Don Giorgio Scatto "Solo l'amore di Cristo può possedermi fino in fondo"

2° Domenica del Tempo Ordinario (anno B)MONASTERO MARANGO CAORLE (VE)
Letture: Gb 38,1.8-11; 2Cor 5,14-17; Mc 4,35-41
1«Se uno è in Cristo è una nuova creatura».
Me la ricordo bene questa parola, perché ha determinato la conversione della mia vita. I lettori mi scuseranno se, allora, parlerò un poco della mia storia, ma lo faccio solo nella speranza di dare concretezza alla Parola della Scrittura.
Molti sapranno degli avvenimenti che segnarono la fine degli anni sessanta del secolo scorso. Era appena terminato il Concilio, nato dalla
profezia di papa Giovanni, che voleva un profondo rinnovamento della Chiesa, affinché fosse in grado di dialogare con la modernità. Anche dal mondo delle università e delle fabbriche, da ogni luogo dove si guardava al futuro con uno sguardo di rinnovata speranza, dilagava come un’onda di piena, un irresistibile movimento popolare e giovanile che premeva a gran voce per il cambiamento rapido delle strutture e delle istituzioni. Non tutto, nella società civile, e anche nella Chiesa, si svolse pacificamente. Il grande urto rischiò di travolgere tutto. Nel nostro Paese ci fu una deriva violenta che causò distruzione e morte, per lunghi anni. Quelli furono chiamati gli anni di piombo. Anche la piccola barca della Chiesa si trovò in mezzo alla tempesta, rischiando di affondare. Le ferite di quegli anni le stiamo ancora curando e molti delitti rimangono tuttora impuniti.
Anch’io, come molti altri, sentivo la necessità di trovare uno sbocco alle mille domande che riempivano la testa e il cuore. Si trattava di trovare nuovi linguaggi, nuovi stili di vita, per annunciare il Vangelo ad un mondo fortemente secolarizzato e attraversato da impulsi contradditori, di vita e di morte. Ma dove andare? Che cosa fare? In mezzo alle onde impetuose anch’io gridavo: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?».

Avevo cercato un approdo nell’esperienza coraggiosa e profetica dei preti operai. L’ambiente della fabbrica mi pareva il nuovo Areopago, dove annunciare, attraverso l’umile testimonianza del lavoro, l’evento del Regno e la predilezione di Dio per i poveri. Ma quel mondo, dove si scontravano paure e speranze, mi parve non rispondere pienamente alla mia domanda e alla mia ricerca. Andai oltre.
Allora nascevano, e si imponevano per la loro novità e forza, i nuovi movimenti nella Chiesa. Erano certamente suscitati dallo Spirito, ma talvolta mi sembravano una grande tempesta di vento, che rischiavano di travolgere con il loro peso la fragile barca nella quale eravamo saliti per compiere la traversata. Notavo in alcuni di loro la medesima violenza – almeno concettuale e verbale – che si poteva registrare in certe realtà politiche, allora molto determinate a provocare nella società un cambiamento radicale. Osservavo la medesima organizzazione, talvolta il medesimo linguaggio, sempre il medesimo scopo, che era l’egemonia nella società e nella Chiesa. Questo vento impetuoso mi faceva paura.
Rimanevano ancora i monasteri. Queste antichissime istituzioni, presenti nella Chiesa da più di un millennio, le cui radici affondavano negli inizi carismatici dell’esistenza cristiana, sembravano stare lì, come un sicuro baluardo, di fronte alla frantumazione velocissima dei valori della tradizione, e alla perdita di un progetto comune di società e di Chiesa. Ricordo il motto dei certosini: “Stat crux, dum volvitur orbis”: il mondo può anche girare vorticosamente, ma noi rimaniamo ben saldi, attaccati alla croce. Un bellissimo programma, ma come imprigionato dentro una struttura irreformabile, che non desiderava, nel modo più assoluto, ascoltare la mutazione dei tempi e le nuove lingue parlate dagli uomini.

