JUAN J. BARTOLOME sdb LECTIO DIVINA: La Passione secondo: Mc 14,1-15,47
29 marzo 2015 | 6a Domenica: Le Palme - T. Quaresima B | Lectio Divina
I racconti della Passione nacquero dalla necessità avuta dalla generazione dei testimoni della Resurrezione di spiegarsi il senso della morte tragica di Gesù: coloro che assicuravano di averlo visto vivo, per forza dovevano dire che era morto giustiziato e, soprattutto, narrare le circostanze di quella morte in forma tale che diventasse plausibile, ad essi ed ai loro uditori, la loro esperienza pasquale. Affinché il racconto
risultasse convincente, doveva comunicare un significato che non si esaurisse nella cronaca di quello che era successo. Marco vi riesce insistendo in una narrazione dei fatti che lascia vedere il compimento delle Scritture (Mc 14,27.62; 15,34): Dio l'aveva determinato così ed era stato già perfino preannunciato dallo stesso Gesù (Mc 8,31; 9,11; 10,33-34).
La croce, scandalo per la fedeltà dei discepoli, prima di essere difficoltà per la fede degli uditori postumi, è il momento supremo della rivelazione della divinità di Gesù (Mc 15,39). Chi crede nel Crocefisso, crederà nel Figlio di Dio; l'autentico credente è chi, non avendo vissuto con Gesù, fu testimone della sua morte e proclamò la sua divinità. Dovrebbe far pensare quanti si vantano di una convivenza prolungata con Gesù ma non accettano la sua croce. Il discepolo di Cristo che ricorda oggi la tragica fine del suo Signore dovrebbe essere più cosciente della fine, tanto ridicola come tragica dei suoi primi discepoli: non deve illudersi di essere migliore di essi. La croce di Gesù continua ad essere la prova da superare.
1. LEGGERE:
Capire quello che dice il testo e come lo dice
Dobbiamo a Marco la più antica cronaca scritta della passione e morte di Gesù. Benché segua la sequenza probabile dei fatti e la sua narrazione sia schietta, quasi notarile, non è un semplice diario di quell'accaduto. Richiama l'attenzione appena menzionata di come gli eventi narrati colpirono i protagonisti, Gesù compreso, salvo la scena del Getsemani: (Mc 14,32-42) o che si trattenga in dettagli 'irrilevanti', per esempio, gli oltraggi prima e durante la crocifissione: (Mc 15,16-191.29-32) inverosimili, la lacerazione del velo del tempio: (Mc 15,38) o vergognosi, il tradimento di Pietro e degli altri discepoli: (Mc 14,10-11.17-21.26-31.66-72) mentre il fatto stesso della morte sia menzionato con un preciso "erano le nove del mattino quando lo crocefissero" (Mc 15,25). Ai primi cronisti non interessava tanto narrare quello che conoscevano già i loro uditori, quanto spiegar loro la sua trascendenza; si fissarono, dunque, in quei fatti nei quali videro meglio compiute le profezie antiche: mostrarono così che quello che era successo a Gesù seguiva un preciso piano di Dio.
L'imminenza della festa ebrea e la congiura delle autorità (Mc 14,1-2) sono il punto di partenza del racconto: Marco apre il racconto vincolando Pasqua e morte di Gesù, una morte che sarà cercata "con inganno" e calcolo. A questo ombroso inizio si contrappone il pio, poco abile, gesto della donna a Betania che anticipa ad ungere il corpo di Gesù preparandolo per la sua sepoltura (Mc 14,3-9). Contro l'opinione dei suoi discepoli, Gesù accetta il costoso gesto: i poveri possono aspettare (Mc 14,7), non Giuda che si vende per denaro e consegna il suo maestro (Mc 14,10-11). Queste tre brevi scene introducono bene la cronaca: tutti sono preparati, i carnefici, la vittima ed il traditore.
