Don Giorgio Scatto "La morte è stata vinta per sempre, non fa più paura"
PASQUA, anno B
1)Ho abitato per un anno intero a Betania, vicino alla tomba di Lazzaro. Innumerevoli volte sono passato di lì con il passo stanco di chi ha smarrito la via o con l’andatura leggera, come di quelli che corrono verso i luoghi da sempre conosciuti. Betania dista da Gerusalemme circa tre chilometri. Io mi recavo nella città santa ogni giorno per l’Eucaristia, nel piccolo monastero preso in affitto dalla Famiglia spirituale di don Giuseppe Dossetti, alla sommità del
‘monte dello scandalo’, proprio di fronte alla spianata del tempio. Passando accanto alla tomba del povero Lazzaro, spesso facevo mie le parole di sua sorella Marta: “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!”. E poi, luminose e accecanti come una folgore, mi penetrava nel cuore la risposta di Gesù: “Io sono la risurrezione e la vita, chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno”. Parole di cui comprendevo il valore, ma che rimanevano difficili da accogliere. Sì, Gesù è capace, con la sua parola che squarcia il velo della morte, di sollevare anche chi già da quattro giorni giace nel sepolcro. E Lazzaro è uscito dalla tomba, “i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario”. Forse il senso profondo di questa frase è diverso da come lo intendiamo comunemente. Gesù ha chiesto che liberassero il suo amico Lazzaro e che lo lasciassero andare. Come a dire, profeticamente, che il destino ultimo dell’uomo non è la morte, ma l’incontro con il Padre. Lì dobbiamo andare, senza essere trattenuti dai nostri cattivi pensieri e dalle grosse pietre che uccidono la speranza. Ma anche Lazzaro, risvegliato dal sonno della morte, poi è morto una seconda volta. Per sempre? Mi rimaneva il dubbio.
La mia piccola casa, che condividevo con altri due fratelli, stava sul piccolo sentiero che da Betania saliva a Betfage, verso la sommità del monte degli Ulivi. Da lì Gesù aveva iniziato la sua discesa trionfale verso Gerusalemme, cavalcando un asinello. La gente, l’abbiamo ricordato domenica scorsa, gridava lungo la strada: “Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore!”. E mi chiedevo: chi può liberare dalla morte se non colui che ha in sé la potenza di vita del Dio immortale? Facevo spesso questi ragionamenti, e immaginavo di essere anch’io tra la folla festante. In fondo è abbastanza facile nascondersi in mezzo a molti. Poi, a metà della discesa, costeggiando il grande cimitero ebraico, con un numero indefinito di tombe di pietra, tutte uguali, venivo preso da un sussulto: il trionfo di Cristo è di un istante; la morte è la fine di tutto. Giunto fin dentro il giardino degli ulivi, accanto al torrente Cedron, immaginavo di essere seduto accanto a Pietro, Giacomo e Giovanni, mentre Gesù, un poco più avanti, pregava. Vedevo il suo sudore diventare come gocce di sangue che arrossava la terra. Colui che aveva risuscitato Lazzaro dalla morte ora era pieno di tristezza e di angoscia. Era spaventato per la fine imminente, ma soprattutto per il tradimento dell’amico Giuda, il rinnegamento di Pietro, il compagno della prima ora, l’abbandono e la fuga di tutti i discepoli. Non si rassegnava ad una fine così oscura. Rimetteva tutta la sua vita nelle mani potenti del Padre suo, invocato continuamente. Alzando gli occhi potevo riconoscere davanti a me, sulla sinistra, le sagome di due chiese: la Dormizione di Maria e San Pietro in Gallicantu. Lì c’era il cenacolo, e il palazzo del sommo sacerdote Caifa. Cercavo di convincermi che non poteva rimanere prigioniero della morte colui che, ripetendo il gesto dello schiavo, si era inginocchiato davanti ai discepoli per lavare i loro piedi, sporchi e stanchi. Volevo assicurarmi che l’amore, quello di un Dio che si fa servo, è più forte della morte. Nel pane spezzato in un’ultima cena con i suoi c’era il memoriale di una storia, da Abele fino all’ultimo degli uomini che avrebbero abitato la terra, nella quale il Signore si rivelava come il Dio dell’Alleanza, scritta nel sangue, come il Dio che libera da ogni male, da ogni potenza capace di ferire mortalmente le creature di Dio. Del