CIPRIANI SETTIMO SDB"Dal di dentro, cioè dal cuore degli uomini", esce il male"

30 agosto 2015 | 22a Domenica - Tempo Ordinario B | Appunti per Lectio
Dopo la lunga interruzione della trama narrativa di Marco, sostituito, per quanto riguarda il racconto della moltiplicazione dei pani, dal testo molto più ricco di Giovanni (6,1-69) che ci ha tenuti impegnati per ben cinque Domeniche, oggi ritorniamo al secondo evangelista e ci imbattiamo in un brano molto vivace e ricco di significato (7,1-8a.14-15.21-23). Peccato, però, che per renderlo più unitario, e forse anche più comprensibile, si siano
operati dei tagli che, di fatto, attenuano la sua forza "innovativa" e davvero "rivoluzionaria" in rapporto al pigro e tradizionalista ambiente giudaico, qui preso di mira.
In realtà, pur essendo collegate fra di loro, le pericopi contenute in questo brano sono due: la prima ci riporta la disputa sulle "tradizioni" farisaiche (7,1-13), la seconda l'insegnamento sul "puro e l'impuro" (7,14-23) che dalla prima, di fatto, prende spunto. E ognuna delle due pericopi, ovviamente, ha un messaggio da trasmettere: però nella disposizione liturgica attuale mi sembra che si voglia privilegiare il messaggio della seconda pericope, che cioè il bene e il male non sta nelle cose, o nei riti, ma nel "cuore" dell'uomo, il quale perciò viene ricollocato al centro dell'annuncio evangelico, come diremo meglio nel seguito del commento.

"Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi?"
Siamo dunque in un contesto di "disputa", che ci rimanda al clima delle "controversie" già precedentemente descritte (Mc 2,1-3,6): non è facile per gli avversari di Cristo, che qui sono rappresentati dai farisei, comprendere il senso delle sue azioni e il mistero della sua vita; ma neppure per i suoi apostoli, ai quali pure Gesù rivolgerà il suo rimprovero: "Siete anche voi così privi di intelletto?" (7,18).
Il pretesto per l'accusa, rivoltagli dai farisei e dai loro scribi, venuti appositamente da Gerusalemme (v. 1), questa volta è costituita dal fatto che essi vedono che "alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani immonde, cioè non lavate" (v. 2). Di qui la loro domanda al Maestro: "Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani immonde?" (v. 5).
Come si vede, essi pongono come misura del bene e del male non tanto la "volontà" di Dio quanto la "tradizione degli antichi", cioè quell'insieme di precetti e di pratiche che i rabbini avevano aggiunto alla legge di Mosè, pretendendo che provenissero per via orale dal grande legislatore. Ce ne dà ampia conferma lo storico Giuseppe Flavio: "Essi (i farisei) hanno trasmesso al popolo numerose prescrizioni, avendole ereditate dalla dottrina dei padri, le quali non si trovano scritte nella legge di Mosè".
Nella sua risposta (vv. 6-8) Gesù non affronta direttamente il problema della "purità" rituale (ciò che farà nella seconda parte), ma la questione di fondo: il rapporto fra tradizione umana e volontà di Dio. È un problema che si poneva acutamente nel contesto religioso in cui Gesù viveva: ed è un problema che si pone acutamente anche oggi a tutti i credenti.

"Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me"
La polemica di Gesù contro le "tradizioni" giudaiche, che tendevano più a imbalsamare il vero senso religioso che a farlo sviluppare, è violenta.
Egli le condanna per un doppio motivo: prima di tutto perché, essendo le "tradizioni" costumi che si affermano in una determinata società, finiscono per condizionare i comportamenti degli appartenenti a quella rispettiva società, sia essa civile che religiosa. Si agisce in quella maniera, perché tutti fanno così e non per i "motivi" che, all'origine, possono anche aver fatto nascere legittimamente quella tradizione. In tal modo, il comportamento diventa piatto, formalistico, ipocrita, "farisaico" appunto. È quanto Gesù rinfaccia ai suoi avversari quando li chiama "ipocriti", applicando a loro il detto di Isaia (29,13): "Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano essi mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini" (7,6-7).
L'ultima parte della citazione di Isaia contiene il secondo e anche più grave motivo, per cui Gesù condanna le "tradizioni" degli anziani: esse non sono altro che "precetti di uomini", ai quali però quelli che li hanno introdotti dànno valore più che se venissero da Dio! Ecco, infatti, come Gesù continua: "Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini" (v. 8). A questo punto è chiaro che siamo davanti al sovvertimento del disegno di Dio: col pretesto di volerne rafforzare l'autorità e di volerne chiarire meglio la volontà anche nei dettagli della vita, si finisce per calpestarla sostituendovi il capriccio dell'uomo.
È quanto Gesù esemplifica con riferimento alla legge del qorbàn, che di fatto permetteva ai figli di "svuotare" il senso del quarto comandamento "Onora il padre e la madre" (Es 20,12). Infatti, con la consacrazione per voto dei propri beni a Dio (in aramaico qorbàn), il figlio veniva esonerato dall'obbligo di assistere materialmente i propri genitori, perché le cose offerte a Dio erano ormai intoccabili (Mc 7,8-13).
Gesù dunque smaschera le insidie della "tradizione" farisaica, facendone vedere il rischio formalistico e anche di alterazione dei dati della fede e della morale, appellandosi ad un criterio più alto della tradizione, cioè alla "volontà" di Dio espressa nella sua "parola", che non è riducibile a nessuna formalizzazione umana.
È inutile dire che il pericolo del formalismo "farisaico" è all'agguato nel cuore di ognuno di noi, così come il rischio di un "tradizionalismo" fiacco, senz'anima, che ripete vecchie formule (magari anche ortodosse!) senza però avvertirne tutta l'apertura al nuovo, appunto perché la verità è inesauribile. Certi fatti dolorosi, anche nella vita della Chiesa, stanno a dire l'attualità di questa pagina di Vangelo.

"Non c'è nulla fuori dell'uomo che possa contaminarlo"
Abbiamo detto sopra che l'attuale disposizione liturgica del brano sembra privilegiare il messaggio spirituale della seconda pericope, relativa al puro e all'impuro. È a questa che adesso vogliamo rivolgere la nostra attenzione.
Dopo aver qualificato l'accusa rivolta ai suoi discepoli, perché non si lavavano le mani prima di mangiare, come "tradizione" umana e perciò non vincolante, Gesù spiega prima alla folla (vv. 14-15), e poi più chiaramente ancora ai suoi discepoli (vv. 17-23), come tutto il bene e il male risiede nel "cuore" dell'uomo, cioè nel nucleo più intimo della sua personalità, là dove si maturano tutte le scelte libere e coscienti che ognuno di noi fa. In tal modo anche il problema della "tradizione" veniva ulteriormente ridimensionato: nella misura in cui essa è "responsabilmente" accettata e vissuta, può essere essa stessa un bene o un male, e non perché viene ripetuta meccanicamente e senz'anima.
"Ascoltatemi tutti e intendete bene: non c'è nulla fuori dell'uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall'uomo a contaminarlo..." (vv. 14-15.21-23).
Le parole iniziali con cui Gesù richiama l'attenzione su quanto sta per dire, ne sottolineano l'importanza. E in realtà sono parole innovatrici e in un certo senso rivoluzionarie, perché riducono tutta la vita religiosa e morale alla "realtà" dell'uomo, che vale soprattutto per gli atteggiamenti autentici che fioriscono dalla sua interiorità, cioè dal suo "cuore": certo, l'uomo può anche mentire, ma non nel suo "cuore", cioè davanti al più intimo di se stesso e a Dio che ci "scruta"! Qui almeno è costretto ad essere sincero.
Non sono dunque le cose "esterne", come i cibi, e neppure certi riti mal fatti o non osservati, che rendono l'uomo "impuro", cioè inabile all'incontro con Dio, ma è il rapporto che l'uomo stabilisce con le cose a decidere della sua posizione davanti a Dio: questo sta a significare che egli non dovrà mai farsi asservire dalle cose o distorcere le cose dai loro fini, perché in tal modo egli si disperde, si "esteriorizza" nelle cose, si "aliena", come oggi si dice. Al contrario, "sono le cose che escono dall'uomo a contaminarlo", a renderlo inabile alla comunione con Dio. E Gesù fa un elenco piuttosto dettagliato delle cose "cattive" che escono "dal cuore degli uomini": siano esse pensieri o desideri cattivi, oppure azioni cattive che però, prima, sono già state consumate nell'interno dell'uomo.
Riportando tutto all'uomo e alla sua interiorità, Cristo lo restituisce alla sua dignità e alla sua integrità: d'altra parte, se il destino dell'uomo si consuma nel suo interno, cioè nel suo "cuore", allora la sua "libertà" diventa qualcosa di veramente decisivo e non può "giocarsi" con troppa facilità! Perché anche la "libertà" dell'uomo deve essere "liberata" dal pericolo di diventare essa stessa una forma di "schiavitù". E Cristo soltanto può compiere questa liberazione!

