Don Giorgio Scatto"Tutto si risolve solo nell'amore" VI Domenica di Pasqua.

MONASTERO MARANGO CAORLE (VE) VI Domenica di Pasqua. Letture: At 10,25-26.34-35.44-48; 1Gv 4,7-10; Gv 15,9-17 
1«In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui».
Un tempo molti pensavano che la salvezza fosse ‘meritata’ dalle opere compiute. Si passava la vita ad acquistare meriti per assicurarsi il paradiso. E molti altri, tra i quali il nostro fratello Martin Lutero, leggendo in modo attento le Sacre Scritture, ci
hanno fatto comprendere che la verità non era esattamente questa. «A nulla valgono le opere – dicevano – ; ci si salva solo mediante la fede». Abbiamo impiegato un po’ di tempo, con dispute infinite e con divisioni laceranti, e alla fine abbiamo ammesso che doveva essere proprio così. Ma abbiamo cambiato solo il vocabolario, non la comprensione della questione. Molti continuano a pensare la fede come ad un’opera. Tant’è che si diceva – e si dice ancora – «Io ho la fede, e dunque mi salvo; ma che ne sarà di coloro che non hanno la fede? C’è possibilità di salvezza per loro?». Ora va detto che la ‘fede’ è innanzitutto quella di Dio il quale, nonostante le ripetute fughe dell’uomo, nonostante il suo continuo nascondersi per paura di Dio, ha sempre cercato la sua creatura, esprimendo così, in tanti modi diversi narrati nelle Scritture, la sua sconfinata fiducia nell’uomo, che non è mai venuta meno, nonostante una serie infinita di tradimenti e di peccati. Nella Bibbia, colui che ha fede è innanzitutto Dio. La sua fede nell’uomo si è manifestata alla fine nel dono del suo Figlio unigenito. Leggiamo in san Paolo: «La Scrittura ha rinchiuso ogni cosa sotto il peccato, perché la promessa venisse data ai credenti mediante la fede di Gesù Cristo» (Gal 3,22). E’ nell’accoglienza, gioiosa e riconoscente, di questo dono, e non nell’accumulo ingombrante e inutile di ‘meriti’, che noi otteniamo la vita.
Per chi è fatto questo dono? Per tutti, cattivi e buoni, vicini e lontani, per quelli che sono chiamati a lavorare nella vigna alla prima ora e per quelli chiamati a fine giornata. Per gli ebrei e per i gentili, per i credenti e per quelli che credono ’altrimenti’, per quelli che non credono affatto: «Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù» (Rm 3,23). Quando Giovanni afferma che «Dio ha mandato il suo Figlio unigenito nel mondo», intende esattamente questo: il Figlio unigenito è il luogo dove si manifesta l’amore di Dio, offerto gratuitamente a tutti.
Questo Figlio ci ha mostrato cos’è l’amore, ce l’ha donato nel dono della sua vita, ci ha resi capaci del medesimo amore. L’accoglienza del dono trova il suo inveramento nell’esperienza umana dell’amore: «chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio». La salvezza è tutta in questa reciprocità: Dio ha amato noi, rendendoci capaci di amarci gli uni gli altri. I meriti non contano proprio niente.

Adesso capiamo anche le parole pronunziate da Pietro nella casa di Cornelio, il primo pagano che è entrato nella famiglia dei discepoli di Gesù: «Sto rendendomi conto che Dio non fa preferenza di persone» La tentazione di sentire la propria chiamata come un privilegio, come una preferenza accordata da Dio ad alcuni piuttosto che ad altri, è sempre presente al cuore stesso della Chiesa. E se c’è qualcuno che opera prodigi, ma ‘non è dei nostri’, siamo anche capaci di invocare il fuoco dal cielo, come è avvenuto con gli intraprendenti e fin troppo zelanti fratelli Giacomo e Giovanni, tra i più intimi del Signore.
Anche noi, discepoli della prima ora, abbiamo bisogno di stupirci costatando, con purezza di cuore, che i frutti dello Spirito Santo maturano abbondantemente anche fuori dai sacri recinti delle nostre Chiese. Sono i frutti fatti germinare dallo Spirito in molte latitudini, ben oltre i confini posti dai guardiani dell’ortodossia. Proviamo ad elencarne alcuni: «amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5,22). Non solo. Sovente l’opera creatrice dello Spirito precede l’opera stessa della Chiesa, la sua azione missionaria, la sua pastorale. Lo dice ancora l’apostolo Pietro: «Chi può impedire che siano battezzati nell’acqua questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito Santo?». E’ lo Spirito che apre le vie alla Chiesa, la rende capace di profezia, le dà la forza di abbattere i muri dell’ostilità, della diffidenza, della paura.

Senza tanti giri di parole, senza far diventare difficile ciò che è semplice e lineare, il vangelo ci dice che tutto si risolve solo nell’amore.
«Come il Padre ha amato me, io ho amato voi». L’espressione, come sappiamo, non ha valore solo comparativo, ma anche causativo. Gesù ha potuto amarci in quanto ha sperimentato l’amore del Padre; ci ama perché sa cos’è l’amore, quanto all’origine e quanto all’intensità. E’ difficile che qualcuno sappia amare se non è mai stato amato da nessuno.
«Il Padre ha amato me». Ben cinque volte, nella pericope evangelica, si usa il verbo che esprime la profondità, la lunghezza, l’unicità di questo amore (agapào). Un amore che appartiene solamente alla sfera divina. Anche se mi piace pensare che Dio è attratto verso il Figlio perché «è il più bello tra i figli dell’uomo» (Sal 45,3). Ed è attratto verso di noi perché, creando l'uomo «a sua immagine, secondo la sua somiglianza» (Gen 1,26), contemplando quanto aveva fatto, vide che «era cosa molto buona» (Gen 1,31).
«Rimanete nel mio amore». Prima di essere un comando che ci impegna a rimanere attaccati a qualcosa di importante, impegno che ha l’uomo come protagonista, c’è l’invito, autorevole e forte, di dimorare stabilmente in quell’amore che lui ha manifestato per noi. Non si tratta di ‘fare’ qualcosa, ma di accogliere lui, come persona che ha manifestato per noi un amore così grande. Il protagonista rimane Gesù.
«Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi, e la vostra gioia sia piena». Lo diceva già il salmo: «Hai messo più gioia nel mio cuore di quanta ne diano a loro grano e vino in abbondanza» (Sal 4,8). La Scrittura usa immagini della vita reale per tentare di esprimere una gioia indicibile, profonda e duratura, che nasce dall’incontro con il Signore e dall’ascolto della sua Parola. Perché, allora, i cristiani, come dice papa Francesco, «sembrano avere uno stile di Quaresima senza Pasqua»?
Date voi la risposta.

Giorgio Scatto

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