JUAN J. BARTOLOME sdb LECTIO DIVINA: Gv 15,9-17 6a di Pasqua

10maggio 2015 | 6a Domenica di Pasqua - T. di Pasqua B | Lectio Divina
Gesù continua la sua catechesi sviluppando l'idea dalla permanenza in lui come modo e mezzo di vita per il discepolo. Dopo avere utilizzato la similitudine della vite ed i tralci (GV 15,1-8), chiarisce ora che tale permanenza non è inattività pietistica né abbandono della propria iniziativa: la permanenza esige attuazione dei suoi comandamenti, l'amore si esprime nell'obbedienza puntuale ed è fonte di allegria piena. E siccome il comandamento nasce dall'amore che Dio ha per noi, si
riferisce anche all'amore che dobbiamo avere mutualmente. Questo amore, imposto da chi ce lo ha insegnato, non ha limite, neanche la propria vita, perché bisogna essere disposti a donarla per gli amici. Chi ubbidisce non è servo, bensì amico dell'Amante. Non vi è maggiore felicità. Il cristiano che non si sente amato, difficilmente potrà amare né sentirsi felice. Si è amati da Dio non perché lo invochiamo, neanche perché lo desideriamo, ma bensì perché facciamo il suo volere, amando il prossimo senza limiti, con tutta la vita.
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
9 "Come il Padre ha amato me, così anch'io ho amato voi; rimanete nel mio amore.
10 Se osservate i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore; come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore.
11 Vi ho detto questo affinché la mia gioia sia in voi, e la vostra gioia sia piena.
12 Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amati.
13 Nessuno ha amore più grande di questo, dare la vita per i propri amici.
14 Voi siete miei amici, se farete quello che vi comando.
15 Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone: ma vi ho chiamato amici, perché tutto quello che ho udito dal Padre mio ve l'ho fatto conoscere.
16 Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho inviati affinché andiate e portiate frutto, ed il vostro frutto rimanga. Perché tutto quello che chiediate al Padre nel mio nome ve lo conceda.
17 Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri."

1. LEGGERE: Capire quello che dice il testo e come lo dice

L'evangelista spiega teologicamente il simbolo della vite in una sezione parallela all'anteriore. La permanenza in Cristo (Gv 15,4) è compresa ora come permanenza nel suo amore che ha la sua origine in quello del Padre (Gv 15,9-10). La fertilità del discepolo (Gv 15,16) allude all'immagine della vite e dei tralci (Gv 15,4-6); l'importanza del discorso viene affermato due volte (Gv 15,7.16). La doppia menzione del Padre che ama (Gv 15,9) e del Padre che dà (GV 15,16) chiude il paragrafo.
L'amore, origine e principio della relazione Padre-Figlio (Gv 3,35; 5,20; 10,17) è il motivo ed il termine di paragone nella relazione che deve esistere tra Gesù ed i suoi discepoli (Gv 15,9). Il Padre è la fonte dell'amore che Cristo ha per i suoi, quell'amore è, in realtà, riflesso ed imitazione, dell'amore con il quale Cristo si sente amato. La permanenza in quella relazione amorosa, intradivina, si ottiene con un'obbedienza concreta (Gv 15,10), come quella del Figlio. La stessa cosa che è per Cristo (Gv 14,31), è per il cristiano: amare ed osservare i comandamenti è la stessa cosa (Gv 14,15.21.23). Il parallelismo della formulazione potenzia l'audacia dell'affermazione: osservare il volere di Gesù, concretizzato nei suoi comandamenti, è visto come amore. Cristo rimane nell'amore del Padre, perché osserva i suoi comandamenti; quello che è meta ottenuta in Cristo, è per il cristiano obiettivo da raggiungere; l'attuazione del Figlio è stimolo e fonte di quella dei credenti.
La gioia, bene messianico, che Gesù, ubbidiente ed amato, sente sua sarà, allora, patrimonio completo dei discepoli docili (Gv 15,11). Davanti ad un Cristo che deve assentarsi, i cristiani sapranno conservare la gioia se si amano: l'obbedienza dovuta al Signore si identifica con l'amore reciproco (Gv 15,12; 13,34); la gioia di vivere accompagna la vita fraterna, fino al ritorno del Signore. La misura di quell'amore fraterno che non è libero ma oggetto di mandato, non è all'arbitrio del discepolo: l'amore del cristiano ha l'amore di Cristo come norma e limite. Consegnare la propria vita allude alla morte volontaria di Gesù (Gv 15,15.24). Egli come dell'amore di Cristo sostenta l'obbligatorietà del suo mandato e stabilisce le sue frontiere. Questo amore, pertanto, "è distinto da quello con il quale si amano gli uomini come uomini" (Sant'Agostino): finché ha vita, il cristiano dovrà amare il suo fratello e può, perfino perdere la vita pur di non smettere di amarlo (Gv 15,12-13. 1; Cor 13,3; Rom 5,6-8). La disponibilità per fare la volontà del Padre può portare, dunque, fino a dare la propria vita per gli amici. La gioia vissuta per obbedienza non è mai illusoria, neanche davanti alla propria morte.
La dichiarazione da parte di Gesù che chiama amici i suoi discepoli è unica nel NT (Gv 15,14; 11,11) e non fu raccolta dal cristianesimo posteriore. L'amicizia dipende non tanto dall'obbedienza del discepolo, bensì dell'obbedienza del Maestro (Gv 13,1; 17,26). Non bisogna dimenticare che il Gesù giovanneo ha dato già la vita per coloro che ama; criterio dell'amicizia non è quello che si può sentire per l'altro, ma la vita che bisogna consegnare, come Gesù; rimane nell'amicizia di Gesù chi gli rimane discepolo ubbidiente, cioè, chi come Lui ama fino a dare la vita per gli amici (cf. Gv 13,36-38; 21,15-19).
Come discepoli intimi a Gesù (Gv 15,15), i discepoli conoscono le intenzioni del loro signore. Il servo riceve ordini, l'amico, confidenze ed intimità. Il criterio che garantisce la nuova relazione che media Gesù ed i suoi si radica ora nella partecipazione di questi ai suoi piani, nella conoscenza del suo programma, nelle confidenze condivise (cf. Gv 17,26) e non nell'uguaglianza naturale o nell'opzione previa da parte dei discepoli. L'iniziativa non è stata loro; benché debba esserci reciprocità, non c'è uguaglianza basilare; sono stati scelti e destinati, selezionati e messi davanti al compito di portare davanti al mondo il frutto permanente: amare il fratello ed essere ascoltato dal Padre (Gv 15,16). E dato che essi non hanno scelto, ma furono scelti, perché non sono già servi bensì amici, perché non ignorano oramai ma sanno il suo destino, può essere ordinato loro l'amore (Gv 15,17). Essere amato impone già di dover amare; solo a chi gli è dato sperimentare amore può esigere che ami. Per l'amato, amare non è compito imposto ma necessità da soddisfare.

