Monastero Marango don Giorgio Scatto"Tommaso, compagno d'incredulità, maestro della fede"

Pasqua 2, anno B MONASTERO MARANGO CAORLE(VE)
Con grande forza gli Apostoli davano testimonianza della Resurrezione del Signore Gesù.
Dare testimonianza della resurrezione è diventare un popolo che ha un cuore solo e un’anima sola, vincendo la frantumazione dei pensieri e l’affermazione orgogliosa della propria
individualità, che ci separa e ci divide dai fratelli. Se Gesù è risorto, non viviamo più per noi stessi, ma per colui che ha dato la vita per noi. In Gesù risorto apparteniamo gli uni agli altri. Diventiamo un corpo nel quale batte un cuore solo. Respiriamo con il medesimo soffio dello Spirito “la cui gioia segreta sarà sempre lo stabilire la comunione e il ristabilire la somiglianza, giocando con le differenze” (Frére Christian, monaco trappista, martire in Algeria).
Dare testimonianza della resurrezione significa credere che il sangue di Cristo purifica e salva anche chi è considerato nemico della mia esistenza, fino a volere la mia morte. Consapevole che la sua vita poteva finire tragicamente, vittima della violenza integralista, frére Christian scrive il suo testamento, con una profondissima fede e con una trasparente carità: “E anche a te, amico dell’ultimo minuto, che non avrai saputo quel che facevi. Sì, anche per te voglio questo grazie e questo ad – Dio profilatosi con te. E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due”.Cristo risorto non solo è “al di sopra di ogni Principato e Potenza, al di sopra di ogni Forza e Dominazione” (Ef 2,21), ma ha anche abbattuto per sempre il “muro di separazione”, cioè l’inimicizia che opponeva popolo a popolo, religione a religione, uomo a uomo. In Cristo risorto tutto diventa uno, mantenendo la ‘sinfonia delle differenze’.
Rendere testimonianza della risurrezione significa anche opporsi con forza ad una economia che uccide. La comunità credente, descritta negli Atti degli Apostoli, “non considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune”. Oggi invece “abbiamo creato nuovi idoli: l’adorazione del vitello d’oro ha trovato una nuova e spietata versione nel feticismo del denaro e nella dittatura di una economia senza volto e senza uno scopo veramente umano” (papa Francesco, E.G. 55). Sarebbe ora, prima che non sia troppo tardi, che i cristiani, quelli che dicono di credere nella resurrezione, ne dimostrassero la verità e la forza creando nuovi stili di vita, dicendo no ad una economia dell’esclusione e dell’inequità, rifiutando con ogni mezzo la cultura dello ‘scarto’.

Questa fede nel risorto, testimoniata da una comunità credente che vive l’unità e che promuove con forza la condivisione, è una fede che vince il mondo. Quando l’evangelista Giovanni parla del ‘mondo’, intende due cose. Innanzitutto l’umanità, che Dio ha tanto amato, fino a donarle suo Figlio. E poi parla del mondo in senso negativo. E’ il sistema di potere, di corruzione, di violenza, di morte, che sembra vincere su tutto. Gesù non prega per questo mondo, che non conosce e non vede lo Spirito della verità (Gv 14,17). Se noi appartenessimo a questo mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo. Il mondo invece, arriva a odiare i credenti, perché non gli appartengono e non condividono questo sistema iniquo. La parola della Scrittura però ci rassicura: “Chiunque è stato generato da Dio vince il mondo; e questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede”. L’ho costatato innumerevoli volte, anche nel mio recente viaggio in Iraq, in mezzo ai campi profughi dei cristiani. La violenza omicida li ha spogliati di tutto, ma il Signore li ha rivestiti con l’abito della fede, con vesti rese candide nel sangue dell’Agnello.
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Nella pagina del vangelo leggiamo anzitutto dei doni che il Cristo risorto fa alla sua Chiesa: il dono inestimabile e indivisibile della pace; la grazia della missione, che appartiene alla natura stessa della comunità credente: “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”; la vita nello Spirito Santo, che ci rende familiari con il Padre e con il Figlio; il perdono dei peccati e l’annuncio della misericordia, che ci fa vivere con il cuore stesso di Dio che “fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni” (Mt 5,45).
Leggiamo anche di Tommaso, l’incredulo. A me pare che questo Apostolo, chiamato Didimo, che vuol dire ‘il gemello’, -  ma forse anche qualcosa di dispregiativo - a me pare che questo discepolo faccia un grande servizio alla fede. Sì, è vero, il suo limite – sottolineato da Giovanni - è quello di essere pauroso di fronte alla morte (cfr. Gv 11,16), ma questo è anche un nostro limite, che è radicato nella nostra fragile umanità, non ancora evangelizzata. E’ anche vero che Tommaso amava poco stare con gli altri discepoli. Infatti, quando Gesù “venne e stette in mezzo a loro”, Tommaso non c’era. Una fede privata dalla compagnia dei fratelli, una fede solo pensata e magari praticata in modo privatistico, si inaridisce e muore. Ma quando Gesù torna, nell’ottavo giorno, il giorno nel quale la Chiesa celebra la Resurrezione, è presente anche Tommaso.
“Abbiamo visto il Signore!”
“Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco non credo, io!”
“Guarda le mie mani, tendi la tua mano. Non essere incredulo, ma credente!”
“Mio Signore e mio Dio!”
Io penso che Tommaso, l’incredulo, abbia reso un grande servizio alla fede: Ci ha insegnato che il Risorto non è una figura luminosa, che si confonde con la luce del sole. Il Risorto è il crocefisso. “Dio lo ha risuscitato, liberandolo dai dolori della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere” (At 2,14).
Grazie, fratello Tommaso, compagno della mia incredulità, maestro della mia fede!


Giorgio Scatto

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