Monastero Marango Don Giorgio Scatto"Potati e lavorati "V domenica di Pasqua
V domenica di Pasqua (anno B) Letture: At 9,26-31; 1Gv 3,18-24; Gv 15,1-8
1«In quei giorni Saulo, venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi ai discepoli, ma tutti avevano paura di lui, non credendo che fosse un discepolo. Allora Barnaba lo prese con sé e lo condusse dagli Apostoli».
Barnaba, che forse vuol dire ‘figlio della consolazione’, è il soprannome dato a Giuseppe,
un levita di Cipro, che vende il suo campo e mette il ricavato a disposizione degli Apostoli (At 4,36) perché fosse distribuito ai più poveri. E’ lui che viene inviato ad Antiochia, dove il Vangelo viene predicato anche ai pagani. Visitando quella comunità «vide la grazia del Signore, si rallegrò e, da uomo virtuoso qual era e pieno di Spirito Santo e di fede, esortava tutti a perseverare con cuore risoluto nel Signore» (At 11,23).
E’ ancora lui che, vincendo la diffidenza della comunità, presenta Saulo alla Chiesa di Gerusalemme, garantendo per lui. Come non dare credito ad un uomo che un tempo perseguitava i cristiani e che ora proclama nelle sinagoghe Gesù Figlio di Dio, esponendo la sua vita alla violenza e alla morte? (At 9,20. 23-25). Anche a Gerusalemme Saulo parla apertamente nel nome del Signore, e anche qui non gli vengono risparmiate critiche violente e minacce. Allora i fratelli, con grande solerzia, lo imbarcano a Cesarea e lo fanno partire per Tarso, la città che lo ha visto nascere. Mi chiedo se questo gesto di premurosa carità non nasconda la volontà inconfessabile di eliminare ‘altrimenti’ un personaggio che, fin dagli inizi, si rivela molto scomodo. Anche per la comunità cristiana di Gerusalemme.
A Tarso Saulo rimane parecchi anni, dimenticato, finché ancora una volta Barnaba, non si recherà a cercarlo, per portarselo ad Antiochia, da dove in seguito partiranno insieme per un importante viaggio missionario (At 13,1ss.).
Nel brano proposto mi colpiscono due fatti. Innanzitutto la necessità di figure di mediazione nella Chiesa, di persone capaci di consolare, di esortare con mitezza, di metterci la faccia per introdurre nella comunità anche personaggi scomodi e profetici. E’ brutto quando nella Chiesa ci sono liste di proscrizione, elenchi dei buoni e dei cattivi. E’ brutto, ma può capitare. L’altro fatto da sottolineare è la pace sperimentata dalla primitiva comunità cristiana. Essa conosce ben presto l’ostilità, il disprezzo di molti, lo scontro con le autorità religiose del giudaismo, la violenza e la persecuzione. Eppure si dice: «La Chiesa era in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samaria». Sì, la Chiesa vive nella pace solo quando sta nell’obbedienza all’evangelo e nella fedeltà al grande comandamento dell’amore.
«Non amiamo a parole, né con la lingua, ma con i fatti e nella verità».
L’amore non si consuma nel desiderio, né vive nelle belle parole. E’ un fatto, pieno della bellezza della verità. Sembra che Giovanni voglia comunicarci che l’amore, manifestato nelle opere e nei fatti, è rivelazione della verità di Cristo, manifestazione reale del suo mistero ineffabile. Ed è certo che, se viviamo nell’amore, viviamo in Dio, il quale, anche se il cuore dovesse rimproverarci qualche cosa, ci rassicurerà e ci terrà stretti a lui perché «Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa». La linea è semplice e sta diritta dinanzi a noi: dobbiamo semplicemente credere in Gesù e amarci come lui ci ha insegnato. E’ una via di affidamento, che vince la paura. Con la sola forza dello Spirito.
Il tema della vite, che troviamo nel vangelo, è conosciuto fin dai più antichi racconti biblici. Noè, ad esempio, pianta una vite su una terra che Dio ha promesso di non più maledire (Gen 8,21). La vite diventerà ben presto immagine della sapienza (Sir 24,17), della sposa feconda nella casa del giusto (Sal 128,3), della speranza degli sposi che, nel Cantico, cantano il mistero dell’amore (Ct 6,11).
Sposo e vignaiolo, il Dio di Israele ha la sua vigna, che è il suo popolo. Dio ama la sua vigna, ha fatto tutto per essa, ma invece del frutto di giustizia che attendeva, essa ha prodotto ingiustizia, spargimento di sangue, grida di oppressi (Is 5,7). Così questa vigna verrà distrutta: «Salite sui suoi filari e distruggeteli, senza compiere uno sterminio; strappate i tralci, perché non sono del Signore» (Ger 5,10).