"Israele, ascolta le leggi e le norme, perché viviate"
Strano a dirsi, ma vero: la "liberazione" operata da Cristo si attua "anche" attraverso la "legge", considerata però non tanto come un insieme di regole vincolanti, quanto come un "dono" dell'amore di Dio, che in certi precetti manifesta la sua volontà di salvezza.
È quanto troviamo nella prima lettura, ripresa dal Deuteronomio, che ci riporta un piccolo brano di un discorso attribuito a Mosè: "Ora dunque, Israele, ascolta le leggi e le norme che io vi insegno, perché le mettiate in pratica, perché viviate... Osserverete i comandi del Signore... e li metterete in pratica, perché quella sarà la vostra saggezza e la vostra intelligenza agli occhi dei popoli, i quali, udendo parlare di tutte queste leggi, diranno: Questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente. Infatti quale grande nazione ha la divinità così vicina a sé, come il Signore nostro Dio è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo?" (Dt 4,1-2.6-8).
Oltre alla fierezza d'Israele per essere stato scelto come destinatario di una "legge" che lo pone a capo di tutte le nazioni, in questo brano vorrei far notare due cose: a) la "legge" viene concepita come fonte di "vita", e perciò di libertà, e non come strumento di oppressione morale ("perché viviate...": v. 1); b) è anche attraverso la "legge" che Dio realizza una speciale intimità e "vicinanza" con il suo popolo, in quanto in tal modo è in continuo e diretto dialogo con lui ("Quale grande nazione ha la divinità così vicina a sé...?": v. 7).
Tutto questo però è vero nella misura in cui la "legge", che è una espressione della volontà di Dio, venga "accolta con docilità" e "messa in pratica", come ci insegna san Giacomo nella seconda lettura (Gc 1,21-22), cioè venga fatta vivere ed agire "all'interno del cuore dell'uomo", come ci ricordava sopra il Signore.

"Di sua volontà egli ci ha generati con una parola di verità"
Rispondendo a una difficoltà, che qualcuno ai suoi tempi (e anche oggi) poteva essere indotto a fare, e cioè che la "tentazione", nel senso di spinta al male, viene da Dio (1,13-15), in quanto può sembrare più forte della nostra stessa buona volontà, san Giacomo dichiara che da Dio, vengono soltanto le cose "buone": "Ogni buon regalo e ogni dono perfetto viene dall'alto e discende dal Padre della luce" (v. 17). Il male viene invece dalla "concupiscenza", che è nel nostro cuore (v. 14).
Da Dio viene soprattutto la "parola della verità", cioè il Vangelo, che ci fa "rinascere" a vita nuova nel battesimo (v. 18). Il problema però è quello di rendere attiva questa "parola", cercando di "viverla" e di realizzarla. "Accogliete con docilità la parola che è stata seminata in voi e che può salvare le vostre anime. Siate di quelli che mettono in pratica la parola e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi" (vv. 21-22).
Un esempio molto concreto di come si debba "fare" la parola è dato dal nostro atteggiamento di carità, soprattutto verso i più bisognosi: "Una religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro Padre è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e conservarsi puri da questo mondo" (v. 27).
Anche nella pratica religiosa, anzi soprattutto qui, determinante è la sincerità del "cuore": non basta credere, se poi non si vive la nostra fede!

                      Da CIPRIANI S.

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