resto, Gesù lo aveva detto: “Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno”. Parole che mi portavano direttamente oltre la soglia tenebrosa della morte. Pensavo: una vita vissuta nell’amore, che si dona fino a spezzarsi, che profuma come il pane appena tolto dal forno e deposto sulla tavola per diventare gioia e nutrimento di vita, è sufficiente per annullare l’odore acre della morte, basta per togliere appetito ai mostri che divorano vite umane? Poco sotto al cenacolo sorge il palazzo del sommo sacerdote. E dall’altro lato della città, sulla destra, al margine della spianata del tempio, la fortezza Antonia, il luogo del potere dei romani invasori. E violenti. Di fronte a questi poteri assoluti e atei Gesù soccombe. L’amore indifeso viene condannato. A morte. La storia diventa un lungo e interminabile sabato, che poco ha di santo. Nulla potrà più accadere. Ricordo che, quando per la prima volta, salii sul Golgota, non potei trattenere abbondanti lacrime: lì avevano ucciso un giusto. Era accaduto quello che accade sempre, in tutte le latitudini: i poveri, i piccoli, gli indifesi, vengono massacrati, messi in fuga, comprati e venduti a poco prezzo. La croce sta lì, silenziosa, a ricordarlo. Anche oggi piango per le vittime innocenti del potere. Per gli uccisi dalle mafie, dalla corruzione, dalle guerre, dalla fame, dai giudizi iniqui, dall’indifferenza che dilaga sempre più. La pietra del sepolcro sembrava essere il sigillo inviolabile della vittoria della morte. E quante volte, nelle lunghe notti trascorse in preghiera, ero entrato nel santo sepolcro! Entravo e uscivo senza piangere. Senza fede. Cercavo di convincermi che non è possibile vincere la morte: i giusti soccombono e la malvagità trionfa sempre.
Ma anch’io, una notte, fui trafitto da una parola, inaspettata e forte, più forte della morte: “So che cerchi Gesù il crocifisso. Non è qui. E’ risorto, come aveva detto. Non avere più paura!”. Nella notte, illuminata dalle poche lampade che circondano il sepolcro del Signore, mi ritrovai a leggere e a rileggere le parole della Scrittura, finché esse non divennero come un fuoco acceso, come un roveto che ardeva e non si consumava. E anche il cuore cominciò a battere nuovamente, vivificato dallo Spirito.
“Sì, ne siamo certi:
Cristo è davvero risorto.
Tu, re vittorioso,
abbi pietà di noi”.
Lo dico a tutti, di cuore: Buona Pasqua! La morte è stata vinta per sempre, e non fa più paura.
Giorgio Scatto
1)Ho abitato per un anno intero a Betania, vicino alla tomba di Lazzaro. Innumerevoli volte sono passato di lì con il passo stanco di chi ha smarrito la via o con l’andatura leggera, come di quelli che corrono verso i luoghi da sempre conosciuti. Betania dista da Gerusalemme circa tre chilometri. Io mi recavo nella città santa ogni giorno per l’Eucaristia, nel piccolo monastero preso in affitto dalla Famiglia spirituale di don Giuseppe Dossetti, alla sommità del
‘monte dello scandalo’, proprio di fronte alla spianata del tempio. Passando accanto alla tomba del povero Lazzaro, spesso facevo mie le parole di sua sorella Marta: “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!”. E poi, luminose e accecanti come una folgore, mi penetrava nel cuore la risposta di Gesù: “Io sono la risurrezione e la vita, chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno”. Parole di cui comprendevo il valore, ma che rimanevano difficili da accogliere. Sì, Gesù è capace, con la sua parola che squarcia il velo della morte, di sollevare anche chi già da quattro giorni giace nel sepolcro. E Lazzaro è uscito dalla tomba, “i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario”. Forse il senso profondo di questa frase è diverso da come lo intendiamo comunemente. Gesù ha chiesto che liberassero il suo amico Lazzaro e che lo lasciassero andare. Come a dire, profeticamente, che il destino ultimo dell’uomo non è la morte, ma l’incontro con il Padre. Lì dobbiamo andare, senza essere trattenuti dai nostri cattivi pensieri e dalle grosse pietre che uccidono la speranza. Ma anche Lazzaro, risvegliato dal sonno della morte, poi è morto una seconda volta. Per sempre? Mi rimaneva il dubbio.