Solo Gesù darà a Dio quello che Israele non ha saputo dargli. Leggiamo infatti nel vangelo: «Io sono la vite vera, e il Padre mio è l’agricoltore». L’accento è posto su Gesù come vite, non sul Padre come vignaiolo. Gesù è la vite vera, in contrasto con la vite che non ha portato il frutto sperato. Nella vite ci sono i tralci che, uniti alla vite, producono l’uva. Se i tralci non vengono potati, ben presto la vite si inselvatichisce, produce sempre meno, fino a morire. Talvolta, in alcuni luoghi abbandonati, abbiamo potuto costatare anche noi questa verità. Ci sono due tipi di potatura. Una è più facile: si tagliano e si gettano nel fuoco i rami secchi. La seconda potatura esige l’occhio vigile e la mano esperta del contadino. Egli opera delle potature profonde e mirate, affinché la linfa vitale non si disperda e la vite possa portare un frutto sano e abbondante. Se non lo fa, muore anche la vite. Se non veniamo potati, muore anche la fede, e del Signore rimane solo un nome sbiadito, fino a scomparire del tutto.
E in noi, come avviene questa potatura? Anzitutto «a causa della Parola»; essa monda, taglia e risana. In secondo luogo attraverso la stessa comunità dei fratelli: è in essa che siamo potati e lavorati finché il «Signore Gesù Cristo trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso» (Ef 3,20-21). Infine la potatura avviene attraverso tutte le vicende della storia, personale e collettiva. Il grido dei nostri fratelli che affrontano il rischio di una morte probabile in mare, per fuggire da una morte certa nei loro Paesi; il pianto straziante di chi ha perso in un istante casa e famiglia nel terribile terremoto che ha cancellato il Nepal dalla carta geografica, distruggendo città e villaggi; il silenzio impaurito dei molti che sono trattati come «pietre di scarto»; tutto questo, e molto altro, se accolto, opera in noi una potatura certamente dolorosa, ma anche necessaria, al fine di rendere la nostra vita degna di essere chiamata umana.
«Rimanete in me». L’espressione, in pochi versetti, è ripetuta dieci volte. Rimane il fatto, incontestabile, che il tralcio, per portare frutto, deve rimanere attaccato alla vite. Portiamo frutto solo se la nostra vita è in Cristo. E solo se la nostra vita è unita a quella di Cristo il Padre è glorificato. Dio è glorificato nel fatto che i discepoli diventano simili a Gesù e continuano la sua opera. Portare frutto e diventare discepoli non sono due azioni diverse, ma dipendono l’una dall’altra.
Giorgio Scatto
1«In quei giorni Saulo, venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi ai discepoli, ma tutti avevano paura di lui, non credendo che fosse un discepolo. Allora Barnaba lo prese con sé e lo condusse dagli Apostoli».
Barnaba, che forse vuol dire ‘figlio della consolazione’, è il soprannome dato a Giuseppe,
un levita di Cipro, che vende il suo campo e mette il ricavato a disposizione degli Apostoli (At 4,36) perché fosse distribuito ai più poveri. E’ lui che viene inviato ad Antiochia, dove il Vangelo viene predicato anche ai pagani. Visitando quella comunità «vide la grazia del Signore, si rallegrò e, da uomo virtuoso qual era e pieno di Spirito Santo e di fede, esortava tutti a perseverare con cuore risoluto nel Signore» (At 11,23).
E’ ancora lui che, vincendo la diffidenza della comunità, presenta Saulo alla Chiesa di Gerusalemme, garantendo per lui. Come non dare credito ad un uomo che un tempo perseguitava i cristiani e che ora proclama nelle sinagoghe Gesù Figlio di Dio, esponendo la sua vita alla violenza e alla morte? (At 9,20. 23-25). Anche a Gerusalemme Saulo parla apertamente nel nome del Signore, e anche qui non gli vengono risparmiate critiche violente e minacce. Allora i fratelli, con grande solerzia, lo imbarcano a Cesarea e lo fanno partire per Tarso, la città che lo ha visto nascere. Mi chiedo se questo gesto di premurosa carità non nasconda la volontà inconfessabile di eliminare ‘altrimenti’ un personaggio che, fin dagli inizi, si rivela molto scomodo. Anche per la comunità cristiana di Gerusalemme.
A Tarso Saulo rimane parecchi anni, dimenticato, finché ancora una volta Barnaba, non si recherà a cercarlo, per portarselo ad Antiochia, da dove in seguito partiranno insieme per un importante viaggio missionario (At 13,1ss.).
