CIPRIANI SETTIMO SDB "Bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me"
19 aprile 2015 | 3a Domenica di Pasqua - Anno B | Appunti per la Lectio
Le letture bibliche di questa terza Domenica di Pasqua, come del resto quelle delle Domeniche successive, vogliono aiutarci a penetrare sempre di più nel mistero pasquale.
E il "mistero" pasquale è tale non solo per la grandezza incommensurata di amore e di potenza
dimostrata da Cristo sia nel donarsi alla morte per noi sia nel risorgere, per virtù dello Spirito, dai morti, ma anche per altri risvolti sorprendenti di questa quasi incredibile storia.
Ad esempio, questo: com'è possibile che un crimine, religioso e politico nello stesso tempo, una sopraffazione violenta e spietata come di fatto è stata la morte di Cristo, abbia potuto diventare un gesto di salvezza? Ed accanto a questo se ne profila subito un altro: in che senso tutto questo può rientrare nel "disegno" di Dio?
Sono degli interrogativi che rendono più denso il "mistero" ed a cui hanno tentato di rispondere, più che con uno sforzo di ricerca teologica, con il desiderio di penetrare e di gustare più in profondità il "dono di Dio", già i primi annunciatori del Vangelo. Le letture bibliche della presente Domenica mi sembra che si muovano, almeno in parte, su questa linea.
"Dio ha glorificato il suo servo Gesù, che voi avete ucciso"
La prima lettura (At 3,13-15.17-19) ci riporta parte del discorso di Pietro, pronunciato in occasione della guarigione dello storpio davanti alla porta "bella" del tempio.
Per allontanare da sé e da Giovanni il fanatismo della folla, egli rivela loro che è la "potenza" del Cristo risorto che ha operato il prodigio, di cui essi sono stati spettatori. In tal modo Dio "ha glorificato il suo servo Gesù, che vi avete consegnato e rinnegato di fronte a Pilato, mentre egli aveva deciso di liberarlo... Ma Dio l'ha risuscitato dai morti e di questo noi siamo testimoni" (At 3,13-15).
Si noti la contrapposizione violenta che san Pietro fa tra i Giudei che lo stanno ascoltando ("voi avete rinnegato... e ucciso l'autore della vita") e Dio, che dà un esito completamente diverso all'assassinio da quelli così freddamente premeditato ("...ma Dio l'ha risuscitato dai morti").
Ci sono in gioco come due volontà che tendono ad elidersi a vicenda: una volontà di odio, quella dei Giudei, che tende alla distruzione; una volontà di amore, quella di Dio, che tende non solo alla riparazione del male, ma addirittura alla "glorificazione" dell'oppresso mediante la risurrezione e la manifestazione della sua potenza attraverso il miracolo adesso operato dagli apostoli. Il che significa che Dio, pur non annullando la cattiva volontà degli uomini, la fa servire per il suo superiore disegno di amore e di salvezza. È quanto Pietro proclama solennemente al termine della presente lettura: "Ora, fratelli, io so che voi avete agito per ignoranza, così come i vostri capi; Dio però ha adempiuto così ciò che aveva annunziato per bocca di tutti i profeti, che cioè il suo Cristo sarebbe morto" (vv. 17-18).
Tutto questo, come abbiamo sopra accennato, rende più "denso" il mistero pasquale, ma lo rende anche più luminoso ed affascinante: l'amore di Dio, invece che essere scoraggiato dalla malvagità umana, ne viene come stimolato e provocato a manifestazioni sempre più radiose!
"Perché siete turbati e perché sorgono dubbi nel vostro cuore?"
Il brano di Vangelo, che praticamente è la parte conclusiva dell'intero Vangelo di Luca (24,35-48), riprende alcune di queste idee situandole in una prospettiva anche più larga.
