Don Giorgio Scatto "La forza salvifica di Dio si mostra nella debolezza mortale del Figlio "

14° Domenica del Tempo Ordinario (anno B) MONASTERO MARANGO CAORLE (VE)
Letture: Ez 2,2-5; 2Cor 12,7-10; Mc 6,1-6
1«La forza si manifesta pienamente nella debolezza».
Quella di Paolo è una affermazione che rovescia completamente tanti nostri pensieri e tante nostre sicurezze, anche religiose. Noi continuiamo a credere che Dio debba manifestarsi attraverso eventi straordinari, portatori di una tale potenza da costringere l’uomo a piegare la schiena davanti a lui. E’ la convinzione che attraversa molte pagine delle
Scritture antiche e che permane ben radicata anche nel cuore dei discepoli di Gesù. E’ il motivo per cui molti, sentendosi schiacciati da tale imponente presenza, si allontanano verso lidi più rasserenanti e accoglienti. Gesù, invece, smentisce categoricamente questa visione di Dio: uomo come noi, discende liberamente nell’abisso e nella umiliazione della morte, per far morire ogni falsa immagine della divinità, e mostrarci, attraverso la sua persona totalmente donata all’uomo peccatore e sofferente, quale sia il vero volto di Dio. La forza salvifica di Dio si mostra nella debolezza mortale del Figlio. Il Padre innalzerà questa debolezza, rivestendola della sua gloria.

La ‘discesa’ di Gesù fino agli inferi è ciò che anche Paolo ha sperimentato nella sua vita di discepolo del Signore. Parla infatti di «una spina nella carne», per non montare in superbia. Molti hanno pensato che si trattasse di umilianti tentazioni contro la castità. Altri alle continue persecuzioni mosse contro di lui, soprattutto da coloro che un tempo appartenevano, come lui, alla sinagoga. Altri ancora a qualche grave e persistente malattia. Qualunque possa essere questa «spina nella carne», essa è un richiamo all’umile e assoluto abbandono in Dio, la cui potenza si esprime proprio nella debolezza dell’uomo e degli strumenti da lui messi in campo. Dovremo chiederci piuttosto se il nostro desiderio profondo è rivolto verso ciò che gratifica e rassicura attraverso la spettacolarità dei prodigi e dei miracoli, o se invece è orientato verso la faticosa ricerca dei segni della presenza di Dio, che opera nella piccolezza e nella quotidianità dei giorni feriali. Mi chiedo: nell’ordine della fede e della carità, è un segno più grande il sole che gira vorticosamente nel cielo - come raccontano che talvolta avvenga presso qualche famoso santuario - o il fatto che una famiglia decida di accogliere in casa un anziano solo, un bimbo privato dell’affetto dei genitori, un profugo che fugge dai terribili teatri della fame e della guerra? Dove Dio si manifesta con maggior potenza?

«Mi vanterò volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Dio».
Normalmente ci si vanta di noi stessi, dei nostri successi, delle nostre imprese. Paolo invece ci insegna ad essere orgogliosi delle nostre fragilità, perché proprio esse diventano il terreno sul quale Dio edifica la sua stabile dimora. La debolezza non diventa forza, e noi porteremo sempre i segni delle nostre fragilità, siano esse fisiche o morali o psichiche. Ma su questa nostra terra, talvolta così arida e inospitale, Dio viene ad abitare, e il nostro abito di lutto si trasforma in veste nuziale; dove prima c’era il pianto, ora si odono grida di gioia. Non siamo più soli, ma un Dio ci ha cercato e ci ha amato.

Gesù è venuto con i segni della debolezza. E’ «il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Joses, di Giuda e di Simone». Non ha avuto l’opportunità di frequentare scuole particolari, se non le modeste sinagoghe del villaggio. Non ha conseguito dottorati in teologia, anche se gli viene riconosciuta una sapienza non usuale presso i rabbini. Ha una notevole autorità morale ma, paradossalmente, proprio questo fa paura. Ci si scandalizza del fatto che una persona che viene dal popolo, uno di noi, possa essere portatrice di parole di sapienza, possa avere ‘visioni’ che oltrepassano all’infinito i nostri angusti modi di vedere e i nostri orizzonti troppo limitati.
Da dove gli vengono queste cose?
La domanda è giusta, ma non viene tenuta aperta. Si preferisce chiudere Gesù in categorie conosciute, che mettono in sicurezza i nostri dubbi e le nostre inquietudini. Il povero è un povero, e basta. Uno straniero è uno straniero, e non facciamo discorsi troppo complicati. Da un ammalato, da un anziano, occorre stare lontano, perché non si sa mai. Uno diverso da noi rimane prigioniero della sua diversità. E noi ci chiudiamo a chiave dentro le nostre piccole stanze mentali, soffocando in una prigionia ancor più asfissiante. Abbiamo fretta di chiudere i problemi fastidiosi e le nuove interrogazioni che nascono dalla vita, usando l’antico ed elementare vocabolario in nostro possesso, senza preoccuparci di trovare altre parole, di cercare altri linguaggi per descrivere e interpretare ciò che sta accadendo intorno a noi.

«Non è costui il falegname?»
Abbiamo bisogno di incasellare tutto, sospinti dalle nostre paure, dalla nostra necessità di semplificare ciò che in realtà è complesso, di mettere in ordine ciò che sfugge al nostro controllo. Abbiamo bisogno di presidiare i confini, non solo geografici, ma culturali, morali, spirituali, per paura che qualcuno ci invada, e minacci la nostra già fragile e indistinta identità: noi siamo questi e loro non sono niente; noi siamo gli eredi di una grande civiltà, di una religione imponente nei suoi dogmi e nel suo culto, e loro sono stranieri, extracomunitari, portatori del nulla. Distinguere, fare opera di discernimento, appartiene all’azione creatrice di Dio. Classificare, attraverso un giudizio sommario, è come uccidere. E’ l’opposto del desiderare. Il desiderio è tenere aperta una ferita, ma è anche lasciarsi interrogare da quelle che riteniamo presenze scomode e indesiderate. «La radice dell’incredulità è proprio questa incapacità di accogliere la manifestazione di Dio nel quotidiano» (R. Fabris). Troppo spesso quelli che chiudono la porta all’altro, alla novità recata dall’altro, sono proprio quelli che spalancano gli occhi di fronte ad una religiosità immaginifica e trionfante, che profuma di incenso ma che non è impregnata dal sudore e dalle lacrime dei poveri.
«Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria».
Il profeta è inviato non per fare discorsi, ma per annunciare la Parola. «Ascoltino o non ascoltino, sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro». Ma la mancanza di fede impedisce anche a Dio di operare. L’incredulità è come un muro innalzato tra Dio e la sua creatura, una montagna che nessuna potenza divina può scalare. Nemmeno Gesù, il Figlio di Dio, se l’uomo gli oppone la sua libertà, può ancora operare. Ma il limite non è suo. E’ il limite imposto dalla chiusura e dalla diffidenza dei suoi concittadini. Sarà l’ultima volta, nel vangelo di Marco, che Gesù insegna in una sinagoga. D’ora in poi sceglierà di essere profeta itinerante lungo tutte le strade della Galilea.
E’ tempo di andare.
Giorgio Scatto

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