fr. Massimo Rossi Commento su Giovanni 20,19-31 ""Pace a voi!""
II Domenica di Pasqua (Anno B) (12/04/2015)
Vangelo: Gv 20,19-31
"Pace a voi!"
Dunque, il Signore risorto si fa riconoscere attraverso le sue ferite...
Vi confesso che non ci avevo mai pensato granché: il Figlio di Dio avrebbe potuto manifestarsi in tutta la sua gloria, come sul monte Tabor, in occasione della trasfigurazione;
ora era finalmente il Cristo, non gli mancava più nulla; il Padre lo aveva glorificato richiamandolo in vita. I gesti che prima potevano apparire straordinari - camminare sulle acque, entrare in una casa a porte chiuse - ora, erano del tutto normali, ora che il Cristo possedeva il corpo glorioso...
E invece no! Gesù preferisce mostrare le mani, i piedi e il costato, con i segni dei chiodi, i segni della sua sofferenza fisica e spirituale.
Seduto al computer - meglio dire, incatenato - a scrivere questa omelia, ho riflettuto sul modo in cui noi ci facciamo abitualmente riconoscere al mondo: avremmo il coraggio di mostrare le nostre fragilità, le ferite, gli aspetti che meno hanno a che vedere con le (nostre) facoltà superiori, l'intelletto e lo spirito...
A giorni, potremo nuovamente vedere la Sindone, forse per l'ultima volta. Le ferite del Crocifisso rappresentano il suo fallimento sul piano umano, la vittoria del male sul bene, il trionfo della violenza sulla mitezza, del compromesso politico sulla rettitudine morale, del tradimento sulla fedeltà, della crudeltà gratuita sull'umiltà disarmata, (il trionfo) della menzogna sulla verità... Saremmo disposti a mettere in piazza i nostri fallimenti, come ciò che misteriosamente rende ragione della nostra dignità? Il fallimento ha sempre qualcosa di vergognoso e di inconfessabile... Il fallimento rappresenta la parte peggiore di noi... Come trasformare, invece, i fallimenti, nell'icona della nostra esistenza, ciò per cui potremo addirittura essere ricordati come dei campioni, vincenti, e non come, appunto, dei falliti? Pensateci... con calma.
Torniamo a Gesù, in piedi nel cenacolo, davanti agli apostoli spaventati, forse più del suo arrivo a sorpresa, che dalla paura dei giudei: l'apostolo Pietro, nella sua prima lettera, scrive che Cristo fu messo a morte nella carne, ma fu reso vivo nello spirito (3,18). Ed è proprio il suo Spirito, quel dono speciale che Gesù trasmette agli Undici, alitando su di loro, e mandandoli in tutto il mondo, quali ambasciatori di riconciliazione.
Non vorrei passare per noioso, uno che, gira che ti rigira, arriva sempre lì...
Però, amici miei, il Vangelo arriva sempre e soltanto lì: alla riconciliazione e al perdono.
Ne parlavo domenica scorsa e ne devo riparlare oggi: l'evangelista Giovanni, l'apostolo che Gesù amava, colloca l'istituzione del sacramento della confessione proprio qui, alla prima apparizione in assoluto del Risorto al gruppo degli apostoli. Segno che la risurrezione di Gesù è finalizzata direttamente ed esclusivamente al perdono!
E qui la preghiera per i confessori è d'obbligo! Se credete nell'efficacia dei sacramenti, di tutti i sacramenti, confessione compresa, dovete chiedere per noi il dono dello Spirito Santo, affinché, come ministri di riconciliazione, sappiamo discernere le modalità e le occasioni in cui si possono e si devono assolvere i fedeli, che siete voi.
La Grazia si dona, sì, ma non si svende... La grazia del perdono, che ci salva da noi stessi - i nostri peggiori nemici siamo proprio noi! - ci è stata acquistata a caro prezzo; non può essere gettata come le perle ai porci; cito il Vangelo di Matteo (7,6), il quale inserisce questa massima severa del Signore, dopo aver parlato proprio del giudizio. Sarà un caso? Non credo proprio...
Sappiamo che la questione del giudizio rappresenta un aspetto estremamente delicato ed importante nell'intera economia del Vangelo. Ebbene, il Figlio di Dio riconosce al giudizio il suo pieno valore, quale giudizio che assolve, e, assolvendo, salva: "Io non son venuto a giudicare, ma a salvare il mondo", dice il Signore, dopo l'unzione ricevuta a Betania, con la quale inizia virtualmente la sua Passione (Gv 12,47).