Se si pensa che il presente brano viene subito dopo il racconto dell'apparizione ai discepoli di Emmaus, come ricorda espressamente il versetto iniziale (v. 35), e che proprio a loro, che ritornano a Gerusalemme, gli undici annunziano: "Il Signore è veramente risorto ed è apparso a Simone" (v. 34), si rimane piuttosto sorpresi nel vederli in preda alla paura e al dubbio, proprio mentre Gesù appare a loro tutti insieme per la prima volta. "Stupiti e spaventati, credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse: "Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho". Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi" (24,37-40).
Come si spiega tutto questo? Inabilità narrativa di Luca che non avrebbe disposto nel debito ordine i fatti? O non piuttosto una precisa situazione "obiettiva", che dimostra come non era facile neppure per gli apostoli accettare sia il fatto, sia le modalità della risurrezione? Crediamo senz'altro che per uno scrittore così raffinato come Luca sia ammissibile solo la seconda ipotesi.
Nel raccontare le diverse "cristofanie" egli ha delle precise finalità teologiche da raggiungere, per proporle alla riflessione dei suoi lettori che provengono dal mondo ellenistico. Così, ad esempio, per dei cristiani che vivevano in ambiente greco, dove le diverse filosofie insegnavano che l'anima vive separata dal corpo, dopo la morte, era importante affermare che il Cristo risorto non era uno "spirito" immortale senza corpo: si noti che il termine che noi abbiamo tradotto per "fantasma" di fatto nel testo originale è pnèuma, cioè "spirito". Perciò san Luca vuol prima di tutto dire ai suoi lettori che Gesù è "veramente" risorto, perché adesso vive di nuovo con il "suo" corpo, quel "corpo" che era stato dato alla morte sulla croce: "Toccatemi e guardate: un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho" (v. 39).
Tanto è "vero" il suo corpo, che egli può addirittura mangiare del cibo come tutti noi! È l'ultima sfida che lancia ai suoi apostoli, ancora stupefatti e disorientati: ""Avete qui qualche cosa da mangiare?". Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro" (vv. 41-43).
Proprio per questo, anche nel libro degli Atti san Luca ritornerà sul tema degli apostoli che "hanno mangiato e bevuto con lui", dopo che il Cristo era risorto dai morti.
"Sono proprio io! Toccatemi e guardate"
D'altra parte, tutto questo dimostra non solo la "realtà" del suo "corpo", ma anche la "identità" del corpo risorto con quello che essi avevano veduto martoriato sulla croce: "Guardate le mie mani e i miei piedi. Sono proprio io! Toccatemi e guardate" (v. 39). Con queste parole Gesù intende certamente alludere alle sue mani e ai suoi piedi "perforati" dai chiodi, proprio come aveva chiesto Tommaso secondo il racconto del quarto Vangelo: "Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi..., non crederò" (Gv 20,25). Era questo il "segno" della sua "identità"! La "gloria" del Cristo risorto sta tutta nel gesto della sua donazione alla morte: la risurrezione è precisamente l'esaltazione della sua morte di croce, le cui "stigmate" doloranti permangono ancora nel suo corpo glorioso.
Perciò non è tanto e solo il problema della "identità" del Cristo prepasquale e di quello pasquale che l'evangelista intende affermare, insistendo su questi particolari, ma anche la "continuità" dell'unico e identico evento redentivo che, passando per la croce, si consuma nella risurrezione, come scrive meravigliosamente san Paolo: "Gesù Cristo è stato messo a morte per i nostri peccati ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione" (Rm 4,15). La risurrezione è come il frutto della sua morte!
Tutto questo, ovviamente, ha un significato vitale anche per noi, che per il battesimo veniamo trascinati nella medesima esperienza di morte e di vita del Cristo: "Se infatti siamo connaturati con lui per una morte simile alla sua, lo saremo pure per una somigliante risurrezione" (Rm 6,5).
"Bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me"
La scena evangelica però non si ferma qui. Ci sono ancora altri due elementi da prendere in considerazione e che ci aiutano a comprendere il senso ultimo della risurrezione del Cristo.