Il racconto della cena pasquale (Mc 14,12-31) ci presenta Gesù completamente cosciente di quello che succede e padrone degli avvenimenti: sa dove celebrare la festa e lascia che la preparino (Mc 14,12-16); predice, prima (Mc 14,17-21) e dopo (Mc 14 26-31) di istituire l'eucaristia (Mc 14,22-25) il tradimento di Giuda, lo sbandamento di tutti, la ripetuta negazione di Pietro. Solo, benché ancora accompagnato, Gesù culmina col gesto dell'estrema comunione, il dono della sua vita: consegnarsi, anticipatamente, a tutti nel pane e nel vino che riparte. E, attenzione!, lo fa sapendo che non sono degni, perché conosce che non gli saranno fedeli.
Essendosi consegnato agli intimi nel cenacolo, sarà fermato, immediatamente dopo, dagli avversari in un orto (Mc 14,26-31). Ma il Getsemani non è solo il posto del tradimento e dell'arresto, è il posto della tentazione suprema: mentre Gesù lotta per sopravvivere e liberarsi della volontà del Padre suo, i suoi discepoli dormono…, e Dio tace. A Gesù non rimane altro che "non fare quello che egli vuole" (Mc 14,36), per mantenersi figlio di Dio e consegnarsi "nelle mani dei peccatori" (Mc 14,41). Risultato, si lascia tradire con un bacio (Mc 12,45) catturare da una folla armata (Mc 14,48), abbandonato da Dio e dai suoi seguaci.
La cronaca del processo, centrale nel racconto della passione, è più dettagliata. In realtà, sono due i processi ai quali Gesù è sottomesso. Davanti al sommo sacerdote (Mc 14,53-72), nel suo palazzo, Gesù non evita di rispondere alla questione, centrale nel vangelo, ma la cui soluzione è stata ritardata fino a questo momento cruciale dal redattore, sulla sua identità: è il Messia, ha il potere di Dio alla cui destra è seduto e verrà di nuovo (Mc 14,61-62). Per inappropriata, la confessione con un simile dettaglio libera da ogni equivoco. Così lo capiscono i suoi giudici che lo condannano per blasfemia. "Mentre", ed è una nota del narratore, Pietro era molto occupato a rinnegare il suo Signore denunciato per la sua forma di parlare e accusato da una serva; la sua triplice negazione segue letteralmente il vaticinio di Gesù (Mc 14,30.72). Condannato a morte dalle autorità giudee (Mc 14,64), è portato davanti a Pilato (Mc 15,1-20) davanti al quale si cambia come colpa, l'accusa, perché ordini l'esecuzione: la bestemmia contro Dio è presentata come sedizioso politico. Gesù sembra meno interessato a rispondere a domande formulate e non spiega a Pilato se, o come, è re dei giudei (Mc 15,2.4). Ripudiato dal suo popolo (Mc 15,13) rimane alla mercé dei soldati che lo oltraggiano con scherni e lo deridono (Mc 15,16-20). Gesù reagisce col silenzio, senza perdere la dignità, assumendo già il suo destino.
Segue la scena della crocefissione e morte (Mc 15,21-41), centrata più nell'aneddoto che nell'essenziale: durante il tragitto verso la croce gli danno un 'cireneo' ed una bevanda che lo allievi prima dell'esecuzione; si spartiscono i suoi vestiti e lo crocifiggono tra due ladroni. Crocifisso continua ad essere schernito: non c'è solitudine più grande di colui che si sente abbandonato perfino dal suo Dio (Mc 15,34), mentre gli spettatori ripetono burlandosi con urla l'accusa con la quale è stato giustiziato (Mc 15,32). La morte è narrata con neutrale precisione, "verso le tre" (Mc 15,34.37) si oscura il cielo, si rompe il velo del tempio ed il pagano lo confessa come figlio di Dio. Tale messa in scena può essere, dal punto di vista storico, poco plausibile, ma l'intenzione del narratore è chiara: nel momento di maggiore debolezza ed impotenza, quando Gesù muore abbandonato dai suoi e ripudiato dal suo popolo, è possibile la fede nella sua divinità (Mc 15,39). Non furono i miracoli né la sua predicazione, non fu il discepolato né l'ammirazione che suscitava Gesù, la patria del credente, ma la morte in croce.