Ci sarebbe un ultimo aspetto (del Vangelo) da ricordare: in realtà non avremmo bisogno di ricordarlo, visto che è diventato un proverbio: incredulo come Tommaso, che non ci crede finché non ci mette il naso.
Credere pur senza aver né visto, né toccato è la condizione per avere la vita nel nome di Cristo: la vita eterna, voglio dire! cioè, lo dice il Vangelo. Otto giorni fa sottolineavo che la situazione del cristiano di oggi non è molto diversa da quella dei primi apostoli.
A pensarci bene, però, tra noi e loro una differenza c'è: gli apostoli avevano il Cristo in carne ed ossa; noi abbiamo i Vangeli e i sacramenti..
Piuttosto, la nostra condizione è analoga a quella dei martiri del primo secolo.
E così il cerchio si chiude: i segni del martirio esprimono e manifestano la forza della fede, la dignità del credente, incomparabilmente superiore di quella umana-solo-mana.
La testimonianza del martire è qualcosa di più della semplice professione della fede. Tra l'una e l'altra c'è la stessa differenza che intercorre tra i fatti e le parole... A parlare siamo tutti capaci.
Il martire è colui al quale viene richiesta la "testimonianza del sangue", testimonianza che non tutti i componenti di una comunità, neppure quella cristiana, sono in grado di offrire, come ribadisce il compianto arcivescovo di Torino Cardinal Michele Pellegrino: "Converrà notare che quanto diciamo dell'atteggiamento dei martiri non si potrebbe senz'altro trasferire alle disposizioni di tutta la comunità cristiana. I martiri rappresentano nella Chiesa una sorta di aristocrazia della virtù, né si può pensare che tutti i cristiani si elevino alla loro altezza.".
Questa sottolineatura dell'insigne porporato, non ci deve scoraggiare, tanto meno esonerare dal dovere di crescere nella fede, acquistando via via coraggio e determinazione.
Abbiamo anche noi ricevuto lo Spirito Santo: non opponiamo resistenza, lasciamolo lavorare in noi. E saremo anche noi beati per aver creduto pur senza avere visto...
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Vangelo: Gv 20,19-31
"Pace a voi!"
Dunque, il Signore risorto si fa riconoscere attraverso le sue ferite...
Vi confesso che non ci avevo mai pensato granché: il Figlio di Dio avrebbe potuto manifestarsi in tutta la sua gloria, come sul monte Tabor, in occasione della trasfigurazione;
ora era finalmente il Cristo, non gli mancava più nulla; il Padre lo aveva glorificato richiamandolo in vita. I gesti che prima potevano apparire straordinari - camminare sulle acque, entrare in una casa a porte chiuse - ora, erano del tutto normali, ora che il Cristo possedeva il corpo glorioso...
E invece no! Gesù preferisce mostrare le mani, i piedi e il costato, con i segni dei chiodi, i segni della sua sofferenza fisica e spirituale.
Seduto al computer - meglio dire, incatenato - a scrivere questa omelia, ho riflettuto sul modo in cui noi ci facciamo abitualmente riconoscere al mondo: avremmo il coraggio di mostrare le nostre fragilità, le ferite, gli aspetti che meno hanno a che vedere con le (nostre) facoltà superiori, l'intelletto e lo spirito...
A giorni, potremo nuovamente vedere la Sindone, forse per l'ultima volta. Le ferite del Crocifisso rappresentano il suo fallimento sul piano umano, la vittoria del male sul bene, il trionfo della violenza sulla mitezza, del compromesso politico sulla rettitudine morale, del tradimento sulla fedeltà, della crudeltà gratuita sull'umiltà disarmata, (il trionfo) della menzogna sulla verità... Saremmo disposti a mettere in piazza i nostri fallimenti, come ciò che misteriosamente rende ragione della nostra dignità? Il fallimento ha sempre qualcosa di vergognoso e di inconfessabile... Il fallimento rappresenta la parte peggiore di noi... Come trasformare, invece, i fallimenti, nell'icona della nostra esistenza, ciò per cui potremo addirittura essere ricordati come dei campioni, vincenti, e non come, appunto, dei falliti? Pensateci... con calma.