Il primo è che essa rappresenta come il punto di arrivo di tutto il disegno salvifico di Dio. È quanto Gesù afferma subito dopo, per aiutare i suoi apostoli a rileggere in questa luce tutto quello che egli aveva fatto e aveva detto quando era ancora con loro: "Sono queste le parole che vi dicevo quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi" (v. 44).
La Scrittura diventa così la chiave interpretativa per entrare nel mistero del Cristo. Non sono gli uomini che hanno comandato e determinato lo svolgersi degli ultimi fatti drammatici della vita del Signore, come erano stati tentati di credere gli stessi apostoli vedendo in ciò quasi un segno di fallimento della sua missione: "Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele", commentano addolorati e ormai sfiduciati i discepoli di Emmaus (Lc 24,21).
Al di sopra degli uomini e per mezzo degli uomini, invece, Dio ha realizzato il suo disegno di salvezza, creando in tal modo le condizioni nelle quali Cristo avrebbe espresso il massimo della sua capacità di "amare" e di "obbedire". Si ricordino qui solo due espressioni bibliche, che commentano quanto veniamo dicendo. La prima è ripresa dal Vangelo di Giovanni, all'inizio della storia della passione: "Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino al segno supremo" (Gv 13,1). Il "segno supremo" dell'amore è la sua morte di croce, che egli già "sa" da sempre perché l'ha letta nelle Scritture e nel misterioso scambio di "conoscenza" che c'è fra il Padre e il Figlio. La seconda è ripresa da Paolo, là dove egli dice che Cristo "umiliò" se stesso, facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce" (Fil 2,8): proprio perché Cristo "conosce" la volontà del Padre, il suo donarsi alla morte è un gesto di generosità e di "obbedienza". Egli vive e muore non per sé, ma "per gli altri"!
Nella prospettiva delle Scritture, lette e interpretate in chiave "cristologica", anche lo "scandalo" della croce diventa luminoso, direi quasi "ragionevole", di quella ragionevolezza però che coincide con la "sapienza di Dio nascosta nel mistero" (cf 1 Cor 2,7) e che scardina tutti i nostri normali modi di ragionare.
Proprio per questo anche noi abbiamo bisogno che Cristo stesso, come fece in quella occasione con i suoi apostoli, ci "apra la mente all'intelligenza delle Scritture" (v. 45); e allora tutto quello che si è verificato in lui ci apparirà nello splendore di un ricamo finissimo, intrecciato con pazienza ed amore infiniti dalla benevolenza del Padre che in Cristo ha amato ed abbracciato anche noi.
"Nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati"
Ed è questo il secondo elemento che ci fa comprendere meglio il senso della risurrezione: "Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni" (vv. 46-48).
Queste ultime parole del Cristo risorto contengono la "missione" che egli affida ai suoi apostoli e sono l'equivalente del mandato anche più noto che leggiamo in Matteo 28,19: "Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo". È interessante però in san Luca questo intimo collegamento fra la "missione" degli apostoli e il mistero pasquale: il che significa che è il mistero della morte e risurrezione del Signore che essi debbono annunciare e "testimoniare" per portare salvezza agli uomini.
La salvezza però, in concreto, passa per la "conversione" e il "perdono dei peccati", come dicono le parole del Signore.
Che significa tutto questo? È un invito a inserirci anche noi nella dinamica del mistero pasquale, che Dio ha realizzato nel Figlio, ma in lui ha voluto estendere a tutti gli uomini. La mia "conversione" (metànoia), ad esempio, davanti alla contemplazione del Cristo risorto può e deve significare un processo lento di rinascita spirituale, di liberazione mia e dei miei fratelli da quella situazione quasi di morte che ci paralizza davanti alla crisi di disorientamento religioso, morale e sociale che attanaglia oggi molti membri della Chiesa e della società civile. Non c'è proprio nulla da fare, o bisogna rassegnarsi fatalisticamente al peggio? Se siamo già "figli della risurrezione", come si dice nel Vangelo di Luca (20,36), dobbiamo essere i testimoni della "speranza" in un mondo che vogliamo costruire come mondo "migliore".
Non "secolarizzare" la risurrezione!