Una breve scena, quella della sepoltura (Mc 15,42-47), chiude la cronaca della passione di Gesù. Che si fosse rotolata la pietra sull'entrata della tomba di Gesù segnala, in modo affidabile, il trionfo della morte su Gesù e dell'infedeltà dei suoi discepoli. Benché esemplare, lo scritto su alcune donne che fanno da seppellitrici, conferma l'autenticità della morte di Gesù ed il silenzio di Dio.
2. MEDITARE:
APPLICARE QUELLO CHE DICE IL TESTO ALLA VITA
Dopo avere ascoltato, ancora un anno, la cronaca della Passione di Gesù, sarebbe più appropriato lasciar parlare il cuore e tacere ogni parola che ci allontani dal dramma della croce ed impedisca di contemplare Cristo e questi crocefisso; spesso si capisce meglio ciò di cui meno si parla ma si contempla con rispetto. Inoltre, sulla morte ed il dolore normalmente non parliamo con gusto: "l'uomo moderno, nonostante le sue conquiste, sente nella sua esperienza personale e collettiva l'abisso dell'abbandono, la tentazione del nichilismo, l'assurdo di tante sofferenze fisiche, morali e spirituali"; e non riesce a dare un senso a tanto dolore né osa considerare che "tutte queste sofferenze sono state assunte da Cristo nel suo grido di dolore e nella sua fiduciosa consegna al Padre." Neanche noi, cristiani che celebriamo la Passione di Gesù come la nostra salvezza, siamo convinti che, in lei e per lei, "la notte si trasforma in giorno, la sofferenza in godimento, la morte in vita" (Giovanni Paolo II).
Non dovrebbe sorprenderci troppo questa nostra incapacità di situare nella croce di Cristo la nostra salvezza: la morte di Gesù in croce fu, sia quando accadde e continua ad esserlo oggi, uno scandalo. Come i primi discepoli di Gesù, i credenti seguiamo con resistenza ad accettare che la sua morte violenta ed ingiusta sia la strada scelta da Dio per venire in nostro aiuto; non riusciamo a capire che un destino tanto ignominioso fosse inevitabile né comprendiamo che l'amore di Dio deve manifestarsi in fatti tanto disgraziati. La morte di Gesù, non necessaria e gratuita come ogni morte, ci è fatta più illogica per la brutalità delle sue circostanze e dell'ingiustizia che la provocò. Costa ammettere che dietro la croce di Cristo vi era Dio.
Benché non sia così brutto il non riuscire a capire la ragione di simile morte, il peggio è che non riusciamo a solidarizzarci con chi la sopportò. Continua ad essere realtà quello che succedette nella vita di Gesù: i pochi seguaci che l'accompagnarono durante gli ultimi giorni a Gerusalemme, non tardarono ad abbandonarlo man mano che egli si avvicinava inesorabilmente al Calvario. Allora come oggi, il posto della morte di Cristo è il posto del tradimento di quanti lo seguivano: l'entusiasmo che Gesù suscitò tra i suoi seguaci morì in essi prima che egli morisse in un patibolo; non valeva troppo la pena continuare a seguire chi andava a finire tanto malamente. Capiamo molto bene quei discepoli che non poterono sopportare lo spettacolo della croce: tanto somigliamo ad essi che ci risultano perfino simpatici!
È possibile, perfino, che oggi noi troviamo ancora maggiore difficoltà, poiché nei nostri giorni la morte è una realtà da dimenticare, purché non ci concerne, e l'ingiustizia un disordine che ci disinteressa, purché non ci tocchi. Condividiamo coi primi cristiani quella radicale ripugnanza a comprendere che nella morte di Cristo ottenemmo la vita eterna e la salvezza definitiva. Ricordare la morte di Gesù come un fatto del passato, di un tempo che dista già due millenni dai nostri giorni, si corre il rischio di non riconoscere che ci concerne direttamente: sapere che furono altri quelli che uccisero Gesù ci porta a non sentirci responsabili della sua morte; poter dire che tutto ciò succedette secoli fa, in posti molto distanti ed essendo altri i protagonisti, allontana da noi qualunque sentimento di colpevolezza ed alimenta la nostra indifferenza. E riusciamo a sentirci liberi dal peccato che commettiamo, o ci crediamo solo superiori alle disgrazie che causiamo agli altri, perché ci rifiutiamo di saperci salvati nella croce di Cristo. Perché, lo vogliamo o no per quanti la croce non è salvezza, non se ne disporrà di un altra - non già di una migliore - opportunità di sentirsi salvati da Dio.
