JUAN J. BARTOLOME sdb Lectio Divina Gv 10,11-18 4a Domenica di Pasqua

26 aprile 2015 | 4a Domenica di Pasqua - T. di Pasqua B | Lectio Divina
LECTIO DIVINA: Gv 10,11-18
Chissà se il vangelo di oggi non riesca a suscitare in noi gli stessi sentimenti che suscitò nei suoi primi uditori: ascoltare Gesù che presentava sé stesso come il buon Pastore dovette sorprenderli, attirarli perfino; cosa che difficilmente succede oggi con noi. Per un popolo i cui antenati più gloriosi avevano esercitato il mestiere di pastori, e che il mestiere di pastore era una realtà quotidiana,
l'identificazione di Gesù come il pastore buono per antonomasia doveva risultar loro tanto esagerata come entusiasmante: il pastore di Israele era unicamente Dio e, semmai, i suoi legittimi rappresentanti, i re del passato o il messia che doveva ancora venire. Senza identificarsi con quei pastori del passato, Gesù volle essere per il suo popolo un pastore buono: che cosa pretendeva di dir loro con ciò? che cosa avrebbe suggerito loro Gesù? Per farsi più comprensibile, Gesù paragona il suo comportamento con quelli che non sono pastori, per quanto cerchino di sembrarlo. La loro relazione col gregge denuncia la loro malvagità
In quel tempo, disse Gesù:
11"Io sono il buon Pastore. Il buon pastore dà la vita per le pecore; 12il salariato che non è pastore né padrone delle pecore, vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge; il lupo fa strage e li disperde; 13 al salariato non gli importano le pecore.
14Io sono il buon Pastore conosco le mie pecore, e le mie pecore conoscono me, 15come il Padre mi conosce, ed io conosco il Padre; io do la mia vita per le pecore.
16Ho altre pecore che non sono di questo ovile; anche quelle devo pascere, ascolteranno la mia voce, e ci sarà un solo gregge ed un solo Pastore.
17Per questo il Padre mi ama, perché io consegno la mia vita per poterla ricuperare. 19Nessuno me la prende, sono io che la consegno liberamente. Perché ho potere di consegnarla e di riprenderla: questo mandato ho ricevuto dal Padre mio."

