JUAN J. BARTOLOME sdb LECTIO DIVINA Corpus Domini

7 giugno 2015 | 10a Domenica: Corpus Domini- T. di Pasqua B | Lectio Divina
LECTIO DIVINA: 14,12-16.22-26
Il racconto della celebrazione pasquale di Gesù coi suoi discepoli, prima della sua morte, è il certificato di nascita dell'eucaristia cristiana: l'iniziativa parte da Gesù ed i suoi discepoli seguono le sue istruzioni nella preparazione. Il dettaglio non è insignificante:
alla mensa di Gesù non è commensale chi vuole, bensì chi vi è invitato; ma l'invito non esime dallo sforzo di preparazione. Già nella cena, la consegna del pane e del vino, riassumono quello che è successo, è interpretata come consegna della propria vita come alleanza nuova; il ricordo si concentrò sulla cosa essenziale: non fu la convivenza con Gesù, bensì la sua volontà di morire per coloro che condividevano la sua mensa quello che si fece a memoria, oggetto, e motivo di gratitudine perpetua. Le nostre eucaristie che nacquero dalla consegna di Gesù per molti, dovrebbero essere preparate e celebrate con la consegna della propria vita: la memoria eucaristica non è fedele, se non si ripetono i gesti eucaristici: avere a disposizione Cristo suppone, ed obbliga a mettersi a disposizione dei cristiani, in corpo ed anima. Solo così renderemo credibili le nostre celebrazioni.

12Il primo giorno degli Azzimi, quando si sacrificava l'agnello pasquale, dissero a Gesù i suoi discepoli:
"Dove vuoi che ti prepariamo la cena di Pasqua?"
13Egli inviò due dei discepoli, dicendo loro:
"Andate in città, troverete un uomo che porta un'anfora di acqua; seguitelo 14e, nella casa in cui entra, dite al padrone: "Il Maestro domanda: Dove è la stanza per mangiare la Pasqua coi miei discepoli?" 15vi indicherà una sala grande al piano di sopra, sistemata con dei divani. Preparate lì la cena."
16I discepoli andarono, arrivarono in città, trovarono quello che aveva detto loro e prepararono la cena di Pasqua.
22Mentre mangiavano, Gesù prese il pane, pronunciò la benedizione, lo spezzò e glielo diede, dicendo:
"Prendete, questo è il mio corpo."
23Prendendo una coppa, pronunciò l'azione di grazie, gliela diede, e tutti bevvero. 24E disse loro:
"Questo è il mio sangue, sangue dell'alleanza, sparso per tutti. 25Vi assicuro che non berrò del frutto della vite fino al giorno che beva il vino nuovo nel regno di Dio."
26Dopo avere cantato il salmo, uscirono verso il monte dagli Olivi.

1. LEGGERE: Capire quello che dice il testo e come lo dice

Dopo avere presentato nel primo giorno del soggiorno a Gerusalemme (Mc 14,1-11) la posizione di tre gruppi di fronte a Gesù (14,1-2.3-9.10-11), l'evangelista apre una nuova giornata (Mc 14,12), nella quale situa tre episodi che hanno i suoi discepoli come destinatari unici, e la cena pasquale come ambienti e motivo (Mc 14,12-16: preparativi; Mc 14,17-21: annuncio del tradimento; Mc 14,22-25: ultima cena). Gesù che si prende la responsabilità di preparare la cena comune, partecipa come il giusto che uno dei suoi amici tradirà. E sapendolo in anticipo, anticipa la sua donazione con gesti e parole.
Il testo che la liturgia ci offre omette la predizione del tradimento; rimane così centrato nella celebrazione della cena. Benché si dia ovviamente il carattere pasquale del cibo (Mc 14,12.16) questa non si narra; neanche si menziona l'agnello che è l'elemento basilare della cena pasquale. Si ricordano solo due episodi che hanno a che vedere con la cena.
Nel primo (Mc 14,12-16) l'iniziativa parte dai discepoli; ma Gesù agisce come autentico signore degli avvenimenti: conosce in anticipo e precisione quello che succede; più che anticiparlo, ha influenza sulla sua realizzazione. La passione di Gesù è compimento della volontà di Dio; così si supera, teologicamente, lo scandalo della croce. In sé stesso, l'episodio presenta una certa tensione interna: alla domanda di tutti i discepoli di dove vuole preparare la sua cena pasquale (Mc 14,12), Gesù risponde e comanda a due di essi di andare al posto preciso per mangiare la festa con essi (Mc 14,13-14) che saranno concordi come quei dodici (Mc 14,17). Se ai discepoli preoccupava la cena di Gesù, egli indicherà loro come andare ad un posto per mangiare con essi, la casa dove dopo si riunirà la comunità primitiva (Atti 1,13).
Richiama l'attenzione, il fatto che Marco abbia dettagliato la preparazione dell'ultima cena; è una forma, allusione efficace, di sottolineare l'importanza di quel cibo comune. Gesù cammina deliberatamente verso la sua morte: entra a Gerusalemme (Mc 11,1-4) e prepara la sua ultima cena (Mc 14,12-16) affrontando, sovrano, agli avvenimenti; li domina tanto quanto da poterli predire. La sua fine cruenta non fu un evento accidentale né un fallimento personale. I discepoli sono condotti da Gesù: chiedono istruzioni (Mc 14,12) e li compiono (Mc 14,16), finché la croce ed il dolore stanno fuori delle loro vite. Egli vuole mangiare coi suoi discepoli e passare con essi l'ultimo pomeriggio della sua vita.
La cronaca dell'istituzione della cena (Mc 14,22-26), il secondo episodio del nostro testo, ha una chiara formulazione: una breve introduzione (Mc 14,22) cede il passo al racconto dell'istituzione (Mc 14,22b-24), al quale segue una sentenza di tipo escatologico (Mc 14,25) e la conclusione (Mc 14,26). L'istituzione della cena si realizza come un gesto di Gesù (Mc 14,22b.23a), interpretato da lui (Mc 14,22c.24-25). È l'ultima di una serie di cene coi discepoli e parabola di quella che sarà la definitiva: la comunità di vita, celebrata ora in anticipo e già promessa, ha davanti a sé qualche prova da superare (Mc 14,26-31).
Marco deve alla tradizione questo breve racconto che ha ritoccato lievemente, riducendo la descrizione dell'ultima cena di Gesù al racconto della sua istituzione, posizionato molto significativamente tra l'annuncio del tradimento (Mc 14,18-21) e l'annuncio del rinnegamento (Mc 14,27-31). Tutta la cronaca è concentrata nell'azione di Gesù o, meglio ancora, nel senso che Gesù stesso dà alla sua azione (Mc 14,22.24). Che Gesù interpreti bene la sua azione concorda con lo scenario: la festa ebrea era una cena rappresentata; ma, a differenza della cena che rilegge l'esodo dell'Egitto, il racconto dell'istituzione anticipa il senso di quanto sta ancora per succedere, la passione e morte di Gesù, identificando il pane ed il vino del banchetto, col corpo e sangue di Gesù che, aggiunge, è stato versato per molti. Cenare nuovamente con Gesù sarà solo possibile nel regno.

