Card. JEAN-MARIE LUSTIGER MEDITAZIONE"Cristo, vero pastore"

MEDITAZIONE
Nella quarta domenica di Pasqua, tutti gli anni, ascoltiamo dal decimo capitolo di san Giovanni
la parabola di Cristo, vero pastore. E tutti gli anni, alla stessa distanza da Pasqua, la Chiesa,
unendo alla parabola del pastore il ministero pastorale dei sacerdoti, fa pregare per le vocazioni.

In primo luogo le vocazioni sacerdotali, l'obiettivo più visibile nel nostro paese provato da una
crisi interna assai sensibile. Ma anche le vocazioni di uomini e di donne alla consacrazione di
tutta la loro vita in svariate attività: vita religiosa nella contemplazione o al servizio degli altri,
nelle forme più diverse, anche nella vita laica. In breve, questo dono totale di un'esistenza, che
in tutti i campi dell'attività umana rinuncia a ciò che sarebbe normale e piacevole intraprendere,
per rispondere alla chiamata di Dio ed essere disponibile per i propri fratelli se ve n'è bisogno.
Nel nostro paese, in ogni caso, ci troviamo oggi in una situazione ambigua, poiché si capisce a
fatica ciò che essa stessa significa e sino a dove giunge. Come dei dormienti che si sono svegliati
male, non sappiamo che pensare e che prevedere in un avvenire del quale non vediamo bene
il contorno. Secondo ciò che è più o meno desiderato, siamo ottimisti o pessimisti. In ogni caso
cerchiamo di giustificare in qualche modo una situazione che rende insicuri. Ma non ignoriamo
che, in un tempo e in un'epoca determinata, un indice misura lo stato di un popolo, il suo
fervore, la sua vitalità: è il numero e la qualità dei giovani, delle donne e degli uomini, che in
una generazione sono pronti a consacrare tutte le loro forze a un ideale, all'amore, al desiderio
di servire, e che levandosi dicono: "Eccomi".
Quando una causa non suscita più generosità, è morta, oppure gli uomini e le donne che
potevano promuoverla stanno essi stessi morendo. È il motivo per cui la situazione attuale che
mette a fuoco la penuria di vocazioni ci fa preoccupare per noi stessi.
Prima di meditare la parabola del buon Pastore, del vero Pastore, vi invito a ricordare una frase
della prima lettera di san Giovanni (1Gv 3,1) che spesso passa inosservata: "Fin d'ora siamo
figli di Dio. Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo
realmente! La ragione per cui il mondo non ci conosce, è perché non ha conosciuto lui". Frase
terribile. Giovanni, questo visionario, questo mistico, affascinato e nutrito dalla Rivelazione,
abbagliato da quello che hanno visto i suoi occhi, le cui mani hanno toccato il Verbo della vita
(1Gv 1,1), vede bene che questo mondo pagano nel quale egli è stato mandato come testimone
della parola, questo universo di uomini organizzati nel loro paganesimo, non può sapere chi sono
i figli di Dio perché non conosce Dio.
Ora, miei fratelli, amici miei, la vera crisi cristiana è innanzitutto la crisi di un popolo o di un
momento della storia di un popolo, di una cultura o del momento di una cultura che sta
ritornando pagana. Molti di coloro che portano il nome di cristiani sono di fatto pagani. Io non
accuso, constato. Bisogna sapere bene attraverso quale educazione, quale lunga conversione
dello spirito, dell'intelligenza, alcuni uomini e alcune donne scoprono che la loro esistenza
acquista un senso solo perché Dio esiste, che la loro dignità viene da Dio stesso e che essi
devono agire per rendere gloria a Dio; poiché la vita umana non trova la sua pienezza che nel
ricevere i comandamenti di Dio, la legge della vita.
Detto in altre parole, l'apostolo Pietro non potrebbe tenere ai nostri cittadini d'oggi il discorso
rivolto agli Ebrei di Gerusalemme, poiché i presupposti dei suoi ascoltatori sono
incommensurabilmente più fondati sulla fede nel Dio unico e vero di quanto non lo siano quelli
dei nostri contemporanei. Noi siamo oggi sottoposti alla prova di un paganesimo che opera nelle
coscienze di coloro che furono o che sono cristiani ma per i quali Dio rimane una domanda,
invece di strutturare tutta la loro vita, invece di donare alla loro vita un significato. E la frase di
san Giovanni rivolta al paganesimo dell'antichità vale forse anche per il nostro mondo.
I figli di Dio che nasceranno dalla potenza del nostro Padre celeste conosceranno una prova di
fedeltà e di fede che rivela esattamente la natura della crisi nella quale siamo entrati. Non una
crisi della Chiesa, non una crisi del clero, non una crisi dell'istituzione; si sbagliano coloro che
lo pensano. Poiché noi siamo davanti alla crisi di fede di un popolo.
La prima virtù richiesta al popolo cristiano è la fede. La fede, non come una convinzione
posticcia, ma come un atto che trasformi il cuore, la libertà, l'intelligenza e che presupponga che
il credente accetti di essere liberato dalla sua miscredenza. La fede non come una certezza
tranquilla e acquisita, a guisa dei patrimoni culturali, ma la fede come lotta che, quale prova