E se noi saremo i "testimoni" fiduciosi di una "risurrezione" che Dio solo può operare e che trasforma la totalità dell'uomo, "convertendolo" dal di dentro per inserirlo in pieno nel progetto della salvezza universale, riscatteremo lo stesso termine di "risurrezione" dal tentativo, che perfino alcuni cristiani stanno facendo, di una sua interpretazione riduttiva e "secolarizzata".
È quanto ammoniva accoratamente Paolo VI quando invitava a "sciogliere l'equivoco di una parola magica, che incanta e spesso illude chi ne fa uso ristretto ai limiti della fenomenologia temporale... quando per risurrezione s'intende l'impiego di metodi e di forze che non trascendono l'ordine temporale. Nessuno più di chi ama, per le ragioni superiori del Vangelo, gli uomini e la faticosa elaborazione della loro società per un vero progresso della loro convivenza e del loro giusto benessere può godere che di risurrezione si parli per favorire lo sforzo e per conseguire l'esito di una risurrezione, cioè di un miglioramento economico, culturale e sociale, a conforto e a rimedio d'ogni umana sofferenza: ma sarebbe illusione sperare di raggiungere la risurrezione effettiva e trascendente, a cui profondamente ed essenzialmente aspira la vita dell'uomo, se questa fosse privata della "speranza che non delude"; e non fosse edotta dell'inevitabile pericolo che dalla cieca avidità della esclusiva prosperità temporale possa derivare all'uomo una maggiore infelicità generata dalla stessa dilatazione della sua capacità di più desiderare e dalla sua possibilità di più godere".
"Egli è vittima per i nostri peccati"
In questa linea di "liberazione" totale, che parte però dal cuore dell'uomo, si muove anche la seconda lettura, in cui san Giovanni ci esorta a vincere il "peccato" che sempre riaffiora nella nostra vita, senza sfiduciarci: Cristo, "nostra Pasqua" (1 Cor 5,7), è sempre pronto a "risuscitarci" dal male!
"Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto. Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo" (1 Gv 2,1-2).
CIPRIANI SETTIMO
Le letture bibliche di questa terza Domenica di Pasqua, come del resto quelle delle Domeniche successive, vogliono aiutarci a penetrare sempre di più nel mistero pasquale.
E il "mistero" pasquale è tale non solo per la grandezza incommensurata di amore e di potenza
dimostrata da Cristo sia nel donarsi alla morte per noi sia nel risorgere, per virtù dello Spirito, dai morti, ma anche per altri risvolti sorprendenti di questa quasi incredibile storia.
Ad esempio, questo: com'è possibile che un crimine, religioso e politico nello stesso tempo, una sopraffazione violenta e spietata come di fatto è stata la morte di Cristo, abbia potuto diventare un gesto di salvezza? Ed accanto a questo se ne profila subito un altro: in che senso tutto questo può rientrare nel "disegno" di Dio?
Sono degli interrogativi che rendono più denso il "mistero" ed a cui hanno tentato di rispondere, più che con uno sforzo di ricerca teologica, con il desiderio di penetrare e di gustare più in profondità il "dono di Dio", già i primi annunciatori del Vangelo. Le letture bibliche della presente Domenica mi sembra che si muovano, almeno in parte, su questa linea.
"Dio ha glorificato il suo servo Gesù, che voi avete ucciso"
La prima lettura (At 3,13-15.17-19) ci riporta parte del discorso di Pietro, pronunciato in occasione della guarigione dello storpio davanti alla porta "bella" del tempio.
Per allontanare da sé e da Giovanni il fanatismo della folla, egli rivela loro che è la "potenza" del Cristo risorto che ha operato il prodigio, di cui essi sono stati spettatori. In tal modo Dio "ha glorificato il suo servo Gesù, che vi avete consegnato e rinnegato di fronte a Pilato, mentre egli aveva deciso di liberarlo... Ma Dio l'ha risuscitato dai morti e di questo noi siamo testimoni" (At 3,13-15).