Nel brano proposto mi colpiscono due fatti. Innanzitutto la necessità di figure di mediazione nella Chiesa, di persone capaci di consolare, di esortare con mitezza, di metterci la faccia per introdurre nella comunità anche personaggi scomodi e profetici. E’ brutto quando nella Chiesa ci sono liste di proscrizione, elenchi dei buoni e dei cattivi. E’ brutto, ma può capitare. L’altro fatto da sottolineare è la pace sperimentata dalla primitiva comunità cristiana. Essa conosce ben presto l’ostilità, il disprezzo di molti, lo scontro con le autorità religiose del giudaismo, la violenza e la persecuzione. Eppure si dice: «La Chiesa era in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samaria». Sì, la Chiesa vive nella pace solo quando sta nell’obbedienza all’evangelo e nella fedeltà al grande comandamento dell’amore.
«Non amiamo a parole, né con la lingua, ma con i fatti e nella verità».
L’amore non si consuma nel desiderio, né vive nelle belle parole. E’ un fatto, pieno della bellezza della verità. Sembra che Giovanni voglia comunicarci che l’amore, manifestato nelle opere e nei fatti, è rivelazione della verità di Cristo, manifestazione reale del suo mistero ineffabile. Ed è certo che, se viviamo nell’amore, viviamo in Dio, il quale, anche se il cuore dovesse rimproverarci qualche cosa, ci rassicurerà e ci terrà stretti a lui perché «Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa». La linea è semplice e sta diritta dinanzi a noi: dobbiamo semplicemente credere in Gesù e amarci come lui ci ha insegnato. E’ una via di affidamento, che vince la paura. Con la sola forza dello Spirito.
Il tema della vite, che troviamo nel vangelo, è conosciuto fin dai più antichi racconti biblici. Noè, ad esempio, pianta una vite su una terra che Dio ha promesso di non più maledire (Gen 8,21). La vite diventerà ben presto immagine della sapienza (Sir 24,17), della sposa feconda nella casa del giusto (Sal 128,3), della speranza degli sposi che, nel Cantico, cantano il mistero dell’amore (Ct 6,11).
Sposo e vignaiolo, il Dio di Israele ha la sua vigna, che è il suo popolo. Dio ama la sua vigna, ha fatto tutto per essa, ma invece del frutto di giustizia che attendeva, essa ha prodotto ingiustizia, spargimento di sangue, grida di oppressi (Is 5,7). Così questa vigna verrà distrutta: «Salite sui suoi filari e distruggeteli, senza compiere uno sterminio; strappate i tralci, perché non sono del Signore» (Ger 5,10).
Solo Gesù darà a Dio quello che Israele non ha saputo dargli. Leggiamo infatti nel vangelo: «Io sono la vite vera, e il Padre mio è l’agricoltore». L’accento è posto su Gesù come vite, non sul Padre come vignaiolo. Gesù è la vite vera, in contrasto con la vite che non ha portato il frutto sperato. Nella vite ci sono i tralci che, uniti alla vite, producono l’uva. Se i tralci non vengono potati, ben presto la vite si inselvatichisce, produce sempre meno, fino a morire. Talvolta, in alcuni luoghi abbandonati, abbiamo potuto costatare anche noi questa verità. Ci sono due tipi di potatura. Una è più facile: si tagliano e si gettano nel fuoco i rami secchi. La seconda potatura esige l’occhio vigile e la mano esperta del contadino. Egli opera delle potature profonde e mirate, affinché la linfa vitale non si disperda e la vite possa portare un frutto sano e abbondante. Se non lo fa, muore anche la vite. Se non veniamo potati, muore anche la fede, e del Signore rimane solo un nome sbiadito, fino a scomparire del tutto.
E in noi, come avviene questa potatura? Anzitutto «a causa della Parola»; essa monda, taglia e risana. In secondo luogo attraverso la stessa comunità dei fratelli: è in essa che siamo potati e lavorati finché il «Signore Gesù Cristo trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso» (Ef 3,20-21). Infine la potatura avviene attraverso tutte le vicende della storia, personale e collettiva. Il grido dei nostri fratelli che affrontano il rischio di una morte probabile in mare, per fuggire da una morte certa nei loro Paesi; il pianto straziante di chi ha perso in un istante casa e famiglia nel terribile terremoto che ha cancellato il Nepal dalla carta geografica, distruggendo città e villaggi; il silenzio impaurito dei molti che sono trattati come «pietre di scarto»; tutto questo, e molto altro, se accolto, opera in noi una potatura certamente dolorosa, ma anche necessaria, al fine di rendere la nostra vita degna di essere chiamata umana.
«Rimanete in me». L’espressione, in pochi versetti, è ripetuta dieci volte. Rimane il fatto, incontestabile, che il tralcio, per portare frutto, deve rimanere attaccato alla vite. Portiamo frutto solo se la nostra vita è in Cristo. E solo se la nostra vita è unita a quella di Cristo il Padre è glorificato. Dio è glorificato nel fatto che i discepoli diventano simili a Gesù e continuano la sua opera. Portare frutto e diventare discepoli non sono due azioni diverse, ma dipendono l’una dall’altra.
Giorgio Scatto
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