2. MEDITARE: APPLICARE QUELLO CHE DICE IL TESTO ALLA VITA

Se non fosse perché abbiamo sentito parlare del mandato dell'amore fraterno con troppa frequenza, ci risulterebbe scomoda, quasi insopportabile, l'esigenza di Gesù nel vangelo di oggi: "Questo vi comando che vi amiate gli uni gli altri". Perché, guardando bene, chi di noi crede che sia possibile, che sia esigibile, amare il suo prossimo? Sembra che man mano che avanziamo nella vita, ci facciamo un'altra idea più che accumulare delusioni in questo campo. E non è che non contiamo sull'amore di quanti non conosciamo o che diamo per naturale l'indifferenza degli sconosciuti; è che neanche riusciamo ad amare coloro che ci amano, come essi si meritano, come avevamo promesso loro. Né ci sentiamo amati da essi come desideriamo ed abbiamo perfino chiesto loro qualche volta. Gli innamorati promettono o esigono amore fedele. Se l'amore al parente, al conoscente, all'amico, è tanto impensabile, come è possibile che Gesù ci imponga l'amore al prossimo, allo sconosciuto, al non amato?
Bisognerebbe accorgersi di questo: dobbiamo amarci, perché siamo stati oggetto di amore. Come il Padre mi ha amato, così anche io vi ho amati; rimanete nel mio amore. Prima di dover cercare il prossimo da amare, Cristo è venuto a cercarci, si è avvicinato, ci ha scelti col suo amore: non siete voi che avete scelto me; sono io che ho scelto voi. Venendo al nostro incontro, avendoci eletti come persone da amare, Gesù ci ha facilitato il compimento di suo volere: ci basterebbe rimanere nel suo amore. "È l'amore quello che fa osservare i suoi precetti o è l'osservanza dei suoi precetti quello che genera l'amore? si domandò Sant'Agostino - E rispondeva: "Colui che non ama non ha motivi per osservare i precetti… Noi osserviamo i suoi precetti affinché egli ci ami, perché, se egli non ci ama, non possiamo osservare le sue parole". Non fummo scelti perché eravamo già buoni, siamo amati affinché riusciamo ad esserlo.
Qui, senza dubbio, sta la radice della nostra incapacità di amare. Non sappiamo amare, crediamo impossibile l'amore per altri, perché non ci sappiamo amati da Dio, perché, sinceramente, non crediamo possibile che Egli, Dio, ci ami. O non ci andrebbero diversamente le cose, pensiamo, se gli importassimo qualcosa, se ci amasse almeno un po'? Questa domanda che tante volte ci siamo fatti, questo dubbio tanto normale, è in realtà una reazione sconsiderata verso Dio. E siccome ci immaginiamo l'amore di Dio secondo quello che da Lui desideriamo e con le forme che crediamo ci convengano, non stiamo sperimentando quanto Egli ci vuole bene, quanto è grande il suo amore; solo perché non capiamo o non accettiamo il suo modo di amarci, ci stiamo privando di sentirci amati. E chi non si sente amato, è inabile ad amare.
Il discepolo di Gesù si sa amato e sa come rimanere in quell'amore: lasciandosi amare dal maestro amico, che ha dato la vita per lui. Lasciando che il suo volere sia il nostro, facendo la sua volontà, non ci allontaneremo dalle sue esigenze, né ci scoraggeremo davanti ad un compito, in apparenza, tanto impossibile come è l'amore fraterno. Dobbiamo dare al mondo di oggi, tanto incredulo nell'amore gratuito, tanto assetato dell'amore facile, senza compromessi che durino né responsabilità che non finiscono, la testimonianza dell'amore possibile, l'amore cristiano, l'amore al quale Cristo obbliga i suoi, perché ce lo ha dimostrato; se non lo diamo, noi che ci sappiamo amati da Gesù fino all'estremo, chi lo farà? Senza dubbio, il nostro mondo, le nostre famiglie, il nostro cuore, stanno rendendoci più egoisti, più inumani, più increduli nell'amore, perché noi, i discepoli amati da Gesù, non diciamo che Dio ci vuole veramente bene e vuole che anche noi in realtà ce ne vogliamo. Non si tratta di sapere se potremo o no, amarci gli uni gli altri, si tratta che Gesù ci ha amati e vuole che ci amiamo: voi siete miei amici, se fate quello che vi comando.