1. LEGGERE: Capire quello che dice il testo e come lo dice

Giovanni 10 è concepito come un dibattito in due parti tra Gesù e gli ebrei. Nella seconda, ambientata nel tempio (Gv 10,22-39), il conflitto si intensificherà, perché Gesù si identifica con Dio. Il nostro testo che appartiene alla prima parte (Gv 10,1-21), ha qualche relazione con la guarigione del cieco (Gv 10,21). Una doppia allusione alla reazione degli uditori (Gv 10,6.19-21) segnala due sezioni, introdotte da una identica formulazione (Gv 10,1.7) che sono, in realtà, un unico discorso di Gesù, basato su esempi presi dal mondo dei pastori, una realtà alla quale gli uditori di Gesù erano ben abituati. Ogni pastore, proprietario o salariato, aveva il proprio bestiame col quale conviveva durante il giorno; prima di imbrunire i diversi greggi erano condotti ad un unico ovile la cui porta era custodita da un guardiano. Chi pensava di rubare le pecore doveva entrare nell'ovile facendo un buco nel muro o saltandolo. La mattina, bastava che ogni pecora sentisse la voce del suo padrone affinché uscisse dall'ovile e si lasciasse guidare dal suo pastore.
Gesù è il pastore vero, perché dà la vita (Gv 10,11.14): rischiare la propria vita per gli altri, essere disposto a pagare con la propria esistenza la salvezza del gregge, lo fa buon pastore. La bellezza/bontà del pastore deve corrispondere con la sua autenticità che si concretizza nell'essere disposto a essere/fare il proprio dovere. L'espressione esporre la vita per qualcuno, rara in greco, è giovannea (Gv 10,11.15.17-18; 13,37-38; 15,13; 1 Gv 3,16). Il pastore assicura la vita alle sue pecore, perché si espone per esse; tale è la sua 'bellezza.' Rischiando la propria vita, si legittima come autentico pastore, al contrario del salariato che lavora per interesse proprio (Gv 10,12-13). Il proprietario ha dominio sulle vite di coloro che gli appartengono perché è disposto a morire per essi (Gv10,12-13.15.18). L'immagine avrà successo nella comunità primitiva (Atti 20,26-29; 1Pt 2,25; 5,1-2): i leader cristiani, come Cristo Pastore, si legittimano come tali perché rischiano la propria vita affinché quelle degli altri si salvi.
Alla consegna della vita si aggiunge la conoscenza mutua tra il pastore buono e il gregge come criterio che identifica il vero pastore. Sparisce il tono polemico: Gesù smette di essere in contrasto coi cattivi pastori e si intrattiene nella relazione che ha col gregge (Gv 10,14-16) e con il Padre suo (Gv 10,16-18), una relazione che è definita come mutua conoscenza. Quella conoscenza che lo converte in vero Pastore, non è capacità intellettuale o attitudine psicologica; nasce dalla comprensione e dalla fiducia che sorge naturale nella convivenza vitale e nella solidarietà permanente.
Questo conoscersi mutuamente tra Pastore e gregge (Gv 10,14) non è altro che riflesso della conoscenza reciproca di Dio ed il suo Rivelatore (Gv 10,15): la consegna della propria vita per gli altri sorge dalla conoscenza bilaterale che regna tra Gesù ed il Padre. Anche qui Gesù modella il suo secondo quello del Padre (Gv 8,28). La salvezza nasce dalla intimità divina. L'amore vero la consegna di sé per chi si ama (Gv 15) non può nascere che nell'intimità di Dio che consegnò il suo Figlio per amore perché amava salvare (Gv 3,16-18). Conoscere il Padre alimenta la consegna del Figlio.
Il pascolo che esercita Gesù non conosce limite, né di spazio né di tempo: è universale ed è futuro (Gv 10,16). Le pecore appartenenti all'ovile di Gesù non sono unicamente quelle alle quali egli si dirige, bensì tutte quelle che gli sono state affidate, e quante lo ascoltano e lo riconoscano (Gv 8,47; 18,37) e che rimangano unite sotto la sua leadership. Ed è rivelatore che questa missione per essere universale vada legata alla sua volontà di consegna che ha dall'amore paterno (Gv 10,17). L'amore del Padre ha la sua causa in quella consegna volontaria. La morte di Gesù va vista così non come ingiustizia, catastrofe o scandalo, bensì come atto sovrano di libertà: nella consegna della vita, nel suo sacrificio personale, si evidenzia l'amore del Padre.
Il consegnarsi alla morte non è per Gesù ineludibile necessità; non salva senza volerlo, senza che lo vogliamo. Egli ha quella potestà. La salvezza del gregge ha, dunque, due protagonisti: l'amore del Padre per il mondo che si realizza nella consegna del Figlio (Gv 3,16) e l'amore del Figlio per il Padre realizzato nella sua consacrazione al gregge (Gv 10,17). Il Figlio assume la volontà del Padre in libera obbedienza; per la sua obbedienza dispone della capacità di recuperare la vita. Gesù Pastore è, dunque, padrone di dare la sua vita e di recuperarla (Is 53,10-12): quella è la sua missione (Gv 10,18). Realizzandola lo fa con l'amore del Padre. Morte è dare la vita - e risurrezione è recuperarla - non sono più che un'unica, ed indissolubile, attuazione salvifica (cfr. Gv 12,24).
Il potere di Gesù, la sua volontà di dare la vita e la sua capacità di recuperarla, risponde al volere del Padre. Il suo pascolo è frutto, dunque, di due protagonisti: Dio che ama, e suo Figlio amato; entrambi gli amori si realizzano nella consegna della vita che ha come protagonista Gesù, che si da, ed il Padre, che lo consegna. Chi si sa salvato da Gesù si riconosce, dunque, doppiamente amato. L'invio del Figlio, da parte del Padre, e l'obbedienza al Padre, da parte del Figlio, danno vita agli uomini (cfr. Gv 12,49-50; 14,31). Morte e risurrezione di Gesù si presentano come 'ordinate' da Dio e sono lette qui con l'amore come categoria: l'amore che si verifica nella consegna della vita e nel riprenderla di nuovo non è amore umano, è amore, divino. Ed il suo frutto è la salvezza dell'uomo. Poche volte il NT ha espresso il mistero pasquale in questa forma tanto innovativa come profonda. La conseguenza è ovvia, benché non sia qui indicata: Chi vive a partire da questa consegna deve vivere dedito agli altri (Gv 15,13; 1 Gv 3,16)