Siamo, dunque, i credenti oggi, come i discepoli ieri, i peggiori nemici, i più recalcitranti, della salvezza che Dio ha pensato e realizzato nella croce di Cristo. Fugge da noi la potenza di Dio, se ci scappa dalle mani, e dal cuore, la croce di Cristo; rinunciando ad essa, riusciamo certamente a fare più comprensibile il nostro Dio, senza accorgercene; un Dio che stesse nel nostro cuore e che si adattasse ai nostri desideri, sarebbe meglio per il nostro cuore e per i nostri aneliti. Il fatto che non riusciamo a capire il Dio che ci ama nella croce di Cristo, non ci impedisce di sentirci amati; che la croce di Cristo sia la prova del suo affetto, non la fa più intelligibile, ma si presenta più problematica: noi non ci saremmo immaginati mai tale amore.
Contro la croce si schiantano tutti i tentativi che l'uomo intraprende per addomesticare Dio; nella croce rimarrà sempre, irraggiungibile e sovrana, la libertà personale di Dio; nella croce Dio ha dimostrato il suo impegno di esserci fedele nonostante le nostre reticenze. E non è la cosa peggiore l'opzione per la croce, scelta da Dio, che si scontra con la nostra incomprensione; più grave è che noi smettiamo di sentirci amati da Dio da sottovalutare il modo che Egli scelse: se disprezziamo la croce di Cristo, se la dimentichiamo o la ignoriamo, come potremmo capire le ragioni di Dio, le ragioni di un amore che si è lasciato vedere solo nella croce di Cristo?; nessuno può sentirsi mai realmente amato da Dio, se non accetta la sua forma di amarci. Sarebbe, dunque, una vera pena che, per non volerlo accettare con la mente, lo respingesse anche il nostro cuore: mettere obiezioni alla croce di Cristo significherebbe mettere obiezioni alla salvezza di Dio.
E tuttavia, ciò è tanto antico come lo è la sequela di Gesù. Da quando chiamò alcuni uomini a condividere con lui destino e forma di vita, progetti ed esistenza giornaliera, si trovò con persone che lo seguirono fino alla croce, ma solo fino ad essa; lì lo lasciarono solo; chi più gli promise fedeltà, con più impegno lo negò; uno col quale aveva condiviso la vita fu colui che lo consegnò. La convivenza prolungata giorno e notte non bastò; la conoscenza acquisita durante lunghe camminate predicando il regno fu insufficiente; l'entusiasmo e la fede non lo raggiunsero interiormente: davanti alla croce solo un sconosciuto che, per vergogna dei discepoli, fu il responsabile della crocifissione diventò credente.
La fine di Gesù che suppose la fine di quanti lo seguirono, dovrebbe farci pensare: quanti ci dichiariamo di vivere con Gesù per non dover accettare la sua croce, dovrebbe farci impressione che tutti i discepoli fallirono lì dove resistette un pagano. Marco ci ha ricordato che il primo cristiano nacque quando un uomo confessò Cristo moribondo, come Figlio di Dio. Il discepolo di Cristo che ricorda oggi la tragica fine del suo Signore dovrebbe essere più cosciente della fine, tanto ridicola come tragica dei suoi primi discepoli: non vi è ragione per credersi migliori dei primi discepoli. La croce di Gesù continua ad essere la prova da superare: in lei sta la prova della fedeltà di Gesù ed in lei si deve provare la nostra fedeltà a lui. Tenerlo in conto ci aiuterebbe a celebrare con più responsabilità queste feste: la nostra fede non sarà libera dal dubbio finché non accettiamo la croce di Cristo.
