CIPRIANI SETTIMO SDB"Un profeta non è disprezzato che nella sua patria..."

5 luglio 2015 | 14a Domenica - Tempo Ordinario B | Appunti per la Lectio
Le letture bibliche di questa Domenica mettono in evidenza due costanti drammatiche dell'agire salvifico di Dio e, di riflesso, anche della Chiesa in quanto ne continua la missione di salvezza: per un verso, l'incomprensione e addirittura l'ostilità degli uomini; per un altro verso, il successo di Dio proprio a motivo di questa situazione di smacco e di apparente "debolezza".

Mi sembra che siano emblematiche al riguardo le parole con cui Gesù commenta, con evidente amarezza, il fallimento della sua predicazione nella città di Nazaret: "Un profeta non è disprezzato che nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua" (Mc 6,4); e anche le parole di Paolo, che sono come uno sguardo in retrospettiva per tentare di interpretare la paradossale vicenda della sua missione apostolica: "Quando sono debole, è allora che sono forte" (2 Cor 12,10).

"Figlio dell'uomo, io ti mando a un popolo di ribelli"
Anche la prima lettura si muove in questa prospettiva, quasi per dirci che la storia è di sempre: Dio non ha mai avuto troppo fortuna con gli uomini!
Il brano di Ezechiele, infatti, ci descrive con molta crudezza l'insuccesso della missione del profeta: "Figlio dell'uomo, io ti mando agli Israeliti, a un popolo di ribelli, che si sono rivoltati contro di me... Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito" (2,3-4). L'unica rivincita del Signore sarà quella di continuare ad amarli, nonostante le loro infedeltà: "Ascoltino o non ascoltino, sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro" (v. 5). La presenza di un "profeta" in mezzo a Israele è segno che Dio è ancora fedele al suo patto!
Se poi questo "profeta" è Cristo, vuol dire addirittura che il suo amore è arrivato al vertice più alto. E questo non solo perché Cristo è il "dono" più prezioso dell'amore del Padre, ma anche perché in lui il rifiuto e la "durezza" di cuore degli uomini raggiungeranno il punto più alto di drammaticità e di sofferenza. Amore e infedeltà, purtroppo, si inseguono e si commisurano a vicenda!

"Gesù andò nella sua patria"
È quanto emerge dal brano di Vangelo di Marco (6,1-6) che, con il suo solito stile scarno ed efficace, ci descrive l'insuccesso di Gesù nella sua patria. Una cosa che non sorprende noi soltanto, ma che per primo sorprese lui: "E non vi poté operare nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi ammalati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità" (vv. 5-6).
L'episodio ci viene descritto, con più ampi particolari, da san Luca già all'inizio della vita pubblica del Signore, probabilmente per delineare lo scopo della sua missione. Non per nulla infatti Luca ci dice che, essendo entrato di sabato nella sinagoga, Gesù lesse il famoso passo di Isaia (61,1-2): "Lo Spirito del Signore è sopra di me... e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione...". E al termine commentò: "Oggi si è adempiuta questa Scrittura, che voi avete udito con i vostri orecchi" (Lc 4,21).
In Marco, invece, l'episodio assume, insieme alla collocazione diversa, un significato pure diverso.
Posto subito dopo la "sezione dei miracoli" (4,35-5,43), che è una celebrazione della fede salvifica, come abbiamo ricordato la Domenica scorsa commentando la guarigione dell'emorroissa e la risurrezione della figlia di Giairo (5,21-43), e prima della "sezione" successiva (6,7-8,26) che accentua l'incomprensione delle folle e persino dei discepoli, esso si colloca come un brano di "transizione" che mette a fuoco le difficoltà di un autentico "incontro" con Gesù quando la fede non sia trasparente e disarmata nello stesso tempo.
Guardando le cose da un certo punto di vista, si poteva anche pensare che a Nazaret Gesù avrebbe avuto il massimo successo della sua predicazione: data la conoscenza che i suoi concittadini avevano di lui e dato quel certo pizzico di naturale campanilismo per cui, soprattutto nei piccoli centri, una figura che emerge diventa subito gloria "paesana", tutti avrebbero dovuto aderire al suo insegnamento.
E invece fu il fallimento quasi completo! San Luca, che segue una tradizione notevolmente diversa, ma anche convergente, ci riferisce che i suoi concittadini tentarono addirittura di ucciderlo (4,28-29).

