CIPRIANI SETTIMO "Per mezzo dello Spirito gridiamo: "Abbà, Padre!""

31 maggio 2015 | 9a Domenica: ss. Trinità - Anno B | Appunti per la Lectio
La festa della SS. Trinità è come una festa di sintesi, che vuole riportare tutti noi alla "fonte" da cui origina, nella sua ordinata e lenta scanditura, la multiforme storia della nostra salvezza. Dovendo la Liturgia celebrare i vari
aspetti del mistero cristiano, essa li scagliona lungo tutto l'arco dell'anno: alla fine, però, abbiamo come tanti frammenti di un immenso disegno che rischia di sfuggirci nella sua orditura di fondo. Lo stesso mistero pasquale fa parte di un disegno più vasto e trascendente, e non si capisce se non rapportato ad una "fonte" primordiale, da cui esso pure trae la sua origine.
Orbene, la "fonte" di tutta l'economia salvifica è precisamente la SS. Trinità, il mistero cioè di questa immensa circolazione di amore e di vita che, lentamente disvelandosi nella creazione e nella storia, ci permette di intuire qualcosa dei fulgori anche dell'Incarnazione, della Pasqua, della Pentecoste. Dante, nella sua sensibilità cristiana e nella sua altissima intuizione artistica, non ha avuto torto quando, alla conclusione della sua avventurosa peregrinazione simbolica nell'oltretomba, tutto riporta al mistero di Dio uno e trino: "Nel suo profondo vidi che s'interna / legato con amore in un volume, / ciò che per l'universo si squaderna" (Par. XXXIII, 85-87).

"Sappi dunque che il Signore è Dio e non ve n'è altro"
Non intendiamo fare qui delle interessanti disquisizioni teologiche, che pur ci tenterebbero, ma vogliamo solo seguire certe indicazioni che ci fornisce la Liturgia con le suggestive letture bibliche proposteci.
E la cosa più interessante che da esse viene fuori è che il "mistero" trinitario non ci appare tanto come una sfida alla nostra intelligenza, per cui ci dobbiamo piegare a terra, umiliati e quasi atterriti da tanta incomprensibile grandezza, quanto come un immenso oceano di amore in cui è pur dolce "naufragare".
È la Trinità "economica" (K. Rahner), cioè quella che ci si disvela nella storia della salvezza, più che quella freddamente teologica, che le letture bibliche ci presentano.
Si prenda, ad esempio, la prima lettura che, in realtà, non ci parla in alcun modo del "Dio Trinità", ma solo dell'unico Dio d'Israele: "Sappi dunque oggi e conserva bene nel tuo cuore che il Signore è Dio lassù nei cieli e quaggiù sulla terra; e non ve n'è altro" (Dt 4,39). Però il Dio "unico" d'Israele ci viene presentato con tale carica di amore per il suo popolo che, in un certo senso, ci prepara ad accettare la grande rivelazione del Nuovo Testamento: un Dio che ama, non può essere che un Dio "fecondo" al di dentro di sé, prima ancora che esserlo "ad extra"!
"Interroga pure i tempi antichi, che furono prima di te: dal giorno in cui Dio creò l'uomo sulla terra e da una estremità dei cieli all'altra, vi fu mai cosa grande come questa e si udì mai cosa simile a questa? Che cioè un popolo abbia udito la voce di Dio parlare dal fuoco, come l'hai udita tu, e che rimanesse vivo?..." (Dt 4,32-34).
È dunque sul piano della "storia" e della propria esperienza di popolo "scelto", a cui Dio si è rivelato nei "prodigi" d'Egitto e del deserto e nel "fuoco" ardente del Sinai, che Israele può farsi l'idea giusta del suo Dio: un Dio che agisce solo per amore, per mera gratuità, all'unico scopo di crearsi, più che un "popolo", addirittura una famiglia immensa di "figli".

