permeano la fede ed alimentano l'agire?
Solo se la risposta è affermativa siamo abilitati ad affrontare la salita della montagna che ci avvicina a Dio. Don Bosco era solito ricordare che in Paradiso non si va in carrozza. Allo stesso modo non si arriva in cima al Sinai, al Moriah, all'Oreb, al Carmelo, all'Hermon o al Tabor limitandosi a fischiare e con le mani in tasca.
A Dio arriviamo solo se i muscoli delle gambe dello spirito sono così allenati da non essere ingolfati dal troppo acido sarcolattico del borghesismo e del moralismo, e la volontà è abilitata a gestire i momenti di fatica o di scoramento.
Il modello è Abramo. Nonostante che il suo cuore fosse pesantissimo a motivo del sacrificio di Isacco, suo unico figlio, continua a fidarsi. Aggredisce le rampe che conducono alla cima del Moriah. Sente pesare come un macigno quel coltello che porta addosso e con cui deve lacerare le carni del figlio che lo precede pieno di forza e di voglia di vivere, ma ignaro di quello che lo attende.
Il cuore di Abramo è il cuore di qualsiasi genitore che si ritrova a gestire impotente la malattia, la sofferenza incomprensibile, i drammi, le sconfitte di figli travolti da un destino all'apparenza ingiusto e cattivo.
Diversa è la situazione d'animo di Pietro, Giacomo e Giovanni che seguono Gesù verso la cima. Non conosciamo il vero nome della montagna. La tradizione, solo a partire dal quarto secolo, ritiene che sia il Tabor che ancora oggi segna la meta obbligata di ogni buon pellegrino in Terra Santa. Sono pieni di voglia di ridere e di scherzare.
E' una bella scampagnata che per alcune ore li sottrae alla calura della pianura. Tuttavia, dietro alle loro risate c'è una domanda che, in silenzio, arrovella il loro cervello:
"Perché Gesù ha scelto come compagni di avventura noi tre e non tutti i discepoli?
Forse che noi siamo i preferiti?
Forse che tutti gli altri sono uguali, ma noi lo siamo di più?
Ha in serbo per noi una porpora cardinalizia?"
Si guardano bene dal verbalizzare i loro segreti pensieri, ma si lasciano dolcemente cullare da loro. Quando arrivano in cima la trasfigurazione spazza via tutte le loro farneticazioni troppo a misura d'uomo, li avvolge nella nube della divinità, li fa sbattere contro le colossali personalità di Elia e di Mosè, e sentono, forte e chiaro, lo svelarsi del mistero del loro Rabbì: "Questi è il Figlio mio, l'amato: ascoltatelo!".
I loro cuori provano una gioia ineffabile che vorrebbero prolungare nel tempo. Tuttavia l'ascolto della Parola comporta ridiscendere tra gli altri non per fare carriera, ma per mettersi a servizio. Implica discrezione e riserbo perché la carità è allergica a qualsiasi forma di pubblicità.
Comporta, come ci ricorda Paolo nella seconda lettura, una vita completamente libera da ogni paura perché "se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?".
Questo attiva, anche da parte nostra, il fermo proposito di accantonare tutte le pretese di arruolare Dio dalla nostra parte, di iscriverlo nei nostri partiti, di irrigimentarlo nelle nostre chiese, di nominarlo nume protettore dei nostri eserciti.
Abramo, Isacco, Pietro, Giovanni e Giacomo, dopo aver sperimentato la presenza di Dio accanto a loro, maturano la ferma decisione di essere, a loro volta, con Dio e solo con Lui, per tutta la loro vita. E' questa la determinazione quaresimale che dobbiamo fare nostra.
Non dobbiamo preoccuparci di parlare a nome di Dio con le nostre prediche, la nostra teologia, le nostre devozioni o le nostre manifestazioni cultural-socio-psiche-peda-religiose. Piuttosto dobbiamo permettere a Dio di manifestarsi attraverso la nostra vita.
Nel fare questo, è bene ripeterci spesso il monito di Voltaire: "Dio ha creato l'uomo a sua immagine e somiglianza, e l'uomo l'ha ripagato di ugual moneta".
Che tipo di Dio testimoniamo nella realtà concreta di tutti i giorni?
La nostra fede è in grado di "trasfigurare" le nostre facce da maschere ad icone?
Ermete TESSORE
La liturgia della prima domenica di Quaresima ci aveva invitato ad addentrarci nel silenzio (deserto) della nostra coscienza, per poter testare, attraverso le prove (tentazioni), lo spessore qualitativo della nostra fede. L'abbiamo fatto?