Si noti la contrapposizione violenta che san Pietro fa tra i Giudei che lo stanno ascoltando ("voi avete rinnegato... e ucciso l'autore della vita") e Dio, che dà un esito completamente diverso all'assassinio da quelli così freddamente premeditato ("...ma Dio l'ha risuscitato dai morti").
Ci sono in gioco come due volontà che tendono ad elidersi a vicenda: una volontà di odio, quella dei Giudei, che tende alla distruzione; una volontà di amore, quella di Dio, che tende non solo alla riparazione del male, ma addirittura alla "glorificazione" dell'oppresso mediante la risurrezione e la manifestazione della sua potenza attraverso il miracolo adesso operato dagli apostoli. Il che significa che Dio, pur non annullando la cattiva volontà degli uomini, la fa servire per il suo superiore disegno di amore e di salvezza. È quanto Pietro proclama solennemente al termine della presente lettura: "Ora, fratelli, io so che voi avete agito per ignoranza, così come i vostri capi; Dio però ha adempiuto così ciò che aveva annunziato per bocca di tutti i profeti, che cioè il suo Cristo sarebbe morto" (vv. 17-18).
Tutto questo, come abbiamo sopra accennato, rende più "denso" il mistero pasquale, ma lo rende anche più luminoso ed affascinante: l'amore di Dio, invece che essere scoraggiato dalla malvagità umana, ne viene come stimolato e provocato a manifestazioni sempre più radiose!
"Perché siete turbati e perché sorgono dubbi nel vostro cuore?"
Il brano di Vangelo, che praticamente è la parte conclusiva dell'intero Vangelo di Luca (24,35-48), riprende alcune di queste idee situandole in una prospettiva anche più larga.
Se si pensa che il presente brano viene subito dopo il racconto dell'apparizione ai discepoli di Emmaus, come ricorda espressamente il versetto iniziale (v. 35), e che proprio a loro, che ritornano a Gerusalemme, gli undici annunziano: "Il Signore è veramente risorto ed è apparso a Simone" (v. 34), si rimane piuttosto sorpresi nel vederli in preda alla paura e al dubbio, proprio mentre Gesù appare a loro tutti insieme per la prima volta. "Stupiti e spaventati, credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse: "Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho". Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi" (24,37-40).
Come si spiega tutto questo? Inabilità narrativa di Luca che non avrebbe disposto nel debito ordine i fatti? O non piuttosto una precisa situazione "obiettiva", che dimostra come non era facile neppure per gli apostoli accettare sia il fatto, sia le modalità della risurrezione? Crediamo senz'altro che per uno scrittore così raffinato come Luca sia ammissibile solo la seconda ipotesi.
Nel raccontare le diverse "cristofanie" egli ha delle precise finalità teologiche da raggiungere, per proporle alla riflessione dei suoi lettori che provengono dal mondo ellenistico. Così, ad esempio, per dei cristiani che vivevano in ambiente greco, dove le diverse filosofie insegnavano che l'anima vive separata dal corpo, dopo la morte, era importante affermare che il Cristo risorto non era uno "spirito" immortale senza corpo: si noti che il termine che noi abbiamo tradotto per "fantasma" di fatto nel testo originale è pnèuma, cioè "spirito". Perciò san Luca vuol prima di tutto dire ai suoi lettori che Gesù è "veramente" risorto, perché adesso vive di nuovo con il "suo" corpo, quel "corpo" che era stato dato alla morte sulla croce: "Toccatemi e guardate: un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho" (v. 39).
Tanto è "vero" il suo corpo, che egli può addirittura mangiare del cibo come tutti noi! È l'ultima sfida che lancia ai suoi apostoli, ancora stupefatti e disorientati: ""Avete qui qualche cosa da mangiare?". Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro" (vv. 41-43).
Proprio per questo, anche nel libro degli Atti san Luca ritornerà sul tema degli apostoli che "hanno mangiato e bevuto con lui", dopo che il Cristo era risorto dai morti.