"Non avete ricevuto uno spirito da schiavi, ma da figli adottivi"
È il tema che viene ripreso ed approfondito, nella luce ormai piena della rivelazione, dal breve ma densissimo brano di san Paolo proposto come seconda lettura: "Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno Spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno Spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: "Abbà, Padre!". Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio..." (Rm 8,14-17).
È evidente qui la confessione di fede "trinitaria" di Paolo, la quale, del resto, è un presupposto fondamentale di tutta la sua teologia: abbiamo il "grido" e l'invocazione al "Padre", suggerita in noi dallo "Spirito di Dio", che ci fa scoprire la nostra condizione di "figli" insieme all'unico "Figlio", Cristo, del quale diventiamo "coeredi" in virtù della nostra "partecipazione" alla sua "sofferenza" e alla sua "gloria".
Ma oltre a questa affermazione fondamentale, ci sono delle considerazioni anche più stimolanti che ci suggerisce il brano che stiamo esaminando.
E la prima è la seguente: anche i credenti sono misteriosamente "coinvolti" nella vita di amore che lega il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Quando essi, alla luce e nella forza dello Spirito, "gridano" non solo la loro fiducia ma anche la loro richiesta di aiuto a Dio, chiamandolo "Padre", adoperano la stessa espressione usata da Gesù nella preghiera del Getsemani, che Marco soltanto ci riferisce nel suo originale aramaico: "Abbà" (14,36).
Gli studiosi hanno messo in evidenza il tono intenso di affettività e di calore che essa comporta: qualcosa come "papà mio, babbo carissimo". Gesù dunque si rivolge a Dio, in quei momenti drammatici, evocando nella forma più commossa i suoi rapporti unici con lui: pur nella distinzione di persona, che del resto si riflette nella diversità delle situazioni (lui sofferente si rivolge all'onnipotenza amorevole del Padre!), Gesù si sente intimamente legato al Padre, come fasciato e protetto dall'onda infinita del suo amore.
La formula dovette impressionare talmente gli apostoli e i primi cristiani, che essi ce l'hanno trasmessa nel suo tenore originale. Anzi, se ne sono serviti per esprimere i loro "nuovi" rapporti con Dio: ormai inseriti in Cristo per la fede, essi pure potevano rivolgersi a Dio chiamandolo non più soltanto "Padre nostro", come del resto Gesù stesso ci aveva insegnato, ma "Abbà", cioè "papà", esprimendo in tal modo piena sicurezza e fiducia filiale, alla stessa maniera di Gesù.
È quanto san Paolo ci testimonia nel passo che stiamo esaminando e in un passo parallelo della lettera ai Galati: "Che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio; e se figlio, sei anche erede per volontà di Dio" (Gal 4,6-7).
Ripeto, la novità di tutto questo non sta nel fatto che anche noi possiamo invocare Dio come "Padre", ma che lo possiamo invocare "Abbà", come Cristo l'ha invocato e lo invoca anche oggi nella gloria del cielo: la Trinità, dunque, è già in noi per la nostra "assimilazione" a Cristo, che ci rappresenta e ci presenta come "figli" davanti al Padre!

"Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio"
E, accanto a questa, un'altra considerazione: la Trinità è presente in noi per la presenza anche dello Spirito Santo nel nostro cuore. Ce lo ricordano i testi paolini sopra citati: "Che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio..." (Gal 4,6); "Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio" (Rm 8,16).
Dio dunque "manda" il suo Spirito come "artefice" e "testimone" insieme della nostra "figliolanza" divina: essa, infatti, non consiste tanto in un nuovo rapporto "giuridico" con Dio, quanto nella "trasformazione" effettiva del nostro essere, fino al punto di poter esser chiamati "nuova creatura", e nella conseguente trasformazione morale e spirituale della nostra vita. Soprattutto questo ultimo aspetto ha bisogno di essere continuamente stimolato e riequilibrato: "figli di Dio" si diventa costantemente! E si diventa nella misura in cui si è capaci di "amare" Dio come "Padre".
Orbene, tutto questo è possibile a condizione che lo "Spiritus creator" sia in noi continuamente per questa opera di "trasfigurazione" filiale: lui che è il legame di amore tra il Padre e il Figlio, il frutto e la sorgente nello stesso tempo di questo amore, farà esplodere ed alimenterà la nostra "filialità amorosa", che fin dal presente ci immette nel circuito della vita trinitaria. È quanto ci ricorda ancora san Paolo in un passo stupendo della lettera ai Romani: "La speranza poi non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato" (Rm 5,5).

"Battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo"
Il brano di Vangelo, nello sfondo della celebrazione liturgica odierna, è particolarmente significativo perché pone nella bocca stessa del Risorto la più precisa confessione di fede trinitaria del Nuovo Testamento: "Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato" (Mt 28,19-20). Data la precisione della formula trinitaria, gli esegeti pensano che essa risenta dell'uso liturgico battesimale, ben presto stabilitosi nella comunità primitiva dietro le indicazioni stesse di Cristo.
Lasciando però da parte tale questione di storia della redazione del testo evangelico, a noi interessa piuttosto cogliere il senso teologico della formula. E mi sembra che esso sia riassumibile in questa affermazione: il battesimo, che è il sacramento che ci fa "figli di Dio", ci consacra alla celebrazione e al "culto" della Trinità. Quell'essere "battezzati nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo" non è solo una professione di fede, che esprime la nostra nuova appartenenza a Dio, ma direi soprattutto un "movimento" di confluenza e di adesione alla Trinità (in greco abbiamo la preposizione eis = verso), di cui vogliamo celebrare ed esaltare il mistero ("il nome") nella nostra vita.

"Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo"
E questo non soltanto come singoli credenti, ma anche come comunità. È evidente, infatti, che in tutto il contesto Gesù ha presente l'umanità intera in quanto è invitata a far parte della sua nuova comunità di salvezza ("ammaestrate tutte le nazioni"), che si qualifica come comunità di culto, consacrata al Dio Padre, al Dio Figlio, al Dio Spirito Santo. È in tale modo che la Chiesa si realizza quale "stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce" (1 Pt 2,9).
Una comunità di salvezza, dunque, la Chiesa, che deve saper "proclamare" al mondo, con l'annuncio e con la testimonianza della vita, che Dio ha talmente amato il suo popolo, da rivelargli non solo il "mistero" della sua vita intima, ma di ammetterlo già a "partecipare" di questa stessa vita.
La presenza "con noi" del Cristo risorto, "tutti i giorni sino alla fine del mondo" (Mt 28,20), è garanzia di questa "dimensione" trinitaria della nostra esistenza. Per mezzo di Cristo, infatti, abbiamo ormai "accesso al Padre in un solo Spirito" (Ef 2,18).

           Da CIPRIANI S.

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