JUAN J. BARTOLOME sdb
I racconti della Passione nacquero dalla necessità avuta dalla generazione dei testimoni della Resurrezione di spiegarsi il senso della morte tragica di Gesù: coloro che assicuravano di averlo visto vivo, per forza dovevano dire che era morto giustiziato e, soprattutto, narrare le circostanze di quella morte in forma tale che diventasse plausibile, ad essi ed ai loro uditori, la loro esperienza pasquale. Affinché il racconto
risultasse convincente, doveva comunicare un significato che non si esaurisse nella cronaca di quello che era successo. Marco vi riesce insistendo in una narrazione dei fatti che lascia vedere il compimento delle Scritture (Mc 14,27.62; 15,34): Dio l'aveva determinato così ed era stato già perfino preannunciato dallo stesso Gesù (Mc 8,31; 9,11; 10,33-34).
La croce, scandalo per la fedeltà dei discepoli, prima di essere difficoltà per la fede degli uditori postumi, è il momento supremo della rivelazione della divinità di Gesù (Mc 15,39). Chi crede nel Crocefisso, crederà nel Figlio di Dio; l'autentico credente è chi, non avendo vissuto con Gesù, fu testimone della sua morte e proclamò la sua divinità. Dovrebbe far pensare quanti si vantano di una convivenza prolungata con Gesù ma non accettano la sua croce. Il discepolo di Cristo che ricorda oggi la tragica fine del suo Signore dovrebbe essere più cosciente della fine, tanto ridicola come tragica dei suoi primi discepoli: non deve illudersi di essere migliore di essi. La croce di Gesù continua ad essere la prova da superare.
1. LEGGERE:
Capire quello che dice il testo e come lo dice
Dobbiamo a Marco la più antica cronaca scritta della passione e morte di Gesù. Benché segua la sequenza probabile dei fatti e la sua narrazione sia schietta, quasi notarile, non è un semplice diario di quell'accaduto. Richiama l'attenzione appena menzionata di come gli eventi narrati colpirono i protagonisti, Gesù compreso, salvo la scena del Getsemani: (Mc 14,32-42) o che si trattenga in dettagli 'irrilevanti', per esempio, gli oltraggi prima e durante la crocifissione: (Mc 15,16-191.29-32) inverosimili, la lacerazione del velo del tempio: (Mc 15,38) o vergognosi, il tradimento di Pietro e degli altri discepoli: (Mc 14,10-11.17-21.26-31.66-72) mentre il fatto stesso della morte sia menzionato con un preciso "erano le nove del mattino quando lo crocefissero" (Mc 15,25). Ai primi cronisti non interessava tanto narrare quello che conoscevano già i loro uditori, quanto spiegar loro la sua trascendenza; si fissarono, dunque, in quei fatti nei quali videro meglio compiute le profezie antiche: mostrarono così che quello che era successo a Gesù seguiva un preciso piano di Dio.
L'imminenza della festa ebrea e la congiura delle autorità (Mc 14,1-2) sono il punto di partenza del racconto: Marco apre il racconto vincolando Pasqua e morte di Gesù, una morte che sarà cercata "con inganno" e calcolo. A questo ombroso inizio si contrappone il pio, poco abile, gesto della donna a Betania che anticipa ad ungere il corpo di Gesù preparandolo per la sua sepoltura (Mc 14,3-9). Contro l'opinione dei suoi discepoli, Gesù accetta il costoso gesto: i poveri possono aspettare (Mc 14,7), non Giuda che si vende per denaro e consegna il suo maestro (Mc 14,10-11). Queste tre brevi scene introducono bene la cronaca: tutti sono preparati, i carnefici, la vittima ed il traditore.