"Sono proprio io! Toccatemi e guardate"
D'altra parte, tutto questo dimostra non solo la "realtà" del suo "corpo", ma anche la "identità" del corpo risorto con quello che essi avevano veduto martoriato sulla croce: "Guardate le mie mani e i miei piedi. Sono proprio io! Toccatemi e guardate" (v. 39). Con queste parole Gesù intende certamente alludere alle sue mani e ai suoi piedi "perforati" dai chiodi, proprio come aveva chiesto Tommaso secondo il racconto del quarto Vangelo: "Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi..., non crederò" (Gv 20,25). Era questo il "segno" della sua "identità"! La "gloria" del Cristo risorto sta tutta nel gesto della sua donazione alla morte: la risurrezione è precisamente l'esaltazione della sua morte di croce, le cui "stigmate" doloranti permangono ancora nel suo corpo glorioso.
Perciò non è tanto e solo il problema della "identità" del Cristo prepasquale e di quello pasquale che l'evangelista intende affermare, insistendo su questi particolari, ma anche la "continuità" dell'unico e identico evento redentivo che, passando per la croce, si consuma nella risurrezione, come scrive meravigliosamente san Paolo: "Gesù Cristo è stato messo a morte per i nostri peccati ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione" (Rm 4,15). La risurrezione è come il frutto della sua morte!
Tutto questo, ovviamente, ha un significato vitale anche per noi, che per il battesimo veniamo trascinati nella medesima esperienza di morte e di vita del Cristo: "Se infatti siamo connaturati con lui per una morte simile alla sua, lo saremo pure per una somigliante risurrezione" (Rm 6,5).
"Bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me"
La scena evangelica però non si ferma qui. Ci sono ancora altri due elementi da prendere in considerazione e che ci aiutano a comprendere il senso ultimo della risurrezione del Cristo.
Il primo è che essa rappresenta come il punto di arrivo di tutto il disegno salvifico di Dio. È quanto Gesù afferma subito dopo, per aiutare i suoi apostoli a rileggere in questa luce tutto quello che egli aveva fatto e aveva detto quando era ancora con loro: "Sono queste le parole che vi dicevo quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi" (v. 44).
La Scrittura diventa così la chiave interpretativa per entrare nel mistero del Cristo. Non sono gli uomini che hanno comandato e determinato lo svolgersi degli ultimi fatti drammatici della vita del Signore, come erano stati tentati di credere gli stessi apostoli vedendo in ciò quasi un segno di fallimento della sua missione: "Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele", commentano addolorati e ormai sfiduciati i discepoli di Emmaus (Lc 24,21).
Al di sopra degli uomini e per mezzo degli uomini, invece, Dio ha realizzato il suo disegno di salvezza, creando in tal modo le condizioni nelle quali Cristo avrebbe espresso il massimo della sua capacità di "amare" e di "obbedire". Si ricordino qui solo due espressioni bibliche, che commentano quanto veniamo dicendo. La prima è ripresa dal Vangelo di Giovanni, all'inizio della storia della passione: "Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino al segno supremo" (Gv 13,1). Il "segno supremo" dell'amore è la sua morte di croce, che egli già "sa" da sempre perché l'ha letta nelle Scritture e nel misterioso scambio di "conoscenza" che c'è fra il Padre e il Figlio. La seconda è ripresa da Paolo, là dove egli dice che Cristo "umiliò" se stesso, facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce" (Fil 2,8): proprio perché Cristo "conosce" la volontà del Padre, il suo donarsi alla morte è un gesto di generosità e di "obbedienza". Egli vive e muore non per sé, ma "per gli altri"!
Nella prospettiva delle Scritture, lette e interpretate in chiave "cristologica", anche lo "scandalo" della croce diventa luminoso, direi quasi "ragionevole", di quella ragionevolezza però che coincide con la "sapienza di Dio nascosta nel mistero" (cf 1 Cor 2,7) e che scardina tutti i nostri normali modi di ragionare.
