CIPRIANI SETTIMO SDB"Io sono il buon Pastore"4a Domenica di Pasqua

26 aprile 2015 | 4a Domenica di Pasqua - Anno B | Appunti per la Lectio
"Io sono il buon Pastore"
"Il Dio della pace, che ha fatto tornare dai morti il pastore grande delle pecore, in virtù del sangue di un'alleanza eterna, il Signore nostro Gesù, vi renda perfetti in ogni bene...": è l'augurio finale con cui si conclude la lettera agli Ebrei (13,20). L'autore della lettera collega, dunque, la funzione
"pastorale" di Cristo con il suo donarsi alla morte per le pecore e con la sua risurrezione: in tal modo egli ha fatto "un'alleanza eterna" con noi ed è pronto ad aiutarci sempre perché nessuna delle sue "pecore" vada perduta.

Questa dimensione accentuatamente "pasquale" di Gesù "buon pastore" è messa in evidenza dal brano di Vangelo di Giovanni che ci è proposto per la presente Domenica (Gv 10,11-18): essa differisce non poco dalla immagine di Gesù "buon pastore" quale emerge dalla parabola della pecorella smarrita che ci viene riferita dai Sinottici, dove si vuol sottolineare più la premura del pastore per il suo gregge che non la capacità stessa di costituirsi, come di "crearsi", un gregge che nasca esclusivamente "per la virtù del suo sangue". Mentre nei Sinottici l'immagine è agreste e bucolica, in Giovanni è altamente drammatica e rappresenta, almeno nella sua parte più alta, l'equivalente della figura del "servo sofferente di Jahvè", descrittoci da Isaia.

"Il buon pastore offre la vita per le pecore"
Il brano odierno è la parte conclusiva di un lungo discorso su Gesù buon pastore (10,1-21), che forse rappresenta la confluenza di ben tre brevi parabole iniziali che mettono a confronto due personaggi in contrasto fra di loro: il pastore e il ladro (10,1-3a), il pastore e l'estraneo (10,3b-5), il pastore e il mercenario (10,11-13). L'evangelista le ha bloccate insieme per l'affinità del tema, completando il quadro con altre riflessioni che attingono sia al ricordo della viva predicazione di Gesù, sia al suo sforzo di penetrazione teologica e spirituale del messaggio salvifico. E così è venuto fuori questo brano così denso e commovente, che soprattutto verso la fine raggiunge il suo vertice.
Mi sembra che nel brano che abbiamo davanti siano messe in luce quattro idee fondamentali.
La prima è la "rivelazione" di se stesso, da parte di Cristo, come "buon" pastore: pur essendo presente l'idea anche nei versetti precedenti (10,1-10), qui viene formulata in maniera esplicita: "Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore..." (vv. 11-12). Il "mercenario" serve solo da controfigura del pastore "vero", per metterne in evidenza il tratto fondamentale: l'amore totalmente disinteressato, che lo porta a dare la propria "vita per le pecore", sempre insidiate dal lupo.
La formula "Io sono" è una formula tipica di san Giovanni, con la quale egli intende identificare Gesù con la realtà espressa dal predicato che segue: "Io sono la via, la verità, la vita" (Gv 14,6); "Io sono la vite vera" (13,1); "Io sono il pane vivo disceso dal cielo" (6,31), ecc. E non solo identificare, ma anche esprimere la "funzione" tipica di Cristo. Cosicché la formula non è solo "rivelazione" della persona, ma anche della sua attività: Gesù è il buon pastore, perché costantemente svolge questa missione di donazione e di salvezza per il suo gregge. Il presente ("io sono") esprime una funzione "permanente"; anche oggi Cristo è per ognuno di noi il pastore che salva!

"Conosco le mie pecore"
La seconda idea è quella della reciproca "conoscenza" fra pastore e gregge: "Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e offro la vita per le pecore" (vv. 14-15).
La "conoscenza", di cui qui si parla, non è una conoscenza puramente intellettuale, ma di amore e di esperienza, secondo l'accezione biblica del termine, come lo dimostrano qui due cose: il termine di paragone di questa conoscenza ("come il Padre conosce me ed io conosco il Padre") e la ripetizione dell'espressione che già abbiamo incontrata al v. 11 ("e offro la vita per le pecore"). Proprio dalla "esperienza" che gli uomini hanno fatto dell'amore di Cristo sulla croce, essi hanno "conosciuto" che egli è il "buon pastore" e non un qualsiasi mercenario a cui "non importa delle pecore" (v. 13).
Il che significa che il pastore ha "prevenuto" il gregge! "Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi", dirà altrove Gesù ai suoi apostoli (Gv 15,15). E prevenendolo, gli ha dato la possibilità di rispondere a questa "scelta", quasi volesse dire: solo se "le mie pecore conoscono me" e nella misura in cui mi conoscono, esse sono mio gregge. Perciò abbiamo detto all'inizio che, nella prospettiva giovannea, è Cristo stesso a "crearsi" il suo gregge "in virtù del suo sangue" sparso per noi.

"E ho altre pecore che non sono di questo ovile"
E siccome il suo "sangue" è stato sparso per tutti, è chiaro che il suo gregge ormai sarà costituito potenzialmente da tutti gli uomini e non più dal solo Israele. È la terza idea suggerita dal seguito del brano: "E ho altre pecore che non sono di quest'ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore" (v. 16).
Anche il profeta Ezechiele aveva preannunciato, con il simbolismo dei due legni sovrapposti, la formazione di un "unico" gregge, finalmente guidato da un "unico" pastore: "Il mio servo Davide sarà su di loro e non vi sarà che un unico pastore per tutti" (Ez 37,24). Però il profeta pensava soltanto alla unificazione dei due regni rivali, di Giuda e di Israele. La previsione e la predizione di Cristo invece abbracciano tutti gli uomini, al di là di ogni confine di razza e di religione: tutti coloro che saranno capaci di "riconoscere" nella morte di Cristo un gesto di amore e di salvezza e di "ascoltare" la voce del suo Vangelo, diventeranno suo "gregge" ed entreranno nell'ambito della salvezza.