"Molti ascoltandolo rimanevano stupiti"
Come spiegare tutto questo? Perché il naturale orgoglio di scoprire un concittadino illustre si tramuta in gesto di ostilità e sordità spirituale?
La cosa diventa tanto più sconcertante se si pensa che, almeno inizialmente, c'è nei riguardi di Gesù meraviglia e attesa benevola: "Venuto il sabato, incominciò a insegnare nella sinagoga. E molti ascoltandolo rimanevano stupiti e dicevano: "Donde gli vengono queste cose? E che sapienza è mai questa che gli è stata data? E questi prodigi compiuti dalle sue mani?"" (Mc 6,2). Quello che sorprende i suoi compaesani è quello stesso che aveva sorpreso i suoi apostoli poco prima, in occasione della tempesta sedata (cf 4,41), e più ancora le folle, che così esprimevano il loro stupore: "Che è mai questo? Una dottrina nuova insegnata con autorità. Comanda persino agli spiriti immondi e gli obbediscono!" (1,27). Erano dunque colpiti dalla sua "sapienza", che essi ben sapevano che Gesù non aveva imparato alla scuola di nessuno, e dai "prodigi" che sembravano uscire con estrema facilità dalle sue mani.
Quello, però, che negli altri suscitava meraviglia e faceva nascere problemi, ponendo sulla via di una ricerca dello strano "mistero" che si profila nel Cristo e aprendo perciò alla fede, negli abitanti di Nazaret faceva nascere, al di là del primo senso di sorpresa, una strana reazione di rifiuto. E questo non tanto per quella sottile forma di "invidia" che può cogliere talora davanti ad una persona della nostra cerchia che incomincia ad emergere, oscurando gli altri, quanto piuttosto perché non si ritrovavano nelle "indicazioni" che venivano fuori dagli strani fatti che essi potevano verificare in Gesù.

"Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria?"
Tutto questo, infatti, indicava un particolare rapporto del loro concittadino con Dio, forse lo segnalava come Messia.
Ma era mai possibile che uno come Gesù, di cui essi conoscevano le umili origini e tutti i rapporti di parentela, fosse davvero l'inviato di Dio? È di qui che nasceva tutto il loro "scandalo": ""Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Joses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?". E si scandalizzavano di lui" (v. 3).
Ciò che li "scandalizzava" in Gesù non era che egli dicesse e facesse cose grandi, ma che questo avvenisse in uno come lui che i suoi natali, la sua parentela, il suo mestiere, la sua vita di ogni giorno confinavano negli invalicabili confini dell'"ordinario" e del "comune". Non riuscivano, non dico a capire, ma a sospettare che Dio non ha "schemi" prestabiliti davanti a sé e può (anzi vuole) manifestarsi nelle cose e nelle persone semplici.
"La radice dell'incredulità è proprio questa incapacità di accogliere la manifestazione di Dio nel quotidiano, in nome di una sedicente tutela della dignità e del prestigio divini, dove però la dignità di Dio è pretesto per il proprio prestigio. Sarà appunto questa ipocrita pretesa di difendere il prestigio di Dio che porterà il gruppo dirigente giudaico alla condanna di Gesù. Il rifiuto o il disprezzo da parte dei compaesani è solo un anticipo del rifiuto finale. Ma questo corrisponde alla sorte degli inviati di Dio che possiedono lo spirito, i profeti, e Gesù è nella loro linea (cf Lc 13,33-34)".
Questa chiusura e questo sospetto nei suoi riguardi si direbbe che non solo hanno amareggiato Gesù, ma hanno come bloccato ogni sua attività taumaturgica. Infatti egli commenta: ""Un profeta non è disprezzato che nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua". E non vi poté operare nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi ammalati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità" (vv. 4-6).
Dal che si deduce che i "miracoli" non sono da intendere come gesti di potenza per impressionare la gente ed obbligarla, per così dire, a credere, ma piuttosto come "segni" della potenza e della benevolenza di Dio, che soltanto le persone ben disposte possono cogliere nel loro significato di offerta e di amore: più ordinariamente il miracolo presuppone almeno una incipienza di fede.

"La mia potenza si manifesta nella debolezza"
E questo per la ovvia ragione che Dio ama rivelarsi non nello straordinario, ma nell'ordinario, non nella potenza, ma nella "debolezza". Il miracolo più grande, che gli abitanti di Nazaret non hanno quel giorno saputo avvertire, era che Dio si manifestasse nell'umile "figlio di Maria", in quello che fin allora per loro era semplicemente "il carpentiere" del paese (v. 3).
È questa la sfida più grande alla nostra fede, che forse è disposta ad accettare le cose grandi di Dio ma non le piccole, i gesti di potenza di Cristo ma non l'umiliazione e la sconfitta della sua morte di croce.
Eppure tutto il cristianesimo si gioca nell'accettazione di questo paradosso, come ci ricorda meravigliosamente nella seconda lettura Paolo, per il quale pure non è stato facile accettare questa lezione: "Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un messo di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia. A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l'allontanasse da me" (2 Cor 12,7-8).
A prescindere da quello che possa essere "la spina nella carne", e che sembra alludere alle enormi difficoltà incontrate da Paolo nel suo apostolato soprattutto da parte dei Giudei, per noi è interessante la risposta di Cristo alla preghiera implorante dell'apostolo: "Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza" (v. 9).
Dar credito a Cristo nella "quotidianità" delle nostre azioni, non "scandalizzarci" di lui se egli ci appare anche oggi nascosto nei segni della povertà e della molta sofferenza sparsa per il mondo, vivere con serenità in una Chiesa che molti credenti contestano perché non saprebbe compiere i prodigi della "potenza" trasformatrice delle situazioni di ingiustizia e di oppressione in cui molti si dibattono, o non offrirebbe segni eclatanti di santità: questa per me è oggi la lezione che tutti dobbiamo ricavare dalla triste e addolorante ripulsa, che circa duemila anni fa i cittadini di Nazaret fecero nei riguardi di Gesù.

            CIPRIANI SETTIMO

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