Il racconto della cena pasquale (Mc 14,12-31) ci presenta Gesù completamente cosciente di quello che succede e padrone degli avvenimenti: sa dove celebrare la festa e lascia che la preparino (Mc 14,12-16); predice, prima (Mc 14,17-21) e dopo (Mc 14 26-31) di istituire l'eucaristia (Mc 14,22-25) il tradimento di Giuda, lo sbandamento di tutti, la ripetuta negazione di Pietro. Solo, benché ancora accompagnato, Gesù culmina col gesto dell'estrema comunione, il dono della sua vita: consegnarsi, anticipatamente, a tutti nel pane e nel vino che riparte. E, attenzione!, lo fa sapendo che non sono degni, perché conosce che non gli saranno fedeli.
Essendosi consegnato agli intimi nel cenacolo, sarà fermato, immediatamente dopo, dagli avversari in un orto (Mc 14,26-31). Ma il Getsemani non è solo il posto del tradimento e dell'arresto, è il posto della tentazione suprema: mentre Gesù lotta per sopravvivere e liberarsi della volontà del Padre suo, i suoi discepoli dormono…, e Dio tace. A Gesù non rimane altro che "non fare quello che egli vuole" (Mc 14,36), per mantenersi figlio di Dio e consegnarsi "nelle mani dei peccatori" (Mc 14,41). Risultato, si lascia tradire con un bacio (Mc 12,45) catturare da una folla armata (Mc 14,48), abbandonato da Dio e dai suoi seguaci.
La cronaca del processo, centrale nel racconto della passione, è più dettagliata. In realtà, sono due i processi ai quali Gesù è sottomesso. Davanti al sommo sacerdote (Mc 14,53-72), nel suo palazzo, Gesù non evita di rispondere alla questione, centrale nel vangelo, ma la cui soluzione è stata ritardata fino a questo momento cruciale dal redattore, sulla sua identità: è il Messia, ha il potere di Dio alla cui destra è seduto e verrà di nuovo (Mc 14,61-62). Per inappropriata, la confessione con un simile dettaglio libera da ogni equivoco. Così lo capiscono i suoi giudici che lo condannano per blasfemia. "Mentre", ed è una nota del narratore, Pietro era molto occupato a rinnegare il suo Signore denunciato per la sua forma di parlare e accusato da una serva; la sua triplice negazione segue letteralmente il vaticinio di Gesù (Mc 14,30.72). Condannato a morte dalle autorità giudee (Mc 14,64), è portato davanti a Pilato (Mc 15,1-20) davanti al quale si cambia come colpa, l'accusa, perché ordini l'esecuzione: la bestemmia contro Dio è presentata come sedizioso politico. Gesù sembra meno interessato a rispondere a domande formulate e non spiega a Pilato se, o come, è re dei giudei (Mc 15,2.4). Ripudiato dal suo popolo (Mc 15,13) rimane alla mercé dei soldati che lo oltraggiano con scherni e lo deridono (Mc 15,16-20). Gesù reagisce col silenzio, senza perdere la dignità, assumendo già il suo destino.
Segue la scena della crocefissione e morte (Mc 15,21-41), centrata più nell'aneddoto che nell'essenziale: durante il tragitto verso la croce gli danno un 'cireneo' ed una bevanda che lo allievi prima dell'esecuzione; si spartiscono i suoi vestiti e lo crocifiggono tra due ladroni. Crocifisso continua ad essere schernito: non c'è solitudine più grande di colui che si sente abbandonato perfino dal suo Dio (Mc 15,34), mentre gli spettatori ripetono burlandosi con urla l'accusa con la quale è stato giustiziato (Mc 15,32). La morte è narrata con neutrale precisione, "verso le tre" (Mc 15,34.37) si oscura il cielo, si rompe il velo del tempio ed il pagano lo confessa come figlio di Dio. Tale messa in scena può essere, dal punto di vista storico, poco plausibile, ma l'intenzione del narratore è chiara: nel momento di maggiore debolezza ed impotenza, quando Gesù muore abbandonato dai suoi e ripudiato dal suo popolo, è possibile la fede nella sua divinità (Mc 15,39). Non furono i miracoli né la sua predicazione, non fu il discepolato né l'ammirazione che suscitava Gesù, la patria del credente, ma la morte in croce.