"Per questo il Padre mi ama..."
La quarta idea viene espressa dagli ultimi versetti ed è un po' la sintesi, e la spiegazione nello stesso tempo, di tutto quanto Gesù ha detto fino a questo momento: egli è pastore "vero" perché offre liberamente la sua "vita" per gli altri. "Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo comando ho ricevuto dal Padre mio" (vv. 17-18). Qui appare nella sua luce più abbagliante la sovrana "gratuità" dell'amore di Cristo. Nessuno ha il potere di "togliergli" la vita: né Pilato (cf 19,11), né i Giudei, né gli uomini tutti! Lui soltanto la può "offrire" come un "dono" agli uomini e al Padre.
La grandiosità di questa offerta, però, sta nel fatto che egli ha il "potere" di "riprendere di nuovo" la sua vita: qui è evidente il riferimento alla risurrezione, che viene presentata, essa pure, come gesto sovrano di amore e di potenza. Perché questo? Il solo offrirsi alla morte, rimanendo nella morte, non avrebbe permesso a Cristo di operare la salvezza degli uomini: il suo gesto di amore sarebbe rimasto solo come un grande esempio, pietrificato nella storia! La risurrezione, invece, ci restituisce il Cristo come "pastore" eterno il quale, appunto perché "ritornato" alla vita, può continuare a "salvare per sempre" (cf Eb 7,25) quelli che credono nel suo nome.

Perciò il suo amore per noi è stato doppio: l'amore espresso nella sua morte e quello espresso nella sua risurrezione.
Davanti a tale spettacolo di generosità, non soltanto noi, sparuto e pavido "gregge" di Cristo, ma Dio stesso è come preso da meraviglia e da un amore più intenso: "Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita" (v. 17).
San Giovanni ripetutamente afferma questo rapporto di amore fra il Padre e il Figlio: "Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa" (3,35; cf 8,29, ecc.). La generosità senza limiti del Cristo fa "crescere" l'amore stesso del Padre verso di lui: del resto, la risurrezione è la prova di questo immenso abbraccio d'amore del Padre che "riassume" nella sua gloria il Figlio, momentaneamente strappatogli dalla morte.
E se anche l'ultima frase ("Questo comando ho ricevuto dal Padre mio"; v. 18) sembrerebbe far difficoltà a quanto veniamo dicendo, in realtà è solo una difficoltà apparente: non c'è contraddizione fra amore e obbedienza, quando l'obbedienza è fatta per amore. Il "comando" del Padre esalta, se mai, la capacità di amore del Figlio, perché in tal modo egli si rende completamente disponibile a Dio e agli uomini. Anzi, c'è di più: l'amore stesso di Cristo verso di noi è potenziato, perché porta con sé l'attestazione che in lui anche il Padre ci "ama".

"In nessun altro c'è salvezza"
In chiave e con immagini diverse, questo tema del Cristo che ci "salva", perché è morto e risorto per noi, è presente anche nella prima lettura, che ci riporta il discorso di Pietro davanti al sinedrio dopo che era stato arrestato, insieme a Giovanni, a motivo della guarigione dello storpio (At 4,8-12).
In questo discorso è interessante il passaggio che san Pietro fa dalla guarigione e "salvezza" materiale alla "salvezza" spirituale apportata da Cristo: "Visto che oggi veniamo interrogati sul beneficio recato ad un uomo infermo e in qual modo egli abbia ottenuto la salute, la cosa sia nota a tutti voi e a tutto il popolo d'Israele: nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta innanzi sano e salvo... In nessun altro c'è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati" (vv. 8-10.12).
Cristo morto e risorto, dunque, è l'unico che possa "salvare" gli uomini di questa salvezza "totale", che parte dal corpo con le sue infermità, la sua fragilità, la sua corsa verso la disgregazione e la morte, fino allo "spirito" che è anche più profondamente malato perché ripiegato su se stesso, incapace di aprirsi all'amore di Dio e dei fratelli, paralizzato nei suoi slanci verso il bene che pur vede e si sente come impotente ad attuare. La risurrezione è la causa esemplare ed efficiente, nello stesso tempo, della salvezza "totale": essa infatti restaura il corpo straziato di Cristo, facendolo diventare "Spirito vivificante" (1 Cor 15,46), che trascina in questo processo di "rinnovazione" radicale l'universo intero.
Ogni salvezza parziale, anche solo fisica e materiale, come è avvenuto nel caso dello storpio, è "segno" ed anticipazione della salvezza "totale", che il Cristo pastore si è impegnato a donare al suo gregge.

"Fin d'ora siamo figli di Dio"
Ed è proprio questa situazione di "salvezza" totale che è espressa meravigliosamente dal nostro stato di "figli di Dio", fin dal presente della storia, su cui si ferma, preso da stupore, Giovanni nella seconda lettura: "Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre, per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!" (1 Gv 3,1).
E dire che questo è solo l'inizio di quello che saremo! "Fin d'ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che, quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è" (v. 2). Quella, sì, che sarà la Pasqua definitiva!

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