L'amicizia di Gesù si ottiene, dunque, nell'obbedienza alla sua volontà, per utopica ed irrealizzabile che ci sembri. Gesù trova i suoi amici tra quelli che gli sono ubbidienti. Prima di lamentarci della sua mancanza di amore, dovremmo esaminarci se ci manca l'obbedienza. Non può sognare di essere apprezzato da Dio chi non apprezza la sua volontà; non sarebbe logico sperare che Dio si interessi a chi vive disinteressandosi del suo volere; l'amico si distingue perché fa il volere del suo amico; e perché lo fa, conta su di lui, può sentirsi sicuro di lui: l'ubbidiente a Dio non dubita mai del suo amore. Quando dubitiamo dell'amore che Dio ha per noi e sembra che ogni giorno, ogni situazione, ci danno nuove ragioni per dubitare di lui, stiamo confessando la nostra disobbedienza.
Lo sappiamo per esperienza: l'amico infedele, l'amante che non può conservare fedeltà, sono coloro che più normalmente dubitano della fedeltà dell'amato. Succede la stessa cosa nella nostra relazione con Dio: la nostra infedeltà ci porta a sospettare che Dio non ci è fedele. La nostra incapacità di amare il prossimo non ci fa sentire amati da Dio; come l'amico cattivo, giustifichiamo la nostra indifferenza per Dio, accusandolo di indifferenza. Perché gli uomini più ubbidienti a Dio sono anche quelli che si sanno suoi migliori amici? Non dubita di seguire il volere di Dio chi non ha dubitato di compierlo. Tutti abbiamo, dunque, una strada aperta per sentire oggi l'amore che Dio ha per noi: se osservate i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore.
Non basta, dunque, benché è già molto, compiere il suo volere per sentirsi amati da Dio. Gesù distingue tra l'amico ed il servo: ambedue fanno quello che si aspetta da essi, ambedue eseguono gli ordini del loro signore; ma solo l'amico sa le ragioni, solo l'intimo conosce il suo signore, non solo i suoi comandi. Secondo questo, è possibile che siamo, più o meno, ubbidienti, senza che riusciamo a non sentirci mai amici. L'obbedienza che Gesù chiede ai suoi discepoli non è cieca; benché sia molto esigente, non è mai servile. Gesù non converte i suoi amici in servi suoi; il suo amore non l'ottengono quelli che vivono come servi, facendo tutto quello che dice senza sapere bene perché devono farlo. Gesù non vuole avere attorno a lui persone educate che gli ubbidiscono solo perché temono di disobbedirgli; non è un padrone implacabile, bensì il migliore amico: chiede la nostra vita, la nostra obbedienza, perché ha dato la sua vita per noi. Cerca amici che si fidano tanto di lui che osano vivere con libertà quell'amicizia della quale non dubiteranno mai.
Il frutto dell'obbedienza a Dio è l'amore fraterno ed il frutto dell'amore fraterno è la fiducia illimitata nel Dio che ama. Non sappiamo quello che stiamo perdendo, perdendo il nostro tempo in tante occupazioni e con altre preoccupazioni che non sono il compimento della volontà di Dio: i nostri progetti non durano né sono sentite le nostre parole, perché hanno poco a che vedere col volere di Dio. Oseremo vivere dell'amore di Dio amando quelli che Dio ama? Sarebbe la nostra fortuna, perché conta sull'amore di un Dio che non nega al suo prossimo l'amore che gli deve. E sarebbe, anche, la fortuna di Dio, perché vedrebbe che, il suo amore in noi è più forte dell'indifferenza o dell'odio, saremo amici del suo Figlio e meritevoli del suo Amore.

                                                                                    JUAN J. BARTOLOME sdb

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