Una breve scena, quella della sepoltura (Mc 15,42-47), chiude la cronaca della passione di Gesù. Che si fosse rotolata la pietra sull'entrata della tomba di Gesù segnala, in modo affidabile, il trionfo della morte su Gesù e dell'infedeltà dei suoi discepoli. Benché esemplare, lo scritto su alcune donne che fanno da seppellitrici, conferma l'autenticità della morte di Gesù ed il silenzio di Dio.
2. MEDITARE:
APPLICARE QUELLO CHE DICE IL TESTO ALLA VITA
Dopo avere ascoltato, ancora un anno, la cronaca della Passione di Gesù, sarebbe più appropriato lasciar parlare il cuore e tacere ogni parola che ci allontani dal dramma della croce ed impedisca di contemplare Cristo e questi crocefisso; spesso si capisce meglio ciò di cui meno si parla ma si contempla con rispetto. Inoltre, sulla morte ed il dolore normalmente non parliamo con gusto: "l'uomo moderno, nonostante le sue conquiste, sente nella sua esperienza personale e collettiva l'abisso dell'abbandono, la tentazione del nichilismo, l'assurdo di tante sofferenze fisiche, morali e spirituali"; e non riesce a dare un senso a tanto dolore né osa considerare che "tutte queste sofferenze sono state assunte da Cristo nel suo grido di dolore e nella sua fiduciosa consegna al Padre." Neanche noi, cristiani che celebriamo la Passione di Gesù come la nostra salvezza, siamo convinti che, in lei e per lei, "la notte si trasforma in giorno, la sofferenza in godimento, la morte in vita" (Giovanni Paolo II).
Non dovrebbe sorprenderci troppo questa nostra incapacità di situare nella croce di Cristo la nostra salvezza: la morte di Gesù in croce fu, sia quando accadde e continua ad esserlo oggi, uno scandalo. Come i primi discepoli di Gesù, i credenti seguiamo con resistenza ad accettare che la sua morte violenta ed ingiusta sia la strada scelta da Dio per venire in nostro aiuto; non riusciamo a capire che un destino tanto ignominioso fosse inevitabile né comprendiamo che l'amore di Dio deve manifestarsi in fatti tanto disgraziati. La morte di Gesù, non necessaria e gratuita come ogni morte, ci è fatta più illogica per la brutalità delle sue circostanze e dell'ingiustizia che la provocò. Costa ammettere che dietro la croce di Cristo vi era Dio.
Benché non sia così brutto il non riuscire a capire la ragione di simile morte, il peggio è che non riusciamo a solidarizzarci con chi la sopportò. Continua ad essere realtà quello che succedette nella vita di Gesù: i pochi seguaci che l'accompagnarono durante gli ultimi giorni a Gerusalemme, non tardarono ad abbandonarlo man mano che egli si avvicinava inesorabilmente al Calvario. Allora come oggi, il posto della morte di Cristo è il posto del tradimento di quanti lo seguivano: l'entusiasmo che Gesù suscitò tra i suoi seguaci morì in essi prima che egli morisse in un patibolo; non valeva troppo la pena continuare a seguire chi andava a finire tanto malamente. Capiamo molto bene quei discepoli che non poterono sopportare lo spettacolo della croce: tanto somigliamo ad essi che ci risultano perfino simpatici!
È possibile, perfino, che oggi noi troviamo ancora maggiore difficoltà, poiché nei nostri giorni la morte è una realtà da dimenticare, purché non ci concerne, e l'ingiustizia un disordine che ci disinteressa, purché non ci tocchi. Condividiamo coi primi cristiani quella radicale ripugnanza a comprendere che nella morte di Cristo ottenemmo la vita eterna e la salvezza definitiva. Ricordare la morte di Gesù come un fatto del passato, di un tempo che dista già due millenni dai nostri giorni, si corre il rischio di non riconoscere che ci concerne direttamente: sapere che furono altri quelli che uccisero Gesù ci porta a non sentirci responsabili della sua morte; poter dire che tutto ciò succedette secoli fa, in posti molto distanti ed essendo altri i protagonisti, allontana da noi qualunque sentimento di colpevolezza ed alimenta la nostra indifferenza. E riusciamo a sentirci liberi dal peccato che commettiamo, o ci crediamo solo superiori alle disgrazie che causiamo agli altri, perché ci rifiutiamo di saperci salvati nella croce di Cristo. Perché, lo vogliamo o no per quanti la croce non è salvezza, non se ne disporrà di un altra - non già di una migliore - opportunità di sentirsi salvati da Dio.