La mia piccola casa, che condividevo con altri due fratelli, stava sul piccolo sentiero che da Betania saliva a Betfage, verso la sommità del monte degli Ulivi. Da lì Gesù aveva iniziato la sua discesa trionfale verso Gerusalemme, cavalcando un asinello. La gente, l’abbiamo ricordato domenica scorsa, gridava lungo la strada: “Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore!”. E mi chiedevo: chi può liberare dalla morte se non colui che ha in sé la potenza di vita del Dio immortale? Facevo spesso questi ragionamenti, e immaginavo di essere anch’io tra la folla festante. In fondo è abbastanza facile nascondersi in mezzo a molti. Poi, a metà della discesa, costeggiando il grande cimitero ebraico, con un numero indefinito di tombe di pietra, tutte uguali, venivo preso da un sussulto: il trionfo di Cristo è di un istante; la morte è la fine di tutto. Giunto fin dentro il giardino degli ulivi, accanto al torrente Cedron, immaginavo di essere seduto accanto a Pietro, Giacomo e Giovanni, mentre Gesù, un poco più avanti, pregava. Vedevo il suo sudore diventare come gocce di sangue che arrossava la terra. Colui che aveva risuscitato Lazzaro dalla morte ora era pieno di tristezza e di angoscia. Era spaventato per la fine imminente, ma soprattutto per il tradimento dell’amico Giuda, il rinnegamento di Pietro, il compagno della prima ora, l’abbandono e la fuga di tutti i discepoli. Non si rassegnava ad una fine così oscura. Rimetteva tutta la sua vita nelle mani potenti del Padre suo, invocato continuamente. Alzando gli occhi potevo riconoscere davanti a me, sulla sinistra, le sagome di due chiese: la Dormizione di Maria e San Pietro in Gallicantu. Lì c’era il cenacolo, e il palazzo del sommo sacerdote Caifa. Cercavo di convincermi che non poteva rimanere prigioniero della morte colui che, ripetendo il gesto dello schiavo, si era inginocchiato davanti ai discepoli per lavare i loro piedi, sporchi e stanchi. Volevo assicurarmi che l’amore, quello di un Dio che si fa servo, è più forte della morte. Nel pane spezzato in un’ultima cena con i suoi c’era il memoriale di una storia, da Abele fino all’ultimo degli uomini che avrebbero abitato la terra, nella quale il Signore si rivelava come il Dio dell’Alleanza, scritta nel sangue, come il Dio che libera da ogni male, da ogni potenza capace di ferire mortalmente le creature di Dio. Del resto, Gesù lo aveva detto: “Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno”. Parole che mi portavano direttamente oltre la soglia tenebrosa della morte. Pensavo: una vita vissuta nell’amore, che si dona fino a spezzarsi, che profuma come il pane appena tolto dal forno e deposto sulla tavola per diventare gioia e nutrimento di vita, è sufficiente per annullare l’odore acre della morte, basta per togliere appetito ai mostri che divorano vite umane? Poco sotto al cenacolo sorge il palazzo del sommo sacerdote. E dall’altro lato della città, sulla destra, al margine della spianata del tempio, la fortezza Antonia, il luogo del potere dei romani invasori. E violenti. Di fronte a questi poteri assoluti e atei Gesù soccombe. L’amore indifeso viene condannato. A morte. La storia diventa un lungo e interminabile sabato, che poco ha di santo. Nulla potrà più accadere. Ricordo che, quando per la prima volta, salii sul Golgota, non potei trattenere abbondanti lacrime: lì avevano ucciso un giusto. Era accaduto quello che accade sempre, in tutte le latitudini: i poveri, i piccoli, gli indifesi, vengono massacrati, messi in fuga, comprati e venduti a poco prezzo. La croce sta lì, silenziosa, a ricordarlo. Anche oggi piango per le vittime innocenti del potere. Per gli uccisi dalle mafie, dalla corruzione, dalle guerre, dalla fame, dai giudizi iniqui, dall’indifferenza che dilaga sempre più. La pietra del sepolcro sembrava essere il sigillo inviolabile della vittoria della morte. E quante volte, nelle lunghe notti trascorse in preghiera, ero entrato nel santo sepolcro! Entravo e uscivo senza piangere. Senza fede. Cercavo di convincermi che non è possibile vincere la morte: i giusti soccombono e la malvagità trionfa sempre.
Ma anch’io, una notte, fui trafitto da una parola, inaspettata e forte, più forte della morte: “So che cerchi Gesù il crocifisso. Non è qui. E’ risorto, come aveva detto. Non avere più paura!”. Nella notte, illuminata dalle poche lampade che circondano il sepolcro del Signore, mi ritrovai a leggere e a rileggere le parole della Scrittura, finché esse non divennero come un fuoco acceso, come un roveto che ardeva e non si consumava. E anche il cuore cominciò a battere nuovamente, vivificato dallo Spirito.
“Sì, ne siamo certi:
Cristo è davvero risorto.
Tu, re vittorioso,
abbi pietà di noi”.
Lo dico a tutti, di cuore: Buona Pasqua! La morte è stata vinta per sempre, e non fa più paura.
Giorgio Scatto
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