2. MEDITARE: APPLICARE QUELLO CHE DICE IL TESTO ALLA VITA

Corpus Christi era, secondo un'antica tradizione, un giorno caro, specialmente per la dimostrazione pubblica della fede. Chi di noi non ha partecipato qualche volta ad una processione eucaristica o non ha accompagnato un parente nella sua prima comunione in un giorno come oggi? In forma semplice, la Chiesa ha saputo unire la confessione della presenza reale di Cristo nell'Eucaristia con la celebrazione della vita del paese o della propria famiglia. Così, e con non poca riuscita, ha segnalato che è la vita stessa dell'uomo credente il miglior posto ed il motivo migliore per l'adorazione del mistero del Corpo di Cristo: celebrando alla luce del giorno, irrompendo nel viavai delle nostre strade, venerandolo pubblicamente, la comunità cristiana ha la sicurezza di avere Dio in mezzo a lei e testimonia la fede davanti al mondo della presenza di Dio in mezzo ad essa. E non è poco, di questi giorni.
Questa è la nostra fede, quella di quanti crediamo nella presenza di Cristo nel pane e nel vino eucaristici. Ma, è anche la nostra esperienza quotidiana? Quello che diciamo di credere, è ugualmente quanto viviamo giornalmente? Come è possibile, allora, se confessiamo la presenza reale di Gesù nell'Eucaristia che siamo dispiaciuti di non potere o, peggio ancora, di non sapere trovarlo nella nostra realtà quotidiana? Non è casuale che i nostri lamenti più frequenti che abbiamo per l'assenza di Dio, coincidano con la nostra assenza, ogni giorno più frequente, dall'eucaristia, dalla sua celebrazione comunitaria e dalla sua accoglienza personale; non è logico che chi ha lasciato di frequentare il suo Dio si lamenti di non sentire la sua vicinanza o, quello che sarebbe ancora più ingiusto, osi accusarlo di averlo abbandonato. Non basta sapere che abbiamo Cristo a nostra disposizione nell'Eucaristia, a portata del nostro cuore, se continuiamo a perdere questa occasione per avvicinarlo alla nostra vita ed ai nostri problemi. Non basta credere che abbiamo il corpo di Cristo ed il suo sangue come nostro alimento corporale, se continuiamo a trovare piccole scuse per non approfittare dell'opportunità di mettere Dio non nel nostro mondo esterno bensì nel nostro interno.
La dimenticanza o la poca stima del Corpo di Cristo con cui viviamo la nostra vita giornaliera la pagheremo - lo stiamo senza alcun dubbio pagando - con la dimenticanza ed il disprezzo del nostro Dio: chi non stima il dono ricevuto, non può sentirsi apprezzato dal Donatore; detto con altre parole, per avere perso il rispetto, la venerazione per il Santissimo Sacramento, non ci stiamo meritando il rispetto e le attenzioni di nostro Signore Gesù Cristo; per esserci allontanati dalla pratica della comunione frequente, Dio si è allontanato praticamente da noi: non potevamo pagare più caro il disinteresse per il Corpo di Cristo con il quale viviamo la nostra fede! E così, siamo noi, i credenti nella presenza reale di Cristo in questo mondo attraverso la sua presenza nel pane e nel vino, che più e meglio contribuiamo ad accrescere la sensazione dell'assenza di Dio in lui: chi celebra Cristo rimasto tra noi, a nostra disposizione, alla nostra portata, sotto le specie del pane e del vino, ed è quello che celebriamo oggi noi cristiani, si deve convertire per forza in testimone di quella presenza speciale di Dio. Chi assisteste all'Eucaristia, sa che Dio rimane nel cuore del mondo, come suo alimento e sua speranza.