Siamo, dunque, i credenti oggi, come i discepoli ieri, i peggiori nemici, i più recalcitranti, della salvezza che Dio ha pensato e realizzato nella croce di Cristo. Fugge da noi la potenza di Dio, se ci scappa dalle mani, e dal cuore, la croce di Cristo; rinunciando ad essa, riusciamo certamente a fare più comprensibile il nostro Dio, senza accorgercene; un Dio che stesse nel nostro cuore e che si adattasse ai nostri desideri, sarebbe meglio per il nostro cuore e per i nostri aneliti. Il fatto che non riusciamo a capire il Dio che ci ama nella croce di Cristo, non ci impedisce di sentirci amati; che la croce di Cristo sia la prova del suo affetto, non la fa più intelligibile, ma si presenta più problematica: noi non ci saremmo immaginati mai tale amore.
Contro la croce si schiantano tutti i tentativi che l'uomo intraprende per addomesticare Dio; nella croce rimarrà sempre, irraggiungibile e sovrana, la libertà personale di Dio; nella croce Dio ha dimostrato il suo impegno di esserci fedele nonostante le nostre reticenze. E non è la cosa peggiore l'opzione per la croce, scelta da Dio, che si scontra con la nostra incomprensione; più grave è che noi smettiamo di sentirci amati da Dio da sottovalutare il modo che Egli scelse: se disprezziamo la croce di Cristo, se la dimentichiamo o la ignoriamo, come potremmo capire le ragioni di Dio, le ragioni di un amore che si è lasciato vedere solo nella croce di Cristo?; nessuno può sentirsi mai realmente amato da Dio, se non accetta la sua forma di amarci. Sarebbe, dunque, una vera pena che, per non volerlo accettare con la mente, lo respingesse anche il nostro cuore: mettere obiezioni alla croce di Cristo significherebbe mettere obiezioni alla salvezza di Dio.
E tuttavia, ciò è tanto antico come lo è la sequela di Gesù. Da quando chiamò alcuni uomini a condividere con lui destino e forma di vita, progetti ed esistenza giornaliera, si trovò con persone che lo seguirono fino alla croce, ma solo fino ad essa; lì lo lasciarono solo; chi più gli promise fedeltà, con più impegno lo negò; uno col quale aveva condiviso la vita fu colui che lo consegnò. La convivenza prolungata giorno e notte non bastò; la conoscenza acquisita durante lunghe camminate predicando il regno fu insufficiente; l'entusiasmo e la fede non lo raggiunsero interiormente: davanti alla croce solo un sconosciuto che, per vergogna dei discepoli, fu il responsabile della crocifissione diventò credente.
La fine di Gesù che suppose la fine di quanti lo seguirono, dovrebbe farci pensare: quanti ci dichiariamo di vivere con Gesù per non dover accettare la sua croce, dovrebbe farci impressione che tutti i discepoli fallirono lì dove resistette un pagano. Marco ci ha ricordato che il primo cristiano nacque quando un uomo confessò Cristo moribondo, come Figlio di Dio. Il discepolo di Cristo che ricorda oggi la tragica fine del suo Signore dovrebbe essere più cosciente della fine, tanto ridicola come tragica dei suoi primi discepoli: non vi è ragione per credersi migliori dei primi discepoli. La croce di Gesù continua ad essere la prova da superare: in lei sta la prova della fedeltà di Gesù ed in lei si deve provare la nostra fedeltà a lui. Tenerlo in conto ci aiuterebbe a celebrare con più responsabilità queste feste: la nostra fede non sarà libera dal dubbio finché non accettiamo la croce di Cristo.
JUAN J. BARTOLOME sdb
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