Proprio per questo anche noi abbiamo bisogno che Cristo stesso, come fece in quella occasione con i suoi apostoli, ci "apra la mente all'intelligenza delle Scritture" (v. 45); e allora tutto quello che si è verificato in lui ci apparirà nello splendore di un ricamo finissimo, intrecciato con pazienza ed amore infiniti dalla benevolenza del Padre che in Cristo ha amato ed abbracciato anche noi.
"Nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati"
Ed è questo il secondo elemento che ci fa comprendere meglio il senso della risurrezione: "Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni" (vv. 46-48).
Queste ultime parole del Cristo risorto contengono la "missione" che egli affida ai suoi apostoli e sono l'equivalente del mandato anche più noto che leggiamo in Matteo 28,19: "Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo". È interessante però in san Luca questo intimo collegamento fra la "missione" degli apostoli e il mistero pasquale: il che significa che è il mistero della morte e risurrezione del Signore che essi debbono annunciare e "testimoniare" per portare salvezza agli uomini.
La salvezza però, in concreto, passa per la "conversione" e il "perdono dei peccati", come dicono le parole del Signore.
Che significa tutto questo? È un invito a inserirci anche noi nella dinamica del mistero pasquale, che Dio ha realizzato nel Figlio, ma in lui ha voluto estendere a tutti gli uomini. La mia "conversione" (metànoia), ad esempio, davanti alla contemplazione del Cristo risorto può e deve significare un processo lento di rinascita spirituale, di liberazione mia e dei miei fratelli da quella situazione quasi di morte che ci paralizza davanti alla crisi di disorientamento religioso, morale e sociale che attanaglia oggi molti membri della Chiesa e della società civile. Non c'è proprio nulla da fare, o bisogna rassegnarsi fatalisticamente al peggio? Se siamo già "figli della risurrezione", come si dice nel Vangelo di Luca (20,36), dobbiamo essere i testimoni della "speranza" in un mondo che vogliamo costruire come mondo "migliore".
Non "secolarizzare" la risurrezione!
E se noi saremo i "testimoni" fiduciosi di una "risurrezione" che Dio solo può operare e che trasforma la totalità dell'uomo, "convertendolo" dal di dentro per inserirlo in pieno nel progetto della salvezza universale, riscatteremo lo stesso termine di "risurrezione" dal tentativo, che perfino alcuni cristiani stanno facendo, di una sua interpretazione riduttiva e "secolarizzata".
È quanto ammoniva accoratamente Paolo VI quando invitava a "sciogliere l'equivoco di una parola magica, che incanta e spesso illude chi ne fa uso ristretto ai limiti della fenomenologia temporale... quando per risurrezione s'intende l'impiego di metodi e di forze che non trascendono l'ordine temporale. Nessuno più di chi ama, per le ragioni superiori del Vangelo, gli uomini e la faticosa elaborazione della loro società per un vero progresso della loro convivenza e del loro giusto benessere può godere che di risurrezione si parli per favorire lo sforzo e per conseguire l'esito di una risurrezione, cioè di un miglioramento economico, culturale e sociale, a conforto e a rimedio d'ogni umana sofferenza: ma sarebbe illusione sperare di raggiungere la risurrezione effettiva e trascendente, a cui profondamente ed essenzialmente aspira la vita dell'uomo, se questa fosse privata della "speranza che non delude"; e non fosse edotta dell'inevitabile pericolo che dalla cieca avidità della esclusiva prosperità temporale possa derivare all'uomo una maggiore infelicità generata dalla stessa dilatazione della sua capacità di più desiderare e dalla sua possibilità di più godere".
"Egli è vittima per i nostri peccati"
In questa linea di "liberazione" totale, che parte però dal cuore dell'uomo, si muove anche la seconda lettura, in cui san Giovanni ci esorta a vincere il "peccato" che sempre riaffiora nella nostra vita, senza sfiduciarci: Cristo, "nostra Pasqua" (1 Cor 5,7), è sempre pronto a "risuscitarci" dal male!
"Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto. Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo" (1 Gv 2,1-2).
CIPRIANI SETTIMO
Commenti
Posta un commento