Nel vortice di questi pensieri tempestosi, mi trovai a vivere per un certo tempo in una piccola comunità monastica francese, nel cuore della foresta delle Lande, in prossimità dell’Atlantico. La giornata era segnata dal ritmo regolare della preghiera e dal duro lavoro di taglialegna, nel bosco. Il silenzio regnava sovrano, in una casa di legno dove non arrivava mai nessuno. Di giorno in giorno la paura mi assaliva sempre di più, «le onde si rovesciavano sulla barca, tanto che ormai era piena». Mi pareva di affogare. E il Signore zitto, come se non gli importasse nulla di me, che mi stavo perdendo in un mare profondo.
Un giorno andammo nel bosco, con l’ascia in spalla, anche se pioveva molto forte. La pioggia mi sferzava il viso, già abbondantemente segnato da lacrime di rabbia: che senso aveva quella traversata, che non avrebbe mai visto l’approdo all’altra riva? E dove ancora dovevo cercare, per trovare una risposta alla mia inquietudine? Avrei dovuto, forse, rinunciare a tutto, anche al dovere di cercare la via stretta del Vangelo, in un mondo che non era più quello di prima? Improvvisamente, senza mai averla memorizzata, mi riempì il cuore una parola: «Se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco ne sono nate di nuove». Le lacrime di rabbia divennero lacrime di gioia. E gli alberi del bosco caddero più velocemente sotto i colpi della mia ascia, come se avessi ritrovato nuovo vigore.
Alla sera andai a cercare nelle lettere paoline quella frase. La trovai nella seconda lettera di Paolo a Corinzi, capitolo cinque, versetto diciassette. E’ impressa nella mia memoria come un atto di nascita. Come un tatuaggio sul cuore.

«Se uno è in Cristo». Non si trattava più di cercare qui o là, dentro una fabbrica, tra le mura antiche di un monastero o nell’abbraccio avvolgente di un movimento ecclesiale. Solo l’amore di Cristo poteva possedermi fino in fondo. «Egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro».
«E’ una nuova creatura». L’essere nuovi non può dipendere dall’abito che indossi: una tuta da operaio o una cocolla monastica o la sicurezza che ti dà l’appartenenza ad un movimento forte e vincente. La novità si trova nel nascere come nuove creature: «Quello che è nato dalla carne è carne, e quello che è nato dallo Spirito è spirito».(Gv 3,6).
«Le cose vecchie sono passate». Anche la rivoluzione può essere vecchia; anche un documento papale di grande apertura, anche un progetto pastorale innovativo e coraggioso possono essere vecchi. Ogni parola, appena pronunciata, è già morta. Solo se dimoriamo in Cristo, il Vivente, colui che è ieri, oggi e sempre, viviamo nel presente di Dio, lasciandoci alle spalle le cose vecchie: «Corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento» (Eb 12,2).
«Ecco, ne sono nate di nuove». Chi vive in Cristo non può più sopportare le cose vecchie: non solo tutto ciò che chiamiamo peccato, ma anche tutte le sue materializzazioni e concentrazioni storiche: violenza, corruzione, guadagni illeciti, abuso sulle persone, alleanze con forze fino ad ieri avverse, pur di arrivare a ottenere riconoscimenti e poteri. Le cose vecchie sono anche il rifiuto di accogliere il fratello in difficoltà, da qualunque parte giunga fino a te. Le cose nuove sono la faticosa impresa, che impegna testa e cuore, di far spazio, accanto e insieme a te, ad una umanità finora sconosciuta che diventa improvvisamente vicina e prossima. Chi, in Cristo, è una nuova creatura, riceve forza dallo Spirito per edificare la novità del Regno: giustizia, pace, salvaguardia del creato, misericordia, perdono, accoglienza del debole, condivisione della vita con gli umiliati della terra.
Mi rendo conto che, come Chiesa, dobbiamo sempre di nuovo annunciare la novità, che è solo in Cristo Gesù, nostro Signore. Il resto, ed è molto, viene da sé.
Giorgio Scatto

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