Torniamo a Gesù, in piedi nel cenacolo, davanti agli apostoli spaventati, forse più del suo arrivo a sorpresa, che dalla paura dei giudei: l'apostolo Pietro, nella sua prima lettera, scrive che Cristo fu messo a morte nella carne, ma fu reso vivo nello spirito (3,18). Ed è proprio il suo Spirito, quel dono speciale che Gesù trasmette agli Undici, alitando su di loro, e mandandoli in tutto il mondo, quali ambasciatori di riconciliazione.
Non vorrei passare per noioso, uno che, gira che ti rigira, arriva sempre lì...
Però, amici miei, il Vangelo arriva sempre e soltanto lì: alla riconciliazione e al perdono.
Ne parlavo domenica scorsa e ne devo riparlare oggi: l'evangelista Giovanni, l'apostolo che Gesù amava, colloca l'istituzione del sacramento della confessione proprio qui, alla prima apparizione in assoluto del Risorto al gruppo degli apostoli. Segno che la risurrezione di Gesù è finalizzata direttamente ed esclusivamente al perdono!
E qui la preghiera per i confessori è d'obbligo! Se credete nell'efficacia dei sacramenti, di tutti i sacramenti, confessione compresa, dovete chiedere per noi il dono dello Spirito Santo, affinché, come ministri di riconciliazione, sappiamo discernere le modalità e le occasioni in cui si possono e si devono assolvere i fedeli, che siete voi.
La Grazia si dona, sì, ma non si svende... La grazia del perdono, che ci salva da noi stessi - i nostri peggiori nemici siamo proprio noi! - ci è stata acquistata a caro prezzo; non può essere gettata come le perle ai porci; cito il Vangelo di Matteo (7,6), il quale inserisce questa massima severa del Signore, dopo aver parlato proprio del giudizio. Sarà un caso? Non credo proprio...
Sappiamo che la questione del giudizio rappresenta un aspetto estremamente delicato ed importante nell'intera economia del Vangelo. Ebbene, il Figlio di Dio riconosce al giudizio il suo pieno valore, quale giudizio che assolve, e, assolvendo, salva: "Io non son venuto a giudicare, ma a salvare il mondo", dice il Signore, dopo l'unzione ricevuta a Betania, con la quale inizia virtualmente la sua Passione (Gv 12,47).
Ci sarebbe un ultimo aspetto (del Vangelo) da ricordare: in realtà non avremmo bisogno di ricordarlo, visto che è diventato un proverbio: incredulo come Tommaso, che non ci crede finché non ci mette il naso.
Credere pur senza aver né visto, né toccato è la condizione per avere la vita nel nome di Cristo: la vita eterna, voglio dire! cioè, lo dice il Vangelo. Otto giorni fa sottolineavo che la situazione del cristiano di oggi non è molto diversa da quella dei primi apostoli.
A pensarci bene, però, tra noi e loro una differenza c'è: gli apostoli avevano il Cristo in carne ed ossa; noi abbiamo i Vangeli e i sacramenti..
Piuttosto, la nostra condizione è analoga a quella dei martiri del primo secolo.
E così il cerchio si chiude: i segni del martirio esprimono e manifestano la forza della fede, la dignità del credente, incomparabilmente superiore di quella umana-solo-mana.
La testimonianza del martire è qualcosa di più della semplice professione della fede. Tra l'una e l'altra c'è la stessa differenza che intercorre tra i fatti e le parole... A parlare siamo tutti capaci.
Il martire è colui al quale viene richiesta la "testimonianza del sangue", testimonianza che non tutti i componenti di una comunità, neppure quella cristiana, sono in grado di offrire, come ribadisce il compianto arcivescovo di Torino Cardinal Michele Pellegrino: "Converrà notare che quanto diciamo dell'atteggiamento dei martiri non si potrebbe senz'altro trasferire alle disposizioni di tutta la comunità cristiana. I martiri rappresentano nella Chiesa una sorta di aristocrazia della virtù, né si può pensare che tutti i cristiani si elevino alla loro altezza.".
Questa sottolineatura dell'insigne porporato, non ci deve scoraggiare, tanto meno esonerare dal dovere di crescere nella fede, acquistando via via coraggio e determinazione.
Abbiamo anche noi ricevuto lo Spirito Santo: non opponiamo resistenza, lasciamolo lavorare in noi. E saremo anche noi beati per aver creduto pur senza avere visto...
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