Ci siamo spinti fino al nucleo più intimo di noi
stessi, dove non possiamo barare né con Dio né con noi, mettendo sotto le lenti della nostra intelligenza e della nostra volontà le autentiche intenzioni che permeano la fede ed alimentano l'agire?
Solo se la risposta è affermativa siamo abilitati ad affrontare la salita della montagna che ci avvicina a Dio. Don Bosco era solito ricordare che in Paradiso non si va in carrozza. Allo stesso modo non si arriva in cima al Sinai, al Moriah, all'Oreb, al Carmelo, all'Hermon o al Tabor limitandosi a fischiare e con le mani in tasca.
A Dio arriviamo solo se i muscoli delle gambe dello spirito sono così allenati da non essere ingolfati dal troppo acido sarcolattico del borghesismo e del moralismo, e la volontà è abilitata a gestire i momenti di fatica o di scoramento.
Il modello è Abramo. Nonostante che il suo cuore fosse pesantissimo a motivo del sacrificio di Isacco, suo unico figlio, continua a fidarsi. Aggredisce le rampe che conducono alla cima del Moriah. Sente pesare come un macigno quel coltello che porta addosso e con cui deve lacerare le carni del figlio che lo precede pieno di forza e di voglia di vivere, ma ignaro di quello che lo attende.
Il cuore di Abramo è il cuore di qualsiasi genitore che si ritrova a gestire impotente la malattia, la sofferenza incomprensibile, i drammi, le sconfitte di figli travolti da un destino all'apparenza ingiusto e cattivo.
Diversa è la situazione d'animo di Pietro, Giacomo e Giovanni che seguono Gesù verso la cima. Non conosciamo il vero nome della montagna. La tradizione, solo a partire dal quarto secolo, ritiene che sia il Tabor che ancora oggi segna la meta obbligata di ogni buon pellegrino in Terra Santa. Sono pieni di voglia di ridere e di scherzare.
E' una bella scampagnata che per alcune ore li sottrae alla calura della pianura. Tuttavia, dietro alle loro risate c'è una domanda che, in silenzio, arrovella il loro cervello:
"Perché Gesù ha scelto come compagni di avventura noi tre e non tutti i discepoli?
Forse che noi siamo i preferiti?
Forse che tutti gli altri sono uguali, ma noi lo siamo di più?
Ha in serbo per noi una porpora cardinalizia?"
Si guardano bene dal verbalizzare i loro segreti pensieri, ma si lasciano dolcemente cullare da loro. Quando arrivano in cima la trasfigurazione spazza via tutte le loro farneticazioni troppo a misura d'uomo, li avvolge nella nube della divinità, li fa sbattere contro le colossali personalità di Elia e di Mosè, e sentono, forte e chiaro, lo svelarsi del mistero del loro Rabbì: "Questi è il Figlio mio, l'amato: ascoltatelo!".
I loro cuori provano una gioia ineffabile che vorrebbero prolungare nel tempo. Tuttavia l'ascolto della Parola comporta ridiscendere tra gli altri non per fare carriera, ma per mettersi a servizio. Implica discrezione e riserbo perché la carità è allergica a qualsiasi forma di pubblicità.
Comporta, come ci ricorda Paolo nella seconda lettura, una vita completamente libera da ogni paura perché "se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?".
Questo attiva, anche da parte nostra, il fermo proposito di accantonare tutte le pretese di arruolare Dio dalla nostra parte, di iscriverlo nei nostri partiti, di irrigimentarlo nelle nostre chiese, di nominarlo nume protettore dei nostri eserciti.
Abramo, Isacco, Pietro, Giovanni e Giacomo, dopo aver sperimentato la presenza di Dio accanto a loro, maturano la ferma decisione di essere, a loro volta, con Dio e solo con Lui, per tutta la loro vita. E' questa la determinazione quaresimale che dobbiamo fare nostra.
Non dobbiamo preoccuparci di parlare a nome di Dio con le nostre prediche, la nostra teologia, le nostre devozioni o le nostre manifestazioni cultural-socio-psiche-peda-religiose. Piuttosto dobbiamo permettere a Dio di manifestarsi attraverso la nostra vita.
Nel fare questo, è bene ripeterci spesso il monito di Voltaire: "Dio ha creato l'uomo a sua immagine e somiglianza, e l'uomo l'ha ripagato di ugual moneta".
Che tipo di Dio testimoniamo nella realtà concreta di tutti i giorni?
La nostra fede è in grado di "trasfigurare" le nostre facce da maschere ad icone?
Ermete TESSORE
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