purificatrice e redentrice, vi obbliga a convertirvi, a "farvi tornare indietro". Non si tratta di
pensare come vi si è detto di pensare o come si pensava un tempo, ma di entrare nel mistero
del Cristo, il mistero stesso della Redenzione, accettando che questa fede in Gesù Messia ci
giudichi e ci liberi, valuti il nostro peccato e ci porti nello stesso tempo la luce liberatrice.
Entrate dunque nel mistero del Cristo, vero pastore, che dona la sua vita per le sue pecore. Non
è la condotta suicida dell'eroe. A lui, il vero Pastore, il Figlio di Dio, nessuno può prendere la vita
perché egli ha il potere di "riprenderla". La sua vita, egli la dona di sua volontà ed egli ci dona
la vita in quanto egli stesso vive. E nel donare la sua vita egli non la perde; la riceve da suo
Padre e obbedisce ai suoi comandamenti.
La questione fondamentale non è sapere se possiamo misurare la crescita della fede o della
miscredenza della Chiesa; ma di vedere, come popolo di credenti, in quale prova ci troviamo con
gli uomini che ci circondano. Prova la cui posta è la salvezza di una generazione, di una cultura,
di un popolo. Dico bene: salvezza, nel senso più forte della parola; poiché il nostro mondo va
alla rovina non solo umana ma eterna. È il senso della vita che è in gioco, la nostra vera dignità,
il nostro rapporto con Dio. Ognuno di noi è costretto a porsi seriamente il problema.
Infatti, se ci è concessa la grazia di conoscere Dio, dobbiamo ascoltare la voce dell'unico
Pastore, Cristo. Il segno che noi siamo veramente le pecore di Cristo, è il fatto che "noi lo
conosciamo come egli ci conosce, e che noi ascoltiamo la sua voce", aspetto sottolineato di rado.
Nella parabola, Cristo attira la nostra attenzione sul mercenario: colui che non libera perché non
può donare la vita; arriva la prova, il lupo che si impadronisce delle pecore, e il mercenario se
ne va perché vuole salvare la propria vita e non quella delle pecore. Al contrario, il vero Pastore,
che non è un uomo prezzolato e al quale le pecore, affidategli dal Padre, appartengono come
al Padre stesso, dà la sua vita per le sue pecore. E il segno che egli è il vero Pastore è che le
pecore lo conoscono così come egli le conosce, e ascoltano la sua voce.
Se volete dei pastori, è necessario dunque che proviate che siete veramente delle pecore,
ascoltando la voce di Cristo, il vero Pastore, altrimenti non avrete che dei mercenari. Ascoltare
la sua voce è entrare in quel cammino della vita nel quale egli ci precede e del quale egli è la
guida, la porta, la verità. Si tratta di accettare di camminare dietro al Cristo per andare là dove
egli va e ricevere da lui la nostra vita.
È tra coloro che ascoltano la sua voce che si trovano gli uomini e le donne pronti a rispondere
alla chiamata di Cristo per essere i servitori del gregge che gli appartiene. È in questo popolo
docile alla voce del solo Pastore, Cristo, che si trovano gli uomini e le donne pronti ad affrontare
la dura lotta della fede perché tutti gli uomini siano salvati.
Valutiamolo di nuovo. Dire che la vera natura della nostra lotta spirituale è la prova del rifiuto
di Dio, dell'assenza di Dio, dell'ignoranza di Dio ("essi non conoscono Dio", dice san Giovanni),
è scoprire la grandezza, la profondità, l'urgenza della missione affidata ai cristiani: liberare gli
uomini dalla loro cecità spirituale e da ciò a cui essa conduce. Infatti, non conoscere Dio significa
essere prigionieri della morte, non essere se stessi, essere esiliati; significa non trovare gioia
nel mondo e negli uomini, non sapere cosa sia la fratellanza tra gli uomini né il vero destino
dell'uomo.
Osiamo supplicare Dio affinché ci apra gli occhi e il cuore davanti a questa grande opera d'amore
alla quale ormai partecipiamo. E ripetiamo le frasi piene di speranza dell'apostolo Giovanni. Non
con l'angoscia di un gruppetto di persone che rischiano di ripiegarsi sulla propria paura, ma con
l'audace fiducia dei discepoli che anche nella loro solitudine penetrano nel cuore dell'amore,
come i primi cristiani che ascoltavano san Giovanni: "Carissimi, guardate quale grande amore
ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! La ragione per cui il
mondo non ci conosce è perché non conosce lui". Giovanni descrive anche la speranza che ci
pervade: "Ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà
manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è".
Sì, noi osiamo dire che Cristo è la via, la verità, la vita, che nulla giunge al Padre senza essere
passato attraverso di lui. Nel dire questo noi non escludiamo nessun uomo e non rivendichiamo
nessun privilegio. Se non quello di essere crocifissi con colui che ci risuscita, se non quello di
lavorare per l'amore e per il perdono al fianco di colui che ci ama e che ci ha perdonati. Se non
quello di essere la Chiesa che Dio ha scelto per manifestare agli uomini, qui e ora, la speranza
eterna.
Card. JEAN-MARIE LUSTIGER

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