2. MEDITARE: APPLICARE QUELLO CHE DICE IL TESTO ALLA VITA

Rispondendo ad un'obiezione dei farisei, Gesù prende come motivo del suo discorso un'immagine familiare ai suoi uditori, quella del pastore. E, quello che non è tanto evidente, identifica sé stesso come pastore buono. La conoscenza del gregge è la ragione della sua bontà. Questa conoscenza non è speculativa, bensì esperienziale, frutto della sua donazione per gli altri e della sua intimità col Padre: chi dà la vita si autentica come signore del gregge; chi conosce Dio, conosce le sue pecore, quelle che ha già riunite e quelle che gli appartengono. La consegna libera della vita e la conoscenza che si stabilisce con la convivenza sono i tratti che caratterizzano la bontà di Gesù Pastore. Una vita cristiana che non sappia godere della vicinanza di Gesù o che ignori le sue attenzioni, non è autentica; poiché non dipende dal gregge la guida e la compagnia del suo pastore. Perché lo si ha come tale, si potrà godere delle sue attenzioni. Di conseguenza, più che lamentarsi di essere trascurati dovremmo domandarci se apparteniamo, effettivamente ed affettivamente, al gruppo del Cristo Pastore Buono. L'immagine del pastore aveva per gli uditori di Gesù una grande forza evocativa. Noi, chissà, dobbiamo fare un sforzo per capirla: chi conta di avere un pastore sa di poter contare contemporaneamente su una guida per la strada da percorrere, di un compagno, un padrone che vive servendolo, un guardiano che lo aiuta a trovare cibo e riposo. Pascolare implica autorità indiscussa e consegna abnegata, riconoscente e servizio permanente. Presentandosi come pastore Gesù pretendeva di proporsi come signore e come servo, come guida e come compagno; si dichiarava disposto a relazionarsi con chi lo volesse come pastore, come fa un pastore buono: convivendo con chi pascola, condividendo con essi la stanchezza ed il riposo, l'alimento e la necessità, il sole ed il cattivo tempo, il giorno e le notti.
Più ancora, Gesù arriva a dichiararsi disposto a perdere la vita che perdere il gregge. Per quel motivo è buono come pastore, perché preferisce convivere con noi che vivere da solo, perché antepone di esporre prima la sua vita che esporsi a perderci. Non è come il pastore salariato che vive delle sue pecore e che li lascia quando vede rischiare la sua propria vita. La volontà di convivenza ha portato Gesù a consegnare la sua vita per noi: e non è che dice di essere il nostro Pastore o che ce lo prometta di essere un giorno; è che ha già pagato il prezzo per esserlo, morendo per noi. Ci ha dimostrato, pagando con la sua propria vita, la sua bontà.
Allora, da che cosa viene il sentirsi abbandonati da lui, quando presentiamo il pericolo e l'avversità? Se realmente crediamo in quello che ci ha detto che vuole essere per noi un pastore buono, con che diritto ci crediamo soli ed indifesi ogni volta che dobbiamo affrontare una difficoltà o assumere un rischio? Chi ha consegnato la sua vita per noi, non poteva darci un'altra prova migliore che quella di stare al nostro fianco. Colui che rinunciò a vivere perché preferì convivere con noi, non si tira indietro davanti ai pericoli né ai nemici e neanche di fronte la stessa morte.
Sapersi pascolati da Gesù porta a vivere senza paura la propria vita, sapendo che il nostro presente è in buone mani e che il nostro futuro è già assicurato in colui il quale amò la sua vita meno che la nostra. Non dovremmo noi che vogliamo avere come pastore Gesù, contarci tra chi con più paure e pregiudizi, affrontano il mondo di oggi, il giorno di domani: la certezza di averlo vicino a noi mentre camminiamo e di averlo a nostra disposizione ogni volta che seguiamo le sue strade, deve liberarci dalle nostre paure e dall'angoscia che il mondo attuale ed il futuro incerto possano produrci: la nostra sicurezza non si appoggia su promesse da compiersi bensì in fatti già realizzati: Cristo ha dato già liberamente la vita per noi e Dio lo ha fatto, per ciò, pastore delle nostre vite.