Non basta, dunque, che oggi noi proclamiamo la transustanziazione del pane e del vino in Corpo e Sangue di Cristo, e lo celebriamo come un mistero di rendimento di grazie a Dio, è necessario che ci convertiamo noi in testimoni di quella presenza, con le nostre vite e con la nostra parola. Il miracolo che confessiamo ci impone il compito della sua proclamazione: nessuno ha diritto a sentirsi defraudato di un Dio che volle rimanere con noi convertito in pane e vino; nessuno può lamentarsi di un Dio che ci è tanto vicino, tanto familiare, tanto alla mano, come lo è il pane ed il vino della nostra tavola.
Il saperlo ha delle conseguenze: finché intorno a noi c'è chi non trova Dio, non possiamo accontentarci di averlo trovato noi personalmente; le nostre eucaristie non saranno autentiche fino a che non siano eucaristia, incontro gioioso con Dio, per chiunque ha fame e sete di Lui: il pane eucaristico non sarà corpo di Cristo, finché mancano dei membri che gli appartengono, né sarà alimento di vita finché scarseggiano commensali al suo tavolo. Quando ci avviciniamo a Cristo nell'Eucaristia dovremmo domandarci non solo se andiamo ben preparati al suo incontro, ma anche se, con noi, vanno tutti quelli che Cristo sta aspettando; sarebbe tragico che usassimo più tempo ad esaminarci sulle nostre mancanze, piccole molte volte ed inevitabili quasi sempre, che ad incolparci perché mancano alla nostra eucaristia alcuni dei nostri; una buona preparazione per ricevere Gesù sacramentato non può finire quando proviamo che non abbiamo niente di grave o di che cosa rimproverarci, ma deve incominciare esaminandoci se consideriamo fratelli tutti quelli che condivideranno con noi il corpo di Cristo.
È significativo che Gesù, quando volle cenare coi suoi discepoli, ha chiesto a due di essi di trovare un posto ed una famiglia dove celebrare la cena pasquale: Cristo non è rimasto nell'eucaristia per uso ed usufrutto di pochi; chi celebra la sua volontà di rimanere presente nel pane e nel vino, deve dedicarsi a trovare commensali di quel pane. Condividere l'Eucaristia, comunicare con Cristo, significa, dunque, tornare agli uomini per fargli scoprire che la loro sete e fame, solo Dio può soddisfarli; dove ci sia angoscia, pena, necessità, solitudine o morte, lì si farà l'invito per venire a ricevere Cristo Eucaristia; nessuno che abbia frequentato Cristo deve evitare l'uomo necessitoso; chi ha sperimentato l'amore concreto di Dio, un amore fatto pane di grano, non deve allontanarsi da quanti hanno bisogno di amore concreto, di alimento per la sua necessità corporale e spirituale. Le nostre città, le nostre case, saranno posti per l'incontro con Dio, se nei nostri cuori abbiamo trovato il prossimo che ha bisogno di noi: il Dio che è in un pezzo di pane, è anche nel nostro cuore, se da lui sentiamo la necessità per gli altri. Questo è il prezzo e la condizione che ha messo per la sua venuta.
Corpus Christi è, di conseguenza, il giorno della carità fraterna. Non basta ringraziare Dio per il dono che ci ha fatto nell'Eucaristia; dovremmo, piuttosto, domandarci a che cosa ci servono le eucaristie nelle quali comunichiamo se non riescono a metterci al servizio dei più necessitosi. Non è comprensibile che chi, come noi, si apre tanto frequentemente a Dio, si chiuda con la stessa frequenza al suo prossimo; arrivare ad avere Cristo nella propria vita, deve renderci pieni di amore coi fratelli; non possiamo soddisfare la nostra necessità di Dio, lasciando insoddisfatta la necessità che hanno di noi coloro che non hanno tanto, materialmente o spiritualmente, come noi: coloro che non credono nell'amore di Cristo presente nell'Eucaristia, crederanno solo se vedono che chi comunica con Cristo si prende cura di quanti hanno bisogno di lui. Dalla pietà e dalla pratica giornaliera dell'amore fraterno dipende che il mondo creda nell'amore di Cristo.
                                                                                    JUAN J. BARTOLOME sdb

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