don Giorgio Scatto "Credere significa esporsi alla luce

Letture: 2Cr 36,14-16.19-23     Ef 2,4-10     Gv 3,14-21
1)Quella che ci viene proposta come prima lettura nella quarta domenica di quaresima è forse una delle pagine più drammatiche e più violente di tutta la storia di Israele: Gerusalemme presa d’assedio dall’esercito di Nabucodonosor, una impossibile resistenza e, infine, l’incendio del tempio, la demolizione delle imponenti mura della città, i palazzi del potere dati alle fiamme.
Violenza, distruzione, morte ovunque. “Il re dei Caldei deportò a Babilonia gli scampati alla spada”. Non era bastata la dolorosa memoria dell’antica oppressione nella terra d’Egitto, dalla quale il popolo fu liberato per la potente mano del Signore. Non era bastato il ricordo delle estenuanti lotte contro i cananei e gli altri popoli pagani, per poter abitare, finalmente in pace, la terra della promessa. Non erano bastati tutti i doni del Signore, i ripetuti segni di una alleanza sempre rinnovata, le parole infuocate dei profeti. Niente era bastato per indurre il popolo alla fedeltà e all’amore. Sembra che l’uomo, anche l’uomo religioso, abitato dalle promesse di Dio, senta una spinta irresistibile verso il male e il peccato. Sembra che sia attratto più dalla distruzione e dalla morte che dal desiderio del bene, e dalla possibilità di compierlo effettivamente. “I capi, i sacerdoti, il popolo, moltiplicarono le loro infedeltà, imitando in tutto gli abomini degli altri popoli”. Nulla viene preservato nella sua bellezza. Nemmeno il tempio, con la sua imponente sacralità, è un argine al dilagare della malvagità. Anzi, proprio i luoghi più santi diventano spesso un ricercato nascondiglio per occultare i delitti più gravi. “Non confidate in parole false, che non giovano: rubare, uccidere, commettere adulterio, giurare il falso, bruciare incenso a Baal, seguire altri dei che non conoscevate. Poi venite e vi presentate davanti a me in questo tempio, nel quale è invocato il mio nome, e dite: <<Siamo salvi!>> e poi continuate a compiere tutti questi abomini. Forse per voi è un covo di ladri questo tempio nel quale è invocato il mio nome?” (Ger 7,8-11). E allora il tempio viene distrutto, il popolo deportato, la città santa viene ridotta ad un cumulo di rovine. Non è la vendetta di Dio, il frutto amaro della sua ira ardente. Dio è colui che ha compassione, colui che sta alla fonte della vita, non è il Dio della morte. La morte è la deriva estrema del nostro peccato, l’approdo deludente di una strada che si è progressivamente allontanata da Dio. Non è il Signore che vuole la distruzione della città santa. E’ il peccato che distrugge e divora. “Ecco, non è troppo corta la mano del Signore per salvare; né troppo duro il suo orecchio per udire. Ma le vostre iniquità hanno scavato un solco fra voi e il vostro Dio” (Is 59,1). Allora, se a noi non bastano le misericordie del Signore, se dimentichiamo in fretta tutti i suoi benefici, se vogliamo servire più volentieri gli idoli e abbandoniamo le vie del Signore; se tante volte abbiamo bevuto il calice amaro della sconfitta, delle umiliazioni, della privazione della nostra libertà, allora, chi ci libererà? La risposta, contenuta in tutte le Scritture, diventa forte e decisiva nei testi del Nuovo Testamento. San Paolo scrive: ”Dio, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo” (Ef 2,4).
“Siamo salvati per grazia, mediante la fede” (Ef 2,8). Di quale fede si tratta? Certamente non della nostra. Noi, per natura, siamo incapaci di fedeltà. Non meritiamo fiducia. Tutta la storia biblica è la narrazione continua e tragicamente ripetuta di questa nostra infedeltà, che conduce alla rovina. Nonostante tutto, è Dio che continua ad aver fiducia in noi. Questa è una buona notizia; questo è quello che noi chiamiamo ‘vangelo’, proclamato e realizzato in Gesù di Nazaret. Sì, la salvezza non viene dalle nostre opere, nemmeno da quell’opera che noi pensiamo essere la nostra fede. Essa è puro dono di Dio, “perché nessuno possa vantarsene”.
Nel vangelo leggiamo: "Bisogna che il Figlio dell’uomo sia innalzato, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna”. Ancora una volta la possibilità stessa del ‘credere’, non dipende dalla iniziativa dell’uomo, non è il frutto di una convinzione che scaturisce dal ragionamento e dalla nostra capacità di sondare il mistero impenetrabile di Dio. E’ lui che, come la luce del mattino, si è avvicinato a noi, squarciando la profondità della tenebra. E’ la croce di Cristo che si staglia altissima sopra le nostre miserie e le oscurità del nostro cuore. Credere significa esporsi alla luce, guardare con amore riconoscente alla croce che ha sconfitto la morte per sempre. “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna”. Non è la croce che ci salva. Essa rimane un orribile patibolo,  strumento violento e assurdo di una improbabile giustizia umana, simbolo delle nostre deliranti lontananze dall’amore. Penso infatti che la croce sia il punto più lontano da Dio dove l’uomo ha pensato di andare a nascondersi. Ma Dio non si rassegna alla perdita, e ci ha cercato fin dentro l’inferno, per riportarci a casa. Non ci salva la croce: ci salva solo colui che per amore è sceso agli inferi, colui che è salito sulla nuda croce. Guardare con fede il crocifisso, non è una conquista, ma un dono d’amore. Possiamo fissare lo sguardo su di lui, perché raggiunti prima da lui, dal suo sguardo che ci ha trafitto il cuore. In lui non siamo perduti, ma ritrovati, caricati sulle spalle dal pastore, condotti con gioia fino a casa. Allora, ”chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Chi condannerà?” (Rm 8,33-34). Dio non condanna nessuno, perché il suo amore è offerto a tutti, come la luce del giorno. L’uomo si condanna da solo quando non si affida all’amore e preferisce rimanere prigioniero delle trame oscure dei suoi pensieri  e delle sue azioni malvagie.
Credere è affidarsi.

Giorgio Scatto  

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