Ma se non sentiamo ancora nel nostro cuore i suoi passi, né riusciamo a scoprire le sue orme nel nostro ambiente, se non ci è familiare il tono della sua voce né le esigenze della sua volontà, se è più grande la nostra ansia di sicurezza che la nostra capacità di soddisfarli, se è maggiore il peso della nostra fatica accumulata in tanti anni di vita cristiana che il godimento di saperci accompagnati da Cristo, se ci crediamo più abbandonati, meno sicuri, tanto infelici come gli altri, per essere cristiani, non sarà perché, in realtà, non è Cristo il nostro Pastore? Bisognerebbe domandarsi oggi seriamente, alla sua presenza, se realmente ci stiamo lasciando condurre da lui, o se non ci siamo dati a pastori salariati, persone che non consegneranno mai la loro vita per noi nonostante quello che ci promettono. Chissà se ci stiamo sentendo tanto abbandonati solo perché non seguiamo l'unico Pastore buono. È possibile che per avere dato la nostra fiducia e le nostre vite a chi non se li meritava, viviamo alla deriva la nostra fede e la nostra vita.
È probabile che questo sia il nostro destino, mentre continuiamo lasciandoci condurre da chi non è disposto a morire per noi; è lo stesso Gesù che ce l'ha detto: avere come pastori dei salariati porta inevitabilmente ad essere preda dei lupi. E questa, sfortunatamente, è la nostra piccola storia: siamo stati tante volte vittime di coloro nei quali mettemmo la nostra fiducia, perché non osammo fidarci totalmente di Cristo. Solo chi è disposto a consegnare la sua vita che consegnare il suo gregge è un pastore degno di fiducia, solo chi preferisce convivere vicino a noi che vivere senza di noi merita di essere seguito. Se con Gesù, buon Pastore, non ci sentiamo sufficientemente riparati, è perché non è Gesù il nostro Pastore: egli non vuole essere pastore, senza essere buono. In lui possiamo mettere, dunque, le nostre speranze migliori, purché siamo disposti a seguirlo a qualunque costo.
Ed è una prova in più della sua bontà quella che non ci ha completamente trascurato, quando egli ascese vicino a Dio e volle che ci accompagnassero pastori che lo rappresentino, fino a che ritorni di nuovo. Oggi la chiesa universale celebra Cristo Buon Pastore e prega per quanti hanno sentito la vocazione di imitarlo e di sostituirlo; dobbiamo, in effetti, la nostra simpatia a quanti ci pascolano in nome e con l'autorità dell'unico Pastore, a tanti credenti che hanno consegnato la loro vita e il loro impegno al compito di farsi luogotenenti di quel Pastore. Nella loro consegna generosa possiamo scorgere meglio la consegna di Cristo Gesù che li ha inviati. Nella loro consegna sempre fedele possiamo vedere la consegna indefettibile del nostro unico buon Pastore: in entrambi i casi, abbiamo bisogno di essi. Benché non riescano ad essere tanto buoni come li vogliamo, sono l'immagine più vicina che ci rimane in questo mondo del Pastore buono di cui abbiamo bisogno. Pregando per essi li rendiamo migliori e riusciamo ad avere a nostra disposizione pastori buoni che ci ricordino più facilmente il viso e la voce del Pastore buono, Cristo Gesù. Abbiamo tanto bisogno di essere ben guidati! Chiediamo, dunque, che Dio renda buoni coloro che ci ha dato come pastori.

                                                                                    JUAN